Archive for Aprile, 2023

Ponte sullo Stretto, torna il progetto sbagliato

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Paolo Baroni

Risorge la società Ponte sullo Stretto e con questa il vecchio progetto del ponte a campata unica bloccato nel 2012 dal governo Monti. Il nuovo governo, infatti, col decreto appena entrato in vigore porta le lancette indietro di 11 anni e ripesca il progetto che porta la firma del consorzio Eurolink guidato all’epoca da Impregilo (oggi Webuild) che nel 2005 vinse la gara. Rispetto al 2012 però i costi di quest’opera sono aumentati di un buon 50% e risultano più che raddoppiati rispetto alla delibera del Cipe che attribuì al ponte di Messina il carattere di «rilevanza nazionale». Dai 4,9 miliardi di euro del 2001 si è infatti passati ai 6,3 certificati nel 2011 dalla Corte dei Conti, peraltro all’epoca già finanziati per il 40% (questo perché allora si pensava di reperire il restante 60% sul mercato), mentre oggi le stime del ministero delle Infrastrutture fissano l’asticella a quota 10 miliardi. Oggi come allora, importo tutto compreso: non solo la realizzazione del ponte in se ma anche e tutte le operare accessorie, tunnel, collegamenti, rampe sia autostradali che ferroviarie.

«L’obiettivo che ci siamo dati – ha spiegato il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini – è posare la prima pietra entro l’estate del 2024» e secondo il suo schema si ripartirà dal ponte a campata unica di Webuild. Progetto, hanno fatto sapere dal Mit, che ovviamente andrà integrato ed aggiornato secondo le prescrizioni e le normative vigenti, previo l’azzeramento del contenzioso in corso con Webuild. Ma la campata unica è la soluzione migliore da adottare? Secondo la Struttura tecnica di missione per l’indirizzo strategico, lo sviluppo delle infrastrutture e l’alta sorveglianza del Mit che a metà 2021 aveva consegnato al ministero un robusto studio sulle cosiddette di «soluzioni alternative per il sistema di attraversamento stabile dello Stretto di Messina», la risposta è «no».

E non si tratta di un parere di poco conto perché è stato formulato da un gruppo di 16 esperti, dirigenti del ministero delle Infrastrutture, gli ad dell’epoca di Rete ferroviaria Italiana, Italferr e Anas Gentile, Isi e Simonini), il rettore del politecnico di Milano Resta ed una pattuglia di docenti di ingegneria, idraulica, geotecnica e trasporti.

Scartate in partenza le due ipotesi legate alla costruzione di tunnel, uno in alveo ed uno sotto l’alveo, dovendo scegliere tra campata unica e ponte a tre campate, il Gruppo di lavoro del Mit ha scelto la seconda. A loro giudizio, infatti, il primo progetto presenta diverse criticità. «Un aspetto sfavorevole di questa soluzione – scritto nella relazione – è sicuramente il vincolo della sua ubicazione nel punto di minima distanza fra Sicilia e Calabria (circa 3 km), che allontana l’attraversamento dai baricentri delle aree metropolitane di Messina e Reggio Calabria, ma che al tempo stesso comporta comunque la necessità di realizzare un ponte sospeso con una luce maggiore del 50% di quella del ponte più lungo ad oggi realizzato al mondo». Oltre a questo veniva segnalato il «notevole impatto visivo (anche in ragione dell’altezza necessaria per le torri)» e «la vicinanza di zone sensibili sotto il profilo naturalistico». Due invece gli aspetti a favore: la ridotta sensibilità sismica dell’impalcato e nessun impatto sulla navigazione.

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Cina, Russia, il confronto e le nuove logiche imperiali

lunedì, Aprile 3rd, 2023

di Angelo Panebianco

Che cosa dovrebbe averci insegnato, a più di un anno dall’inizio della guerra in Ucraina, lo scontro con potenze decise a rimodellare il mondo e a piegarlo alle loro logiche imperiali? Che cosa significa per la società occidentale doversela vedere con risorgenti imperi?

