Archive for Aprile 12th, 2023

Governo, il principio di realtà

mercoledì, Aprile 12th, 2023

MASSIMO FRANCO

Attribuire le responsabilità di quanto accade solo al governo in carica sa di alibi delle minoranze almeno quanto sa di scaricabarile della destra la tentazione di addebitarle all’esecutivo di Draghi. Sarebbe meglio prendere atto della situazione e discuterne in modo meno elettoralistico

Governo, il principio di realtà
Matteo Salvini e Giorgia Meloni (Ansa)

È difficile sottrarsi all’impressione di un governo sovrastato dalle emergenze. E circondato da una mole così imponente di variabili, da essere costretto a fotografarle e arginarle: senza potere ancora abbozzare una strategia in grado di prevenirle e sconfiggerle. Vale per l’immigrazione, che si presenta come un problema strutturale, fronteggiato ieri con la proclamazione di uno «stato di emergenza» di sei mesi. Anche lessicalmente, infatti, la risposta riflette un fenomeno difficilmente governabile; e aggravato dalla persistente indifferenza di gran parte dei Paesi europei.

Può darsi che alla fine il provvedimento serva davvero a rendere più efficaci e rapide le risposte. Ma sia l’esiguità dei fondi destinati allo scopo, sia i timori di un aggravamento del problema, già emerso nelle ultime settimane, consigliano cautela. Sottolineare troppo l’efficacia di misure che alla fine debbono fare i conti con una realtà difficile rischia sempre di rivelarsi a doppio taglio; e di dare fiato a opposizioni che oscillano tra istinti autodistruttivi e estremismo antigovernativo. Si tratta di dinamiche sempre più evidenti anche quando si parla di Piano per la ripresa.

Il fatto che la logica emergenziale si proietti quasi per inerzia perfino su un progetto strategico per l’Italia, finisce per oscurare limiti oggettivi e margini di manovra risicati.

Per quante critiche si possano rivolgere al governo di destra guidato da Giorgia Meloni, sottovoce il giudizio condiviso è che qualunque esecutivo si sarebbe trovato a affrontare problemi simili: di ritardi, di infrastrutture inadeguate, di difficoltà a spendere i finanziamenti europei.

L’opacità che si riscontra in alcuni dei progetti in incubazione è in primo luogo il frutto di una zavorra burocratica e culturale; e di un cambiamento dello sfondo in cui l’esecutivo è costretto a operare. Pandemia ma soprattutto aggressione russa all’Ucraina sono oggettivamente elementi di trasformazione dai quali nessuna nazione europea può prescindere. Probabilmente, quando a Palazzo Chigi c’era Mario Draghi, la durezza della realtà veniva percepita in modo meno drammatico. Ma si intravedeva già allora.

È comprensibile che da sinistra si accusi Palazzo Chigi di mettere in discussione un’occasione storica per riformare il Paese. L’ammissione delle strozzature, fatta nelle scorse settimane da esponenti del governo, conferma un percorso tutt’altro che facile. Rivela la volontà di non nascondere una serie di passaggi che metteranno a dura prova la credibilità dell’Italia; e di evitare che una battuta d’arresto sui finanziamenti possa essere sfruttata da chi in Europa li ha sempre considerati troppo generosi, e magari aspira a ricalibrarli a proprio vantaggio.

Rating 3.00 out of 5

Il Pd cala, il centrodestra sale ancora: il sondaggio che preoccupa la Schlein

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Luca Sablone

Il quadro della politica italiana inizia a mostrare i primi cambiamenti di assoluto rilievo dopo mesi di calma piatta. Il centrodestra resta abbondantemente la coalizione verso cui gli italiani nutrono maggiore fiducia, rafforzando ancora di più il vantaggio rispetto alla sinistra. I partiti che compongono la maggioranza di governo attraversano un momento positivo, mentre quasi tutti quelli che si trovano all’opposizione perdono terreno. È quanto emerge dall’ultimo sondaggio di Tecnè per l’Agenzia Dire.

I numeri del sondaggio

Non si registra alcuna novità al vertice: Fratelli d’Italia resta stabile al 29,7% e si mantiene molto avanti a discapito degli altri avversari che occupano il podio. Arriva la battuta d’arresto per il Partito democratico di Elly Schlein: i dem nel giro di una settimana perdono lo 0,2% e vanno al 19,8%, scendendo così sotto la soglia del 20%. Lascia voti per strada anche il Movimento 5 Stelle che – con una lieve flessione negativa dello 0,1% – cala al 15,4%.

Cresce invece la Lega di Matteo Salvini, che porta a casa un incremento dello 0,1% che fa salire il Carroccio all’8,7%. La sostanziale novità riguarda il boom di Forza Italia: gli azzurri in soli sette giorni mettono a segno un ottimo +0,7% e volano all’8,1%. I forzisti sorpassano così il Terzo Polo che – pur salendo dello 0,1% – si ferma al 7,4%.

Infine si trovano i restanti partiti che possono contare su minori preferenze rispetto ai principali partiti del nostro Paese: Verdi-Sinistra italiana al 3,1% (-0,1%), +Europa al 2,1% (-0,2%) e Italexit con Gianluigi Paragone all’1,6% (-0,1%). La quota di preferenza per altri partiti si attesta al 4,1%, in calo dello 0,2%.

Rating 3.00 out of 5

Beni culturali, super multe a chi rovina i monumenti

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Multe fino a 60mila euro per chi imbratta o vandalizza monumenti. Le prevede il disegno di legge recante «Disposizioni sanzionatorie in materia di distruzione, dispersione, deterioramento, deturpamento, imbrattamento e uso illecito di beni culturali o paesaggistici» presentato nel Consiglio dei ministri odierno, su proposta del ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano, che l’AGI ha potuto visionare. Lo schema all’esame del Cdm, composto da un articolo, stabilisce che, «ferme le sanzioni penali applicabili, chiunque distrugge, disperde, deteriora o rende in tutto o in parte inservibili o non fruibili beni culturali o paesaggistici propri o altrui è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 20.000 a euro 60.000».

Ecco com'è ridotta la Barcaccia di piazza di Spagna dopo il blitz degli eco-teppisti

Video su questo argomento

Chi «deturpa o imbratta beni culturali o paesaggistici propri o altrui, ovvero destina i beni culturali a un uso pregiudizievole per la loro conservazione o integrità ovvero a un uso incompatibile con il loro carattere storico o artistico, è punito con la sanzione amministrativa del pagamento di una somma da euro 10.000 a euro 40.000». Il verbale contenente l’accertamento e la contestazione delle violazioni deve essere notificato al responsabile entro 120 giorni dal giorno in cui il fatto è stato commesso. I proventi delle sanzioni sono devoluti al Ministero della cultura che lo destinerà «prioritariamente» per il ripristino dei beni imbrattati o danneggiati. Se si paga la sanzione entro 30 giorni dalla notifica, si può godere di uno ’scontò, ma non se questo sconto si è ottenuto nei 5 anni precedenti il fatto. «Per tutto quanto non espressamente indicato è applicabile la legge 689/1981. Quando per lo stesso fatto è stata applicata la sanzione amministrativa pecuniaria indicata ai commi 1 e 2 o una sanzione penale, l’autorità giudiziaria e l’autorità amministrativa tengono conto delle misure punitive già irrogate e la sanzione pecuniaria amministrativa »è limitata alla parte eccedente quella riscossa« dall’autorità amministrativa o da quella giudiziaria. La proposta ha carattere ordinamentale e non determina nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica, precisa la relazione tecnica. L’ipotesi di sanzione amministrativa ’doppià quella già prevista dll’articolo 518 duodecies del codice penale e »fa salve le ulteriori e diverse sanzioni da questo previste«.

Rating 3.00 out of 5

Il nodo delle nomine: Descalzi regista ispira la premier, i fedelissimi per energia e difesa

mercoledì, Aprile 12th, 2023

ILARIO LOMBARDO

ROMA. Per dire del caos: poco prima della mezzanotte l’incertezza è tale che due fonti diverse davano due nomi diversi per la stessa poltrona di amministratore delegato di Enel. Una, Stefano Donnarumma, come da volontà di Giorgia Meloni. L’altra, Flavio Cattaneo, pluri-sponsorizzato, sostenuto dalla Lega, ma mai digerito fino in fondo dalla premier.

Le trattative sprofondano nella notte, ma se va come da ultimo foglietto fatto filtrare da Palazzo Chigi, ha prevalso una visione precisa, condivisa da Meloni e dall’ad di Eni Claudio Descalzi, che punta a dare un’assicurazione geopolitica all’Italia, legando con il fil di ferro della politica industriale l’energia, Eni, e la difesa, Leonardo. In tempi di guerra, le grandi aziende di Stato hanno un valore strategico ancora più alto, sono la piattaforma fondamentale per custodire l’interesse nazionale di fronte ai venti freddi di un nuovo scontro globale. L’impoverimento improvviso di gas russo, dopo l’invasione dell’Ucraina ordinata da Vladimir Putin, e la riformulazione dei principi di deterrenza, che ha accompagnato la fornitura di armi dell’Occidente a Kiev, ha reso necessario blindare i settori dell’energia e della sicurezza, militare e civile. Così ci spiegano da Palazzo Chigi il pensiero di Giorgia Meloni, dopo la ormai quasi certa conferma degli amministratori delegati delle cinque big partecipate. Che poi è il pensiero di chi ha sussurrato all’orecchio della presidente del Consiglio sin dal giorno in cui ha ricevuto la campanella dalle mani di Mario Draghi. Descalzi è il vero regista di queste nomine di Stato. Della prima linea dei manager scelti, imposti o confermati.

La cronaca delle ore finali della serata di trattative spiega bene i complicati rapporti tra gli alleati di centrodestra. Intorno alle 20 viene annunciata informalmente una nota per le 23. Alle 22 il comunicato è sospeso. La scusa ufficiale è il viaggio di Giancarlo Giorgetti verso Washington. Il ministro dell’Economia è in volo e si vuole attenderlo, perché è lui a dover firmare le liste. In realtà ci sono nodi ancora non sciolti. Sulle presidenze, sulle compensazioni da offrire a leghisti e berlusconiani. E per capire il senso più politico dello schema di collocazioni voluto da Meloni bisogna tornare sempre allo stesso nome, quello che ha fatto ballare la coalizione di governo per settimane. Da lì si capisce tutto il resto. «Roberto Cingolani ci serve a Leonardo». E su questa posizione Meloni è rimasta fino a ieri sera, nonostante le minacce di sabotaggio di Lega e Forza Italia. È una manovra a due, eseguita con la partecipazione di Descalzi, che con l’ex ministro della Transizione ecologica del governo Draghi ha saldato un’alleanza cruciale. Cingolani è l’uomo che dovrebbe traghettare verso l’ignoto mare della cybersecurity i business di Leonardo, con un occhio alla guerra ibrida di Putin, agli eserciti di hacker che dall’Oriente più prossimo a quello più estremo potrebbero lanciare attacchi alle reti che trasportano elettricità e gas. Per questo Meloni ha sempre interpretato come un pacchetto unico la scelta di tutti gli amministratori delegati: Descalzi, Cingolani, ma anche i manager delle altre due grandi società che si occupano di energia e reti, Stefano Donnarumma, osteggiatissimo dai leghisti ma che la leader di FdI ha chiesto di far traslocare da Terna a Enel, e Giuseppina Di Foggia, unica donna Ceo come la presidente del Consiglio aveva promesso lo scorso 8 marzo.

Questi i punti fermi di Meloni, attorno ai quali ha aperto un tavolo con i recalcitranti alleati e compagni di partito. Tra tanti no, qualche sì, qualche ripensamento, la premier ha condotto una trattativa in un clima levantino. Con furbizie e attese. Al suo fianco, sempre Giovambattista Fazzolari. Negoziatore di fiducia, come lo sono Andrea Paganella per Matteo Salvini e Gianni Letta per Antonio Tajani in rappresentanza di Silvio Berlusconi. Ieri erano tutti presenti, all’ultimo decisivo confronto. Teso, dicono. Con momenti anche di imbarazzo, come quando è stato fatto presente che non sarebbe stato carino nei confronti di Berlusconi, mentre è in terapia intensiva, deluderlo sull’unico nome che aveva sponsorizzato tramite Letta: Paolo Scaroni. Meloni ha fatto di tutto per evitare di averlo alla presidenza dell’Enel, come chiesto, controproponendo prima Terna e poi – senza troppa convinzione – Poste. Alla fine, pare, abbia ceduto proprio per rispetto al momento non facile di Berlusconi.

Rating 3.00 out of 5

Lo scacco matto della Premier

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Stefano Lepri

Un leader che vuole durare deve tentare di guardare più in là dei partiti che lo sostengono; deve almeno far mostra di sottrarsi a patteggiamenti di potere quando si tratta di aziende che hanno un peso importante nell’economia del Paese. Giorgia Meloni ha intrapreso questa sfida con ambizione ma deve accettare compromessi.

Riuscirà a imporre alla guida di Leonardo, ex Finmeccanica, azienda di importanza anche militare, un tecnico senza etichette di partito come Roberto Cingolani (che però ha scarsa esperienza come manager). Rischia invece di subire il recupero come presidente Enel di Paolo Scaroni, che all’Eni fino al 2014 promosse la dipendenza dalle forniture di gas russo.

Comunque vada, dopo un accordo frutto di vari do ut des, le nuove dirigenze societarie che usciranno da questa prova saranno meno forti. Non va bene, proprio in una fase in cui nuovi importanti investimenti, quelli legati al Pnrr, richiederanno anzi maggiore incisività ed efficienza, specie da parte di chi si occupa di energia.

Si è discusso di poltrone da occupare senza mai discutere nel merito se i capi azienda da sostituire o da confermare abbiano operato bene o male durante i loro mandati; se alcune scelte fossero buone o cattive, o se semplicemente, dopo anni che la stessa persona è alla guida, si ritiene preferibile un ricambio.

Le questioni di sostanza restano eluse. L’Eni ha saputo realizzare in poco più di un anno prima sotto il governo Draghi poi sotto l’attuale, una conversione rapida delle forniture per svincolarsi da Mosca. Però non si è mai chiarito se le alternative ora sfruttate, come l’Algeria, fossero state disponibili già da prima e perché fossero state scartate.

Se scelte anche valide, su queste aziende che molto contribuiscono all’immagine dell’Italia all’estero, vengono controbilanciate da patteggiamenti su altre, si rischia di allarmare gli investitori privati dai quali proviene una fetta consistente del capitale azionario. Sarà lecito domandarsi se d’ora in poi le mosse aziendali saranno sottoposte a maggiore influenza politica.

Negli anni ’80, furono queste pratiche perverse – compresa la «lottizzazione» degli incarichi di dirigente fino ai livelli intermedi – a completare il dissesto di aziende già deformate dal loro asservimento a scopi di consenso politico. Alcune furono chiuse, altre vendute; negli anni ’90 nuovi manager capaci dovettero faticare molto per ritrovare l’efficienza, ma per fortuna ci riuscirono.

Quei tempi non possono ritornare. Mercati aperti e concorrenziali e azionisti di minoranza attenti non lo permettono. Ai manager poco disposti a sottomettersi è più facile sbattere la porta. Però in un Paese dall’amministrazione inefficiente e dalla politica sempre assai permeata dalla corruzione le grandi partecipate di Stato svolgono un ruolo cruciale.

Rating 3.00 out of 5

Pd, il primo mese di Elly Schlein: stato maggiore in allarme, ma i sondaggi smorzano le polemiche

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Federico Geremicca

L’ultima novità l’hanno dovuta digerire venerdì scorso, quando qualcuno li ha avvisati di metter mano rapidamente al cellulare e connettersi con Instagram, che la segretaria stava presentando la sua segreteria. Accidenti, ma che modi: la nuova segreteria, mai discussa con loro, annunciata su Instagram. Per il partito più continuista d’Italia, per i nipoti di Dc e Pci, come veder nominare dei cardinali via TikTok…

È bastato un mese – il primo mese sotto la guida di Elly Schlein – perché negli stati maggiori del Partito democratico (a Roma e in periferia) molti vedessero confermati i propri timori: anzi, più che confermati, ingigantiti. Ma è stato sufficiente lo stesso identico mese perché chi è fuori dagli stati maggiori del Pd, vedesse – al contrario – confermate le proprie speranze: anzi, più che confermate, moltiplicate. In sintesi: trenta giorni è stato il tempo necessario per render chiaro, dentro e fuori, perché gli stati maggiori non volessero la Schlein e perché invece è arrivata.

Non è la prima volta che nel Pd, come si dice, salta il tappo. Esattamente dieci anni fa, con Matteo Renzi, andò in scena lo stesso copione. Lasciamo perdere che i due sono come il giorno e la notte: a far da propellente per entrambi sono stati e furono le sconfitte dei predecessori e l’irrefrenabile insofferenza di elettori e simpatizzanti verso gruppi dirigenti eterni e litigiosi. Renzi promise una vasta rottamazione; la Schlein ha annunciato un più modesto «cambiamento»: se infatti avesse detto quel che aveva davvero in testa, forse perfino qualcuno dei suoi più stagionati supporter avrebbe cambiato campo…

Eppure, nel Pd tutto più o meno tace. Le voci dissonanti sono flebili. Si simulano polemiche ma senza passione. Nessuno alza la voce. Una spiegazione per questa fase (che eviteremo di definire già di quiete prima della tempesta) naturalmente esiste. E non è l’adesione ad una linea che nelle sue pieghe – peraltro – fatica ancora a definirsi. Né è l’apprezzamento verso uno stile di direzione così spiccio. Più semplicemente, la spiegazione è nella forza dei numeri che stanno accompagnando il cammino della nuova segretaria.

Sono numeri di sondaggi, naturalmente: ma quando si esce da una battaglia come quella persa il 25 settembre, anche i sondaggi hanno un loro fascino… C’è un dato, infatti, da non accantonare: dopo il 19 per cento delle elezioni politiche, il Pd ha continuato a flettere per mesi, tanto che l’ultima rilevazione prima dell’avvio del complicato iter congressuale (Swg per La7, 30 gennaio) vedeva il partito fotografato al 14,2 per cento (scavalcato e distanziato dai Cinque stelle).

Ora, un leader politico – a volte – è giudicato come si giudica un allenatore: magari non ti piace come fa giocare la squadra, ma se poi vince lo scudetto… I numeri di Elly Schlein, per ora, sono indiscutibili. L’ultimo sondaggio (10 aprile) attribuisce infatti al Pd il 20,7 dei consensi: sei punti e mezzo in più rispetto al minimo storico di fine gennaio. Non basta. I Cinque stelle, infatti, sono tornati dov’erano (15,1) e il Terzo polo ha ripreso la sua discesa (7,7).

Rating 3.00 out of 5

Migranti, il governo vara lo stato di emergenza: l’obiettivo è svuotare gli hotspot

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Francesco Olivo

ROMA. Ora l’emergenza è ufficiale e certificata. Il governo Meloni è in difficoltà per l’aumento degli sbarchi sulle coste italiane, gli hotspot sono pieni e bisognava dare una risposta. Così si è arrivati allo stato d’emergenza sulla questione migratoria, il primo dal 2011. La richiesta, molto pressante, è arrivata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, mentre formalmente la proposta è di Nello Musumeci, ministro del Mare, con delega alla protezione civile. Nei prossimi giorni sarà nominato un commissario, che con tutta probabilità sarà Valerio Valenti, ex prefetto di Firenze, attualmente capo del dipartimento immigrazione del Viminale.

Lo stato d’emergenza durerà, per il momento, sei mesi, con l’obiettivo di superare l’estate, sperando che la situazione internazionale possa favorire una riduzione dei flussi. La prima dotazione è di cinque milioni di euro, cifra considerata nel ministero solo un primo stanziamento.

Si tratta di una misura amministrativa, fondamentalmente per svuotare gli hotspot, che però ha inevitabili risvolti politici: «Abbiamo deciso lo stato di emergenza sull’immigrazione per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi», ha dichiarato Giorgia Meloni con una nota al termine del Consiglio dei ministri. L’opposizione attacca: «Risuonano lontane le false promesse elettorali di fantomatici e irrealizzabili blocchi navali – dice Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle -. Quando era all’opposizione Meloni, con l’Italia in ginocchio per il Covid, si stracciava le vesti contro la proroga dello stato di emergenza, eppure lo stato di emergenza in quel momento era una scelta davvero necessaria». «L’emergenza non è quella dei migranti ma quella di una situazione economica e sociale difficile e di una inflazione che ammazza gli stipendi», aggiunge Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato. «In questo modo avremo probabilmente degli standard di accoglienza più bassi di quelli minimi previsti, con “strutture parcheggio” e affidamenti fatti senza evidenza pubblica, con tutti i rischi che ne conseguono”, dice Riccardo Magi, capogruppo alla Camera di + Europa.

Il primo obiettivo che il governo si pone con lo stato d’emergenza è intervenire sulle strutture, poter andare in deroga al codice degli appalti, viene considerato fondamentale per poter creare nuovi cpr, i centri di permanenza per i rimpatri (il decreto Cutro ne prevede almeno uno per regione). L’altro scopo è snellire la procedura dei trasferimenti, secondo il Viminale l’aumento degli sbarchi (“del 300%”) fa sì che spesso, in particolare a Lampedusa, non ci sia nemmeno il tempo per svuotare gli hotspot. Senza procedure d’emergenza, anche i semplici noleggi di charter e navi devono essere sottoposti a gare europee, procedure che per sei mesi potranno essere più rapide.

Con l’ingresso nello stato d’emergenza poi si attua una via preferenziale anche per l’accesso al fondo di emergenza nazionale, della presidenza del Consiglio, che però va rifinanziato, perché qui si attinge per ogni tipo di situazione straordinaria, a partire dalle calamità naturali.

Rating 3.00 out of 5

I conti con il nostro passato: la saggezza della Costituzione

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto

C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di «passato che non passa». Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’«audience». All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione.

Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» recita: «In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».

In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i «capi responsabili del regime fascista» (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica.

Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti «capi responsabili» del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo — essi piuttosto si auguravano — ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia — quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile — hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare.

Rating 3.00 out of 5

Intervista a Calenda: «Renzi deve sciogliere Italia viva. Io lavoro 25 ore al giorno, lui vuole le mani libere»

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Maria Teresa Meli

Il leader di Azione: «Così cerca di bloccare ogni passo avanti fino alle Europee». «Non puoi fare credibilmente un partito con uno che ti avverte che farà il direttore del Riformista un quarto d’ora prima che accada»

Intervista a Calenda: «Renzi deve sciogliere Italia viva. Io lavoro 25 ore al giorno, lui vuole le mani libere»

Carlo Calenda, che succede, lei e Matteo Renzi state divorziando?
«Lo deve chiedere a lui. Sono 48 ore che vengo bersagliato da attacchi anche personali da parte di quasi tutti i dirigenti di Italia viva. Il punto per noi è politico: Renzi si rifiuta di prendere l’impegno di sciogliere Italia viva quando nascerà il nuovo partito e sta bloccando ogni passo avanti sulla strada del partito unico. E questo è un problema: se da due partiti non nasce un partito ma ne nascono tre significa semplicemente che vuoi tenerti le mani libere».

Intanto il coordinamento del Terzo polo non si riunisce più, per quale motivo?
«Perché a dicembre con un colpo di teatro Renzi è ridiventato segretario di Italia viva, accentrando su di sé tutti i poteri e levando Ettore Rosato con cui lavoravamo molto bene e che sedeva negli organi di coordinamento del Terzo polo. Oggi nel Comitato politico del Terzo polo non c’è nessuno che può prendere impegni per Italia viva. Le sembra normale? E anche il gruppo che doveva studiare le regole del congresso non riesce più a riunirsi perché da Italia viva non danno disponibilità. Quindi Renzi deve fare chiarezza».

E come si dovrebbe fare chiarezza secondo lei?
«Intanto rispondendo al documento che gli ho mandato da settimane per preparare il processo che porterà al partito unico e poi dicendo con chiarezza se è disponibile a sciogliere Italia viva, perché se non è disponibile non nasce nessun partito».

Rating 3.00 out of 5

Approvato il Def: 3 miliardi per il taglio del cuneo fiscale. Meloni: «Misure per la natalità»

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Enrico Marro

Approvato il Def: 3 miliardi per il taglio del cuneo fiscale. Meloni: «Misure per la natalità»

Il governo taglierà ulteriormente i contributi a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi per un valore complessivo di «oltre tre miliardi a valere sul periodo maggio-dicembre 2023». Lo ha deciso martedì il Consiglio dei ministri che ha approvato il Def, il Documento di economia e finanza. I tre miliardi che verranno utilizzati per «sostenere il potere d’acquisto delle famiglie» derivano dal mantenimento dell’obiettivo di un deficit quest’anno pari al 4,5% del prodotto interno lordo a fronte di un tendenziale (cioè a legislazione vigente) del 4,35%. Il governo aumenterà dunque di poco più di 3 miliardi il deficit, portandolo al 4,5%, per ridurre il cuneo fiscale, «con un provvedimento di prossima attuazione», a favore dei lavoratori a reddito medio-basso. Sulla scia, quindi, di quanto fatto con l’ultima legge di Bilancio, che aveva confermato per il 2023 il taglio di due punti dei contributi sulle retribuzioni fino a 35mila euro lordi, aggiungendo un punto (per un totale di tre) per quelle fino a 25mila euro. Un’operazione costata complessivamente 4,2 miliardi. Ai quali ora se ne aggiungono appunto tre. le misure

Pil in frenata

Anche per il 2024 i margini di manovra resteranno limitati. Se infatti il Pil di quest’anno viene rivisto inleggera crescita, all’1% come obiettivo programmatico rispetto allo 0,6% fissato lo scorso novembre e allo 0,9% tendenziale, per il 2024 la correzione è invece al ribasso: l’obiettivo di crescita è posto infatti all’1,5% contro il precedente 1,9%. E la frenata del Pil proseguirà nel 2025 con un + 1,3% e nel 2026 con un + 1,1%. Rispetto al 2022, quando la crescita è stata del 3,7%, pesano la congiuntura segnata da inflazione e bassa crescita, l’incertezza legata alla guerra, ma anche, spiega l’Economia, il rialzo dei tassi di interesse e «l’affiorare di localizzate crisi nel sistema bancario e finanziario internazionale». Del resto, proprio ieri il Fondo monetario internazionale ha corretto al ribasso le stime di crescita. Il Pil del mondo crescerà quest’anno del 2,8% e il prossimo del 3%, lo 0,1% in meno di quanto previsto in precedenza. Quello dell’Italia aumenterà nel 2023 dello 0,7%, ovvero lo 0,1% in più rispetto alle precedenti previsioni di gennaio, ma meno dell’1% previsto nel Def. E per il 2024 il Fmi stima un +0,8% contro il + 1,5 del governo. La cui linea è difesa dalla premier, Giorgia Meloni, che commenta così il Def: «Il governo ha tracciato la politica economica per i prossimi anni, una linea fatta di stabilità, credibilità e crescita. Rivediamo al rialzo con responsabilità le stime del Pil e proseguiamo il percorso di riduzione del debito pubblico. Sono le carte con le quali l’Italia si presenta in Europa». Sulla crescita modesta pesano anchele difficoltà nell’attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Tanto che dal ministero dell’Economia si osserva che «per rendere il nostro Paese più dinamico, innovativo e inclusivo non basta solo il Pnrr. È necessario investire anche per rafforzare la capacità produttiva nazionale e lavorare su un orizzonte temporale più esteso».

Rating 3.00 out of 5
Marquee Powered By Know How Media.