“Sul carrello della spesa si stanno facendo profitti esagerati,
perché negli ultimi mesi i costi di produzione sono molto scesi,
pensiamo al prezzo del gas, mentre gli aumenti per le famiglie hanno
continuato a correre”. A denunciarlo è il segretario generale della
Cgil, Maurizio Landini, in un’intervista al Corriere della Sera.
Intanto, “i salari – evidenzia Landini – devono aumentare. Dall’inizio
di quest’ondata d’inflazione si sente parlare solo del rischio che i
rinnovi dei contratti inneschino una spirale prezzi-salari. Quel che si è
visto è diverso, salari fermi e profitti delle imprese in crescita, che
ora non ritirano gli aumenti anche se producono a costi molto minori di
sei mesi fa. E investimenti delle imprese comunque deboli. A fronte di
imprese che non moderano i rincari diventa indispensabile – rimarca – un
contributo straordinario di solidarietà sui profitti”.
Non fa ridere, non fa riflettere, non provoca e non ha niente a che
fare con l’arte. Fa schifo. Punto e basta. Parliamo del quadro – ammesso
che si possa chiamare così una roba del genere – esposta nella Zona
rossa del Torino comics. Rossa perché vietata ai minori ma,
evidentemente, anche per passione politica.
Scusate il linguaggio,
più consono alla descrizione di un video di Youporn, ma è necessario
per descrivere il contenuto e la levatura dell’opera: un fallo che
eiacula sul viso di Matteo Salvini mentre fa un saluto romano. Capite
bene che più che nel campo artistico siamo in quello psichiatrico.
L’illustrazione è di tale Luis Quiles, disegnatore spagnolo semi
sconosciuto e del quale non sentivamo la mancanza. L’immagine è stata
rilanciata sui social network, con più che legittima indignazione, dallo
stesso ministro dei Trasporti che la ha commentata così: «Opera
“d’arte” esposta a Torino. A me, con tutto il rispetto, pare solo una
schifezza disgustosa. Direi penosa». Poco dopo arriva la controrisposta
del pittore che si compiace beotamente della reazione del vice primo
ministro.
Il
problema è ovviamente tutto politico. Non se ne può più di questi
presunti artisti di sinistra che pretendono che tutte le loro
frustrazioni diventino provocazioni, che le loro ossessioni
psichiatriche si trasformino in capolavori. Erano, sono e resteranno
delle mediocri schifezze. Ed è ancora più irritante che proprio quella
parte politica che sventola in continuazione la propria superiorità
morale, squaderna i sacri testi del politicamente corretto e finge di
difendere tutte le possibili minoranze poi faccia esplodere la sua
violenza bestiale e volgare contro i politici di destra. Sono gli
alfieri di un falso e viscido buonismo che poi diventano cattivissimi
con chi non la pensa come loro. E, in particolare, con Matteo Salvini
che è diventato il parafulmine di tutte le isterie progressiste.
Da uno studio condotto da Distretto Italia è emerso che il
maggior fabbisogno di unità lavorative in ambito tecnico è al Nord. A
seguire ci sono le Isole, il Centro e il Sud
Ignazio Riccio
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L’analisi a campione condotta dal Centro Studi di Distretto
Italia sul fabbisogno lavorativo delle imprese italiane ha fornito un
dato interessante: le aziende sono alla ricerca di oltre 10mila tecnici nell’ambito
dei settori energia, telecomunicazioni, costruzioni e digitale. Si
tratta di un’opportunità da cogliere al volo per quei tanti giovani in
cerca di un’occupazione, i quali potrebbero trovare la strada giusta per
inserirsi nel mondo del lavoro. Ma come si può fare per candidarsi ai
ruoli ricercati dalle imprese?
I corsi
L’opportunità
è data dai corsi organizzati a livello nazionale. Le persone
interessate possono già iscriversi alle prime quattro Scuole dei
Mestieri che avvieranno la formazione per posatori di
fibra ottica, responsabili di cantiere e impiantisti e per programmatori
software. Per i primi due corsi le lezioni dureranno cinque settimane,
dopodiché si potrà accedere al mercato del lavoro, mentre per i programmatori
la durata della formazione è di venti settimane. È possibile candidarsi
accedendo alla piattaforma web www.distrettoitalia.elis.org.
Gli enti coinvolti nel progetto
Sono
trentaquattro i soggetti coinvolti nel progetto di formazione di nuovi
tecnici. A capo della cordata, per i primi sei mesi, c’è Autostrade per l’Italia.