Abbiamo appreso, in primo luogo, che gli imperi sono potenze revisioniste, ossia potenze spinte da quella che ritengono la loro missione imperiale a cambiare gli equilibri mondiali. Con la guerra, se non ci sono altre strade. Tale volontà revisionista non riguarda solo le grandi potenze (Cina, Russia) ma anche medie potenze come Turchia e Iran, anch’esse ispirate nella loro azione dal ricordo di un glorioso passato imperiale (l’impero ottomano, l’impero persiano). L’Occidente che aveva tentato di plasmare il mondo a propria immagine e somiglianza, è sulla difensiva, protegge un ordine internazionale che i risorgenti imperi vogliono abbattere. Di tale ordine sono componenti essenziali istituzioni, come il diritto internazionale, che non hanno valore per i suddetti imperi. Quando denunciamo crimini di guerra e legalità internazionale violata usiamo argomenti per loro privi di significato. Il diritto internazionale, nella loro prospettiva, è soltanto un modo, inventato dall’Occidente, per imbrigliare l’impero.

La seconda lezione è che il fossato culturale che ci divide (quelli che per noi sono valori sono disvalori per gli imperi e viceversa) spiega le illusioni coltivate a lungo dagli occidentali nei rapporti con Russia e Cina.

Abbiamo per tanto tempo pensato che l’interdipendenza economica avrebbe portato quelle potenze ad integrarsi nell’ordine internazionale. Di più: abbiamo creduto — è un’idea che l’Occidente si porta dietro da secoli — che l’interdipendenza economica avrebbe spinto quelle società a liberalizzarsi, a sostituire col tempo la democrazia all’autocrazia. È un’idea — errata, come ormai sappiamo — a sua volta rivelatrice della più grave difficoltà che abbiamo trovandoci oggi a competere con gli imperi: un rapporto radicalmente diverso con la storia passata. Gran parte degli occidentali vive in una specie di eterno presente, non attribuisce più valore al passato. Gli estremisti (di sinistra e di destra) che se la prendono con statue, monumenti, opere letterarie, sono solo la punta dell’iceberg, manifestazioni estreme di un più generale rifiuto del passato e delle sue eredità. In un certo senso, la «fine della storia» ce la siamo fabbricata con le nostre mani: abbiamo creduto di poterci sbarazzare del passato, dimenticando che esso condiziona sempre il presente. E ora ci troviamo a competere con progetti imperiali che proprio dalla storia passata (dal ricordo di un glorioso passato imperiale) traggono forza e legittimità. Abbiamo irriso le strampalate ricostruzioni di Putin della storia russa fatte per giustificare l’intervento in Ucraina, dimenticando che gli imperatori hanno sempre manipolato la storia in funzione dei loro disegni e delle loro azioni. Abbiamo giudicato «anacronistica» la guerra di Putin proprio perché, avendo abolito la storia, non siamo stati in grado di comprenderne la logica.

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Mezz’Ora in Più, Lucia Annunziata spiazza il presidente dell’Anac: “Quando era ragazzino”

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Giada Oricchio

Il nuovo codice degli appalti ha scatenato una forte polemica politica per la norma sulla soglia degli affidamenti diretti a 150 mila euro. A finire nell’occhio del ciclone è stato Giuseppe Busia. Il presidente dell’Anac (Autorità Nazionale Anticorruzione) ritiene la regola un via libera a favoritismi e truffe soprattutto nei piccoli comuni (lo aveva eccepito già a luglio 2021 in un’audizione parlamentare, nda). Il ministro delle Infrastrutture, Matteo Salvini, e altri esponenti del governo ne hanno chiesto le dimissioni ritenendo quell’allarme un’accusa ai sindaci (“ha detto che sono imbroglioni”). Poi il chiarimento dello stesso Busia e lo stop alle polemiche.

Il presidente dell’Anac è stato ospite del programma “Mezz’ora in più” su Rai3, domenica 2 aprile, e Lucia Annunziata ha spiazzato i telespettatori con un retroscena inedito: “Benvenuto a Busia, lo conosco da quando era ragazzino, ha 54 anni, è una persona molto mite. All’improvviso è salita all’onore delle cronache per aver preso di petto il governo su un tema molto rilevante, quello del nuovo codice degli appalti”.

L’ex direttrice Rai ha spiegato che il codice degli appalti è il cuore pulsante del Pnrr, è sottostante al corretto funzionamento e alla velocità dei progetti e delle riforme necessarie ad ammodernare l’Italia: “Lei è stato criticato per aver criticato i sindaci dei piccoli comuni. Come è finita questa polemica? Tra l’altro legittima visto che è il capo di un’autorità politica indipendente ?”.

Giuseppe Busia con piglio risoluto, ma pacato ha raccontato agli italiani a cosa serve l’Anac: “Il nostro mestiere è la vigilanza sui contratti pubblici. Suggeriamo le riforme che aiutano a prevenire la corruzione o a rendere più efficiente il mercato. La nostra attività prevalente è affiancare sindaci, regioni e governo a fare bene gli appalti – ha detto il presidente -. Siamo l’autorità che fa risparmiare tempo e soldi sugli appalti. Garantiamo risparmio della spesa pubblica”.

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Migranti dalla Tunisia e Libia in Europa: “Quasi ottocentomila”

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Francesca Musacchio

Tra le 500 e le 800mila persone. Sono le stime sui possibili arrivi di migranti nei prossimi mesi da Libia e Tunisia. Il numero di coloro che al momento spingono per arrivare in Europa, e che si trovano già in parte nei due paesi nordafricani, non è quantificabile con precisione. Gli analisti dell’intelligence parlano di «movimenti» che si registrano nell’area di riferimento e che contemplano anche coloro che spingono per entrare in Libia e Tunisia. E non tutti coloro che si introducono illegalmente nei due paesi vengono intercettati dalle autorità locali. Anzi, spesso riescono a sfuggire ai controlli.

Sabato la Guardia nazionale tunisina ha annunciato di aver arrestato 52 persone provenienti da vari Paesi dell’Africa subsahariana per essersi introdotte illegalmente nel paese attraverso il confine con l’Algeria. Ma i due Paesi, in profonda crisi economica e politica, non riescono a gestire le pressioni sui rispettivi confini dove spingono prevalentemente migranti provenienti dall’Africa subsahariana, ma non mancano anche bengalesi, pakistani e persone di altre nazionalità che sfruttano la rotta del Mediterraneo per entrare illegalmente in Europa.

Ma ciò che preoccupa particolarmente il governo italiano, al momento, è la Tunisia dove la profonda crisi economica rischia di innescare una bomba migratoria enorme. Negli ultimi giorni, il ministero dell’Agricoltura, delle risorse idriche e della pesca ha anche anche approvato un piano di razionamento dell’acqua per far fronte alla carenza idrica nel Paese. Da qui la necessità di trovare una soluzione al problema che sembra condivisa anche dall’Ue, da sempre latitante nella gestione dei flussi migratori che arrivano in Italia. Adesso, però, potrebbe aprirsi uno spiraglio.

«La Tunisia è un Paese che ha bisogno di collaborazione e di stabilizzare l’economia perché sia la sfida economica che la sfida migratoria la stanno mettendo sotto pressione», ha detto Paolo Gentiloni, commissario Ue, al Forum Ambrosetti a Cernobbio. Il punto fondamentale sono proprio i soldi che il Fondo monetario dovrebbe dare a Tunisi (un nuovo prestito di 1,9 miliardi di dollari) ma che, al momento, sono bloccati per le mancate riforme messe in campo dal Paese.

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Finlandia, Sanna Marin sconfitta: vince la destra

lunedì, Aprile 3rd, 2023

La premier socialdemocratica Sanna Marin ha perso in Finlandia la sua lotta per la riconferma. A vincere, nella corsa estremamente combattuta fra i tre partiti principali che si è configurata nelle elezioni generali di oggi, sono stati i conservatori del Partito della Coalizione Nazionale (Ncp), guidato dall’ex ministro delle Finanze Petteri Orpo, che ha ottenuto il 20,7%. È stato proprio Orpo a rivendicare la vittoria: “Sulla base di questo risultato, i colloqui per la formazione di un nuovo governo in Finlandia saranno avviati sotto la guida del Partito della Coalizione Nazionale”, ha detto davanti a una folla di sostenitori.

Al secondo posto si è piazzata l’ultradestra di Veri finlandesi, guidata da un’altra donna, Riikka Purra, che si è attestata al 20,1%. Un boom che segna il miglior risultato della storia del partito. Mentre la formazione di Marin è arrivata terza, fermandosi al 19,9%. La premier uscente ha ammesso la sconfitta: “Il numero dei seggi è aumentato. È un ottimo risultato, anche se oggi non sono arrivata prima”, ha detto, congratulandosi poi per la vittoria sia con il centro-destra che con Veri finlandesi. Con questi numeri, nessuno è in grado di formare un governo da solo.

Marin, che a 37 anni è fra i leader più giovani d’Europa, è premier da dicembre 2019, ha ricevuto elogi per la gestione della pandemia di Covid-19 da parte del suo governo e per il suo ruolo di primo piano, insieme al presidente Sauli Niinistö, nel sostenere la richiesta di adesione della Finlandia alla Nato. E il sostegno all’Ucraina nell’ultimo anno ha aumentato la sua visibilità internazionale.

Tuttavia, nonostante rimanga popolare in patria, le posizioni del suo partito sull’economia finlandese, emerse come tema principale della campagna elettorale, sono state messe in discussione dai conservatori. Il leader del Partito della Coalizione Nazionale, Petteri Orpo, ha martellato sulle questioni economiche durante un evento elettorale sabato. “La cosa più importante per il prossimo governo è sistemare la nostra economia, spingere la crescita economica, equilibrare l’economia pubblica. E la seconda questione molto importante è costruire la Finlandia della Nato”, ha detto Orpo ad Associated Press a Espoo, appena fuori dalla capitale. La leader del partito di destra Veri finlandesi, Riikka Purra, ha sottolineato invece di volersi concentrare sulla definizione di politiche in materia di migrazione, clima, criminalità ed energia.

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Bomba a San Pietroburgo, pista ucraina o faida nazionalista: non è un attentato qualunque

lunedì, Aprile 3rd, 2023

ANNA ZAFESOVA

SAN PIETROBURGO. «Vinceremo tutti, li uccideremo tutti, li rapineremo tutti, tutto come piace a noi»: Vladlen Tatarsky aveva molto probabilmente firmato la sua condanna a morte con questa frase, pronunciata a pochi metri dal presidente Vladimir Putin, nella sala del Cremlino dove era stata appena proclamata l’annessione dei territori ucraini occupati dall’esercito russo. Da «inviato di guerra» – anche se Tatarsky era in realtà un militante del Donbass che si era improvvisato blogger – era diventato il volto brutale dell’invasione, l’uomo che gioiva in pubblico per i bombardamenti russi delle centrali elettriche, perché «più maiali ucraini sarebbero morti senza poter venire operati in ospedale».

Guerra Russia-Ucraina, le notizie di oggi in diretta

Chiunque l’abbia ucciso l’ha scelto come bersaglio proprio per questo, e la scenografia di un bar dal nome altisonante «Patriot», che ospitava regolarmente raduni dei fan della «Z» simbolo del militarismo russo, non è casuale. Considerando che il bar si trovava in pieno centro della città natale di Vladimir Putin e dei membri del suo clan, e apparteneva probabilmente a Evgeny Prigozhin, capo del gruppo Wagner oltre che ristoratore di successo pietroburghese, la bomba al «Patriot» non è un regolamento di conti qualunque.

La scontata «pista ucraina» viene già battuta dai propagandisti russi, che chiedono vendetta, spaventati da quella che ritengono una azione punitiva contro un collega. Non c’è dubbio che diventerà la versione ufficiale dell’attentato. L’impatto di un attentato esplosivo a Pietroburgo è pesante, e indipendentemente da chi possa esserne l’autore manda un messaggio di pericolo, trasforma una guerra lontana e televisiva (soprattutto per gli abitanti delle due capitali) in qualcosa che potrebbe riguardare chiunque. Accusarne gli infiltrati ucraini, come era già stato fatto con Daria Dugina, figlia del filosofo di estrema destra Aleksandr Dugin, aumenta la paura del nemico, ma anche la percezione di essere vulnerabili. E mentre i misteri sulla dinamica restano numerosi, non può non colpire una circostanza: è il secondo attentato clamoroso nel cuore della Russia, dall’inizio della guerra, che va a colpire un esponente poco famoso ma molto simbolico della frangia più estrema della destra nazionalista russa.

Potrebbe certamente trattarsi davvero di rappresaglie degli ucraini, e la scelta di personaggi poco noti può essere spiegata con la relativa facilità di avvicinarli rispetto ai propagandisti di serie A. Stesso motivo per cui però potrebbero invece essere stati scelti per una provocazione dagli stessi servizi russi: un personaggio come Tatarsky è probabilmente più utile da morto che da vivo, il «vero russo e vero cristiano» come lo chiama Aleksandr Dugin in nome del quale lanciare un attacco agli ucraini o alla «quinta colonna» dei russi contrari alla guerra. Nei canali Telegram dei nazionalisti cominciano però anche a serpeggiare sospetti di faide interne alla estrema destra, e il consigliere di Zelensky Mikhaylo Podolyak parla di «ragni che si divorano tra di loro, chiusi dentro un barattolo». Ma la morte di Tatarsky potrebbe anche essere un segnale inviato a qualcun altro: secondo alcune voci, Prigozhin in persona avrebbe dovuto visitare il suo bar per salutare il blogger.

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Stangata sulle tariffe telefoniche, per i clienti aumenti da 2-3 euro al mese

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Sandra Riccio

Non ci sono soltanto i rincari di bollette e alimentari a pesare sui bilanci delle famiglie. Adesso a incidere è anche la telefonia. Con l’inflazione ancora alta, infatti, alcuni operatori hanno inaugurato il 2023 incrementando i costi per i già clienti. A colpi di uno, due euro alla volta hanno alzato i prezzi. C’è però anche un’altra grande novità che riguarda il settore e che fa discutere: con il nuovo anno alcuni gestori hanno introdotto nuove tariffe che sono indicizzate all’inflazione. Vuol dire che i prezzi salgono se il caro vita aumenta. Al contrario, non è invece previsto un meccanismo di ribasso nel caso di inflazione in discesa. In più la nuova formula non darebbe la possibilità di esercitare il diritto di recesso.

E’ quanto emerge dall’analisi effettuata dall’Osservatorio Tariffe di SOStariffe.it e Segugio.it che ha fotografato nel dettaglio i nuovi trend del settore della telefonia.

Per quanto riguarda gli aumenti emerge che per la telefonia mobile i rialzi sono arrivati da Tim (2 euro in più al mese per alcuni clienti) e WindTre (2 euro in più al mese) oltre che da PosteMobile (un euro in più). Per la telefonia fissa, le rimodulazioni al rialzo sono state introdotte per i clienti Fastweb (fino a 5 euro in più al mese), Tim (+2 euro al mese) e Vodafone (1,99 euro in più).

L’analisi si concentra sulla novità delle tariffe indicizzate all’inflazione. Al momento sono applicate soltanto da WindTre e Tim, ma presto le tariffe indicizzate potrebbero diventare la regola. Come avvenne qualche anno fa con i rinnovi ogni quattro settimane e non ogni mese, altri operatori potrebbero seguire la stessa strada. La nuova formula vale sia per i già clienti sia per i nuovi e sia su rete fissa sia su mobile.

In sostanza, le tariffe indicizzate all’inflazione prevedono un aggiornamento annuale del canone mensile che segue l’evoluzione dell’inflazione. L’incremento non rappresenta una rimodulazione tariffaria e non darebbe, quindi, la possibilità di esercitare il diritto di recesso, al contrario l’adeguamento all’inflazione, per come definito da queste tariffe, sarebbe parte integrante delle condizioni contrattuali.

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Cara Meloni, la Ue aspetta il suo piano

lunedì, Aprile 3rd, 2023

MASSIMO GIANNINI

L’Italia pare davvero la Nave dei Folli. Ci stiamo giocando i fondi europei. Stiamo mandando in fumo almeno metà dei 191,5 miliardi che l’Europa ci ha messo a disposizione di qui al 2026. In un impeto di dissennato autolesionismo, sembriamo quasi sollevati nel riconoscere che «non c’è niente da fare». Sembra quasi di cogliere un senso di liberazione, nel mondo politico e imprenditoriale che alza le mani e dice «non possiamo farcela», «il Sistema-Paese non è in grado di spendere un volume di investimenti di quella portata», «la nostra burocrazia non ce lo permette», «gli enti locali non hanno capacità progettuale», «i grandi contractor pubblici e privati più di tante risorse non possono assorbire». Siamo onesti. È vero che l’Italia, su riforme strutturali e investimenti infrastrutturali, ha difficoltà ataviche e non risolvibili in pochi mesi.

Se così non fosse, non saremmo il fanalino di coda sull’utilizzo dei Fondi di coesione, che riusciamo a spendere per una quota annua inferiore al 60 per cento. Ma è altrettanto vero che il Next Generation Eu era e sarebbe ancora l’occasione per invertire la rotta. O almeno per provarci. Ma non sta succedendo. Viceversa, anche in questa circostanza riusciamo a sfoderare la solita, ineluttabile “sindrome del fallimento”. Come se fosse vano dare il massimo per portare a casa il risultato. Del resto, se in un anno abbiamo completato l’1 per cento dei progetti e speso il 6 per cento dei finanziamenti, non può dipendere solo dallo storico deficit di efficienza della macchina statuale. C’è dell’altro. Un tempo si sarebbe detto «manca la volontà politica». Oggi, forse, è ancora così. O per lo meno questa è la sensazione, e la preoccupazione, che si toccano con mano tra le istituzioni europee. Colpite da un certo stupore, mentre contemplano l’affannata inconcludenza tricolore.

Sergio Mattarella, che con le istituzioni comunitarie mantiene contatti quotidiani, ne è ben consapevole. Per questo il 24 marzo ha suonato l’allarme, riprendendo l’appello post-bellico di De Gasperi: «È il momento per tutti, a partire dall’attuazione del Pnrr, di mettersi alla stanga». Sono passati dieci giorni, ma “alla stanga” pare non si sia messo nessuno. Hanno parlato ministri e sottosegretari, leader di partito e esponenti della maggioranza, presidenti di regione e sindaci. Tutti si sono limitati a prendere atto dei ritardi, e a rinnovare generici propositi di accelerazione. Anche per questo il presidente della Repubblica ha voluto incontrare Giorgia Meloni, venerdì scorso, e spronarla a fare atti concreti per sbloccare gli ingranaggi dell’Amministrazione e della gestione.

Lo stesso sollecito, in modo formale e informale, è arrivato anche da Francoforte e da Bruxelles. Christine Lagarde, nella sua due giorni fiorentina organizzata dall’Osservatorio Permanente Giovani Editori di Andrea Ceccherini, lo ha detto ai tanti interlocutori istituzionali che le hanno chiesto lumi sulle difficoltà nella messa a terra del Pnrr: «Italy must deliver it… Please, let’s do it!». Quasi una preghiera. E si capisce perché anche la presidente della Banca Centrale Europea speri nel nostro Piano di Ripresa e Resilienza. Nutre la stessa apprensione che comincia a insinuarsi tra i mercati finanziari, per ora rimasti in posizione neutral sull’Italia, complice la buona tenuta dei conti pubblici che ha mantenuto basso lo spread dei nostri titoli di Stato. Ma nessuno può prevedere cosa potrebbe succedere, nel momento in cui il governo dovesse davvero gettare la spugna, e perdere le prossime due rate del Pnrr previste di qui alla fine dell’anno.

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Visita di Draghi a Mattarella prima del pranzo di Meloni al Colle, sul tavolo i nodi del Recovery

lunedì, Aprile 3rd, 2023

Ilario Lombardo

A metà della scorsa settimana Mario Draghi è stato ricevuto al Quirinale da Sergio Mattarella. Un incontro avvenuto tra mercoledì e giovedì, ufficialmente senza un motivo preciso: l’ex presidente del Consiglio e il Capo dello Stato non si vedevano di persona da un po’ e hanno trovato tempo e modo di farlo in quelle ore.

Non sono giorni qualsiasi, però. Le tensioni sul Piano nazionale di ripresa e di resilienza sono già esplose. Da Bruxelles arrivano distinguo, dubbi e richieste di approfondimento sui progetti finanziati con le risorse europee. Sullo sfondo ci sono vuoti normativi che il centrodestra italiano si ostina a non voler riempire. Sui balneari, innanzitutto. Così matura l’ultimatum dell’Ue sulla terza tranche dei finanziamenti, quella che in teoria copre gli impegni del secondo semestre del 2022.

Il governo di Giorgia Meloni si sente assediato, i ministri di Fratelli d’Italia reagiscono d’impulso accusando l’Europa di mostrare un volto più severo rispetto a quando a Palazzo Chigi sedeva Draghi. Anche l’ex presidente della Bce finisce nel mirino. È a lui che i meloniani, compreso il ministro degli Affari europei Raffaele Fitto, addossano le responsabilità di progetti «irrealizzabili», dei ritardi sugli obiettivi, di una struttura per la gestione e l’implementazione del piano che non è stata adeguatamente potenziata.

La destra sovranista è in difficoltà. Sta trattando con l’Europa nella speranza di avere più ossigeno, proponendo di allungare le scadenze del piano oltre il 2026 o rimodulando progetti e traguardi sfruttando anche i fondi di coesione e le risorse del RePowerEu destinati alla transizione energetica. Il clima però si intorbidisce. I diplomatici italiani a Bruxelles sono preoccupati. Uno di loro spiega alla Stampa che «la situazione è seria», un ministro sotto anonimato confida sempre a questo giornale che realisticamente l’Italia sarà in grado di spendere solo meno della metà dei 209 miliardi di euro del Recovery Fund, ottenuti da Giuseppe Conte nell’estate del 2020. Il commissario europeo all’Economia Paolo Gentiloni, quotidianamente in contatto con Fitto e con Palazzo Chigi, cerca di smussare il nervosismo dei suoi interlocutori. Anche lui, di passaggio a Roma, sarebbe salito al Quirinale, più o meno nelle stesse ore in cui Mattarella riceve Draghi.

Attorno a Meloni si fa largo l’idea di promuovere «un’operazione verità». Proprio così la chiamano i ministri e il sottosegretario Giovanbattista Fazzolari, braccio destro della premier, ascoltatissimo sulle strategie d’assalto ai nemici storici (Ue, sinistra, banche). L’obiettivo è chiaro: dire come stanno le cose, individuare le colpe, sostenere che si tratta di un’eredità dei precedenti governi. L’operazione parte ma trova un ostacolo: Draghi. L’ex premier non ci sta a fare da capro espiatorio per un negoziato con l’Ue che si sta avvitando in un frustrante scaricabarile. Filtra il suo fastidio e attraverso i collaboratori fa sapere di aver lasciato tutto in ordine, Pnrr compreso