Gli altri enti partecipanti sono: A2A, Acciaierie d’Italia, Adecco,
Bain & Company, Bnl Bnp Paribas, Boston Consulting Group, Cisco,
Confimprese, Enel, Engineering, Eni Corporate University, Ferrovie dello
Stato, Fincantieri, FMTS Group, Fondazione Cassa Depositi e Prestiti,
Generali Italia, Gi Group, Gruppo FNM, Made in Genesi, ManpowerGroup,
Milano Serravalle – Milano Tangenziali, OpenEconomics, Open Fiber,
Orienta, Poste Italiane, Randstad, SITE Spa, Skuola.net, Soft Strategy, Synergie, TIM, Trenord e Umana.
I numeri del fabbisogno lavorativo
Dallo studio condotto da Distretto Italia
è emerso che il maggior fabbisogno di unità lavorative in ambito
tecnico è al Nord, con il 31% delle richieste. A seguire ci sono le
Isole, con il 12%, il Centro, con il 6%, e il Sud, con il 4%. La
restante domanda, pari al 47%, è spalmata su tutto il territorio
nazionale. I profili di tecnici più richiesti sono: addetti alla posa di
cavi di fibra ottica (35%), responsabili di cantiere (8%), tecnici operativi (6%), tecnici programmatori (7%).
Difficile strappare qualche minuto nell’agenda fittissima di
impegni di Sergio De Caprio, il Capitano Ultimo che trent’anni fa ha
ammanettato il capomafia Totò Riina: «Gestiamo una casa famiglia per
dieci persone che non possono vivere nelle loro abitazioni per i
problemi dei familiari. Poi ci sono la mensa per i poveri e le docce.
Ancora, ospitiamo otto senza fissa dimora, gratis». Ti guardi intorno e
non è finita: «C’è l’orto sociale, altre persone preparano il pane nel
forno a legna, facciamo da mangiare».
Preghiera e impegno
sociale, nella periferia sud-est della Capitale. «Qui c’è una capanna
aperta, un altare, padre Max che ogni domenica celebra la funzione. E la
fontana con cui regaliamo quel che chiamiamo canto dell’acqua». Non
sono religiosi. Sono carabinieri, affiancati da comuni cittadini, a far
andare avanti da 12 anni questo esperimento di solidarietà.
Sulla
figura del Capitano Ultimo, quello che alla testa di un manipolo di
«soldati straccioni» il 15 gennaio 1993 riesce ad arrestare nel centro
di Palermo la “belva” Riina e in caserma lo fa fotografare sotto la foto
del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, poi interpretato da Raoul Bova
in una fiscion di successo, è uscito il libro di Pino Corrias Hanno fermato il Capitano Ultimo
(Chiarelettere). Un volume utile per riconnettere logicamente le fasi
della lotta alla mafia. Dopo l’arresto di Riina, per De Caprio c’è la
gratitudine del Paese intero. Poi arriva una serie di accuse, di
processi. Una carriera distrutta. Nulla potrà mai risarcirlo, nemmeno
l’assoluzione nel processo per la mancata perquisizione del covo di
Riina, con l’accusa di favoreggiamento a Cosa Nostra, finito con
l’assoluzione.
Per molti, Ultimo è una leggenda. Per altri un
soldato fuori controllo. Così gli viene pure revocata la scorta, nel
2019. Gli verrà restituita dal Consiglio di Stato. Ma intanto 120
carabinieri si erano già messi a disposizione: «Gliela garantiamo noi,
nel nostro tempo libero».
Esiste davvero la foto di Silvio Berlusconi accanto al boss di Cosa
nostra Giuseppe Graviano? Di quell’immagine – fin qui mai trovata dagli
inquirenti della Dda di Firenze nemmeno nel corso dell’ultima
perquisizione datata 27 marzo 2023 – che ritrarrebbe il fondatore di
Forza Italia, l’allora generale dei carabinieri Francesco Delfino e
Giuseppe Graviano prima che si alzasse il sipario sulla stagione delle
stragi continentali, Salvatore Baiardo – considerato dagli investigatori
alla stregua di un ventriloquo dei boss stragisti – non ne ha parlato
solo con Massimo Giletti, ma anche con Report.
Ha detto di
averla, l’ha fatta vedere da lontano, ma non l’ha consegnata a nessuno.
«C’è un’indagine in corso e non posso scendere nei dettagli – afferma il
conduttore di Report, Sigfrido Ranucci – posso solo dire che noi non
abbiamo mai pagato una fonte in 25 anni di storia».
Ma perché
Baiardo voleva piazzare a tutti i costi quella foto, di cui ancora oggi
non sappiamo se fosse reale o se si trattasse di un fotomontaggio?
L’idea che comincia a farsi largo, per ora solo come ipotesi ma pur
sempre al vaglio degli investigatori, è che dietro questo atteggiamento
di Baiardo ci sia un intento ricattatorio. Verso chi, non è noto nella
forma ufficiale, ma non sarebbe complicato intuirlo per un uomo, già
condannato per favoreggiamento dei mafiosi, che da mesi sproloquia
profetizzando clamorosi arresti (vedi Matteo Messina Denaro, le cui chat
nella clinica privata di Palermo sarebbero state vendute a «Non è
l’Arena» da Fabrizio Corona), augurandosi – o chiedendo palesemente – la
concessione di benefici per membri di spicco di Cosa Nostra detenuti al
41 bis diventati, nel suo pericoloso lessico «bravi ragazzi che hanno
fatto degli errori». Il bersaglio è la magistratura? Il conduttore
Massimo Giletti, convocato (non auto-presentatosi) come persone
informata sui fatti e quindi come testimone e sentito già due volte dal
procuratore Luca Tescaroli è stato tra i primi a introdurre il tema del
ricatto: «Me l’ha fatta vedere (la foto ,ndr), senza consegnarmela,
tenendola lontana da me, eravamo in un luogo scuro in un bar a Castano,
vicino a Milano».
Ma il conduttore tv, non sa se l’uomo
ritratto insieme a Berlusconi e Delfino fosse Graviano perché, come ha
spiegato ai magistrati, «non avevo una sua immagine in mente. Poteva
essere chiunque, fu Baiardo a dirmi che si trattava del boss mafioso, ma
io non potei riconoscerlo». «Baiardo – aggiunge Giletti – accennò,
inoltre, che avrebbe potuto mandare la foto ai magistrati. Mi disse
“questa potrebbe un domani arrivare ai pm, se le cose non vanno in un
certo modo” . Da quanto mi ha riferito, ho compreso che la foto è stata
scattata di nascosto e che dunque non era stata fatta con il consenso di
Berlusconi. Era dunque stata effettuata per fini di ricatto».
E
ancora: «Durante l’incontro che ho avuto con Baiardo mi ha detto che la
foto c’è e che, se le cose non dovessero andare in un certo modo, me la
potrebbe dare». L’anchorman ha poi chiarito agli inquirenti come quella
fotografia «mi è parsa una foto del tipo di quelle autoscatto
macchinetta usa e getta. Ho visto tre persone sedute a un tavolino.
Berlusconi l’ho riconosciuto, era giovane, credo fosse una foto degli
Anni 90, sono certo fosse lui anche perché in quel periodo lo seguivo
giornalisticamente. Ho riconosciuto anche Delfino, ma non so se fosse
autentica, se Berlusconi fosse consapevole che il terzo uomo ritratto
fosse Graviano e se quest’ultimo fosse realmente il boss».
Dal Dipartimento di giustizia americano l’indicazione «senza fissa dimora in Italia» e la scarsa chiarezza sui reati contestati. L’imprenditore russo evaso con il braccialetto elettronico dalla sua casa di Basiglio lo scorso marzo
Tra sbavature, sottovalutazioni e autogol che hanno punteggiato le scelte dei vari soggetti istituzionali intorno alla richiesta di estradizione negli Stati Uniti dell’uomo d’affari russo Artem Ussfermato a Malpensa il 17 ottobre 2022
(magistrati milanesi, ministero della Giustizia, servizi segreti, forze
dell’ordine, gestori di braccialetti elettronici), gli atti mostrano
che a dare il proprio contributo sono stati paradossalmente anche gli
americani: proprio all’inizio di tutto, e proprio su quelle circostanze
che, una volta risultate o non vere o non documentate, per converso
hanno costituito il presupposto sul quale poi il 25 novembre 2022 il
primo collegio della Corte d’Appello (Fagnoni-Curami-Caramellino) ha
fondato la decisione di accogliere dal 2 dicembre l’istanza difensiva di arresti domiciliari con braccialetto elettronico nella villa di Basiglio.
Quella da cui Uss il 22 marzo scorso, all’indomani del primo parziale
via libera all’estradizione comunque non operativa perché sottoposta a
ricorso pendente in Cassazione,è fuggito con grande facilità, per beffa portandosi via il braccialetto elettronico.
Quando infatti il 18 ottobre la Corte
d’Appello (in attesa che dagli Stati Uniti tramite Ministero arrivino
solo l’11 novembre la richiesta di estradizione e gli atti allegati)
convalida l’arresto provvisorio di Uss emesso «il 26 settembre dal
Dipartimento di giustizia americano per associazione per delinquere,
truffa e riciclaggio», lo fa per il (prospettato dagli americani) «concreto pericolo di fuga evidente nel fatto che Uss era in partenza per Istanbul insieme alla propria compagna», «per l’assenza di una fissa dimora in Italia», «per gli appoggi internazionali
che gli hanno consentito di allontanarsi dal luogo di commissione del
reato» indicato in New York. Tre circostanze però non esatte o
quantomeno non documentate dagli americani.
Dopo quasi 40 giorni di carcere a Busto Arsizio, infatti, i difensori Vinicio Nardo (allora presidente dell’Ordine degli avvocati di Milano) e Fabio De Matteis in una istanza di arresti domiciliari
hanno buon gioco a rappresentare ai giudici che, «contrariamente a
quanto indicato nella convalida dell’arresto, Uss è stato arrestato a
Malpensa non perché di passaggio nel nostro Paese, ma in quanto, dopo
aver soggiornato qualche giorno a Milano, stava rientrando via Turchia in Russia»;
e che «dalla documentazione americana non si arguisce risponda al vero
la circostanza, anch’essa riportata a sostegno del pericolo di fuga, che
Uss si sia allontanato dal luogo di commissione del reato, non risultando infatti si sia mai recato a New York».
La
legale era stata convocata dal promotore di Giustizia vaticano
Alessandro Diddi, come aveva chiesto più volte: ma sabato mattina ha
opposto il segreto professionale
Sulle accuse a papa Wojtyla, nell’ambito dell’inchiesta aperta in Vaticano sulla scomparsa di Emanuela Orlandi, il fratello Pietro
e l’avvocato Laura Sgrò si rifiutano di indicare le loro fonti al
Promotore di Giustizia. E’ accaduto nel corso del brevissimo incontro di
sabato mattina in Vaticano fra la legale della famiglia Orlandi, convocata in qualità di testimone per
riferire sulla provenienza delle informazioni su Giovanni Paolo II e
più in generale sul caso della ragazza scomparsa, e il Promotore di
Giustizia Alessandro Diddi, nel corso del quale l’avvocato Sgrò
ha scelto di opporre il segreto professionale alla richiesta di spiegare
da chi aveva ricevuto le informazioni sulle presunte attività illecite
di Giovanni Paolo II.
«La legale chiedeva da mesi quest’incontro»
Lo riporta Vatican News, citando una dichiarazione del direttore della Sala Stampa della Santa Sede Matteo Bruni: «Il
Promotore di giustizia Diddi, insieme al professor Gianluca Perone,
Promotore applicato, ha ricevuto l’avvocato Laura Sgrò, come da lei
ripetutamente e pubblicamente richiesto, anche per fornire quegli
elementi, relativi alla provenienza di alcune informazioni in suo
possesso, attesi dopo le dichiarazioni fornite da Pietro Orlandi.
L’avvocato Sgro si è avvalsa del segreto professionale».
Laura Sgrò: «False affermazioni, che sia fatta piena luce»
Dichiarazioni
contestate dall’avvocato Sgrò che, in una lettera ai vertici della
Comunicazione in Vaticano, sottolinea come tale «affermazione non
corrisponda al vero», chiedendo che sia «fatta piena luce» sulla
questione: «Il mio assistito , signor Pietro Orlandi, è stato ascoltato
per ben otto ore l’11 aprile u.s. dal promotore di Giustizia, prof.
Alessandro Diddi, al quale ha presentato una corposa memoria
corredata da un elenco di ventotto persone, chiedendo motivatamente che
siano presto ascoltate. Il signor Pietro inoltre si è reso
pienamente disponibile a fornire ogni altro chiarimento a richiesta
dello stesso promotore di Giustizia». L’avvocato Sgrò specifica poi in
merito ad una «mia personale audizione come persona informata dei fatti»
che «essa è evidentemente incompatibile con la mia posizione di
avvocato difensore della famiglia Orlandi». Ribadendo, infine, nel
rigettare le notizie circolate, che «il segreto professionale è
baluardo della verità stessa e attaccarlo significa impedire ad un
avvocato di poter apportare il proprio contributo alla verità».
La strage di Erba, dopo aver già conquistato il primato di
peggiore carneficina del nuovo millennio nel nostro Paese, colleziona
un’altra inquietante peculiarità: un sostituto procuratore generale dopo
aver letto gli atti chiede che il processo venga riaperto, affatto
convinto che Rosa e Olindo siano davvero gli assassini di quei quattro
innocenti ammazzati la sera dell’11 dicembre 2006 a Erba. Un documento
analitico, frutto di mesi di lavoro quello che il sostituto Cuno
Tarfusser, già procuratore capo a Bolzano e ora a Milano, ha elaborato,
dopo aver incontrato gli avvocati di Rosa e Olindo, i due che stanno
scontando l’ergastolo dopo la pronuncia definitiva della Cassazione nel
2011. Una richiesta sollevata «in tutta coscienza per amore di verità e
di giustizia e per l’insopportabilità del pensiero che due persone,
probabilmente vittime di errore giudiziario, stiano scontando
l’ergastolo». La conclusione è netta: «Fin dal primo grado c’erano prove
della loro innocenza».
Il documento è ora sulla scrivania del
procuratore generale Francesca Nanni perché sta a quest’ultima decidere
se vistarlo e trasmetterlo a Brescia per il vaglio della Corte d’Appello
sull’eventuale revisione, oppure archiviarlo non ritenendolo
condivisibile. Nel documento Tarfusser valorizza elementi controversi su
tutte le tre prove principali che portarono all’ergastolo. Si parte
dalle macchie di sangue della vittima sull’auto usata dagli imputati,
che sarebbe in realtà un effetto ottico, al riconoscimento e
l’identificazione di Olindo da parte di Mario Frigerio, unico testimone
della strage, che sarebbe compromesso dai “buchi” nelle intercettazioni
e, da ultima, la confessione stessa della coppia che poi ha ritrattato.
L’auto
accusa dei coniugi, per il magistrato, sarebbe «da considerarsi false
confessione acquiescente», la testimonianza di Frigerio una «falsa
memoria» legata al «peggioramento della condizione psichica» dell’uomo e
alle «errate tecniche di intervista investigativa». Osservazioni,
sottolinea il magistrato, che «se approfondite e valutate, avrebbero già
sin dal giudizio di primo grado potuto portare ad un diverso esito
processuale».
Hanno colpito il sostituto procuratore generale,
sia le intercettazioni ambientali di quando Frigerio era in ospedale,
mai entrate nel procedimento, sia gli audio e i video effettuati prima
della confessione, Tarfusser ha cioè maturato dubbi sull’istruttoria
ancora prima di valutare le “nuove prove” che gli avvocati di Rosa e
Olindo hanno raccolto negli ultimi anni, contando su numerosi consulenti
ed esperti. Sembra infatti che Tarfusser si sia sorpreso di numerosi
dettagli a iniziare dal fatto che Rosa e Olindo vennero sentiti
addirittura da quattro pubblici ministeri.
Per capire la portata
di questa mossa di Tarfusser è forse davvero la prima volta dal 1930,
con l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale nella
storia della nostra giustizia, che un sostituto procuratore generale – e
quindi chi rappresenta l’accusa – ponga dei dubbi sulla colpevolezza
dei condannati, sollecitando la revisione e la riapertura del
dibattimento. In genere, infatti, è l’imputato a chiedere un nuovo
processo. Proprio a Brescia, che con ogni probabilità sarà investita
della questione dai colleghi di Milano, quest’autunno la Corte aveva
respinto – ad esempio – analoga istanza presentata da Maurizio Tremonte,
già informatore dei servizi, dopo la condanna all’ergastolo ricevuta
per la strage di piazza Della Loggia, accogliendo così il diniego
suggerito dal procuratore generale Guido Rispoli.
A questo punto è
difficile ipotizzare che Nanni sconfessi il proprio consigliere più
anziano mentre è più probabile che la pratica finisca a Brescia, come
prevede il codice per passare al vaglio della Corte che dovrà
innanzitutto decidere sull’ammissibilità della stessa.
ROMA. Grande paura ma nessuna conseguenza fisica per Ciro
Immobile e le sue figlie: il centravanti e capitano della Lazio ha
distrutto stamattina la sua Land Rover Defender in un incidente stradale
a Roma.
Incidente stradale per Ciro Immobile: scontro con un tram a Roma – la diretta
L’auto del bomber biancoceleste, su cui viaggiavano anche le
sue due figlie, si è schiantata con il tram numero 19 mentre
attraversava ponte Matteotti, tra Prati e Flaminio. Il tram è uscito
dalle rotaie, la macchina è distrutta.
L’incidente ha coinvolto
sette persone oltre a Immobile, compresi alcuni passeggeri del tram, che
sono stati portati al Gemelli per accertamenti. Il calciatore, «un po’
indolenzito al braccio», parlando alle forze dell’ordine, ha dichiarato
che il tram sarebbe passato col semaforo rosso. Anche Ciro Immobile e le
figlie sono stati comunque trasportati al Policlinico Gemelli in
ambulanza, dove sono sottoposti a controlli.
La profezia era stata fin troppo facile, affidata alle parole
del grande Fernando Aramburu in “Patria”: un giorno non molto lontano
in pochi ricorderanno quello che è successo. «Ed è inutile farsi il
sangue amaro: è la legge della vita, alla fine vince sempre l’oblio».
Infatti l’oblio ha vinto anche stavolta. Sono passati quasi due mesi dal
naufragio di Cutro del 26 febbraio. Novantuno vittime accertate, di cui
trentacinque bambini. Ottanta sopravvissuti. Almeno dodici dispersi. Da
allora quella spiaggia – punteggiata prima di corpi, poi di croci e di
fiori – è già svanita dalla nostra memoria. Il mare ha smesso di
restituire i morti, noi abbiamo smesso di preoccuparci dei vivi. La
compassione è finita. Adesso è di nuovo «invasione». E dobbiamo
ricominciare a difenderci.
Tonificato dall’audace colpo messo a
segno con le nomine nelle “Big Five” partecipate dallo Stato, Matteo
Salvini rilancia la crociata cattivista contro i migranti, tornando sul
luogo del delitto compiuto ai tempi dei due decreti sicurezza varati dal
governo grillo-leghista. Dopo aver picconato allora l’istituto della
protezione «umanitaria», ora si tratta di abolire o indebolire anche
quella «speciale» che è rimasta. Il Capitano non si accontenta di aver
cancellato quattro anni fa la tutela per i profughi che non avevano
diritto al riconoscimento dello status di rifugiato ma non potevano
essere allontanati dal territorio nazionale a causa di oggettive e gravi
situazioni personali. Adesso vuole abolire anche la protezione per il
cittadino straniero che, se rimpatriato, possa essere oggetto di
persecuzione o rischi di essere sottoposto a tortura, trattamenti
degradanti, violazioni sistematiche e gravi di diritti umani.
Lo
prevedevano già due disegni di legge incardinati presso la Commissione
Affari Costituzionali della Camera. E ora lo ribadisce un emendamento
della maggioranza al decreto-Cutro, in discussione al Senato, che vieta
la possibilità di convertire la protezione speciale in permessi di
soggiorno per lavoro e i permessi legati a calamità naturali o a
patologie mediche curabili nel Paese d’origine.
Poteva sembrare
solo l’ennesima fuga in avanti del Carroccio, per mettere alla prova i
Fratelli d’Italia e testare nuovamente i rapporti di forza interni alla
coalizione. Purtroppo non è così. Lungo la frontiera del «peggiorismo»
ideologico e del revanchismo identitario la rincorsa a destra non
ammette né soste né deroghe. Libera da ogni retaggio ideologico del
Fascismo e sciolta da ogni vincolo storico col Colonialismo, Giorgia
Meloni ad Addis Abeba rilancia la controffensiva
sovranista/revisionista. Respinge tutte le critiche, all’insegna della
rimozione del passato e dell’assoluzione del presente. Abbraccia tutti i
bambini, in nome dell’indiscutibile «fratellanza euro-africana» e
dell’immancabile “Piano Mattei”. Siamo tutti etiopi, a casa loro. Ma
vogliamo solo italiani, a casa nostra. Dunque sì, la presidente del
Consiglio conferma che l’obiettivo della «eliminazione della protezione
speciale» non è solo di Salvini, ma è anche il suo. E allora
prepariamoci, perché il governo andrà avanti su questa strada. Anche se
stavolta l’Europa non ce lo chiede, il buon senso ce lo sconsiglia,
l’ordinamento giuridico ce lo vieta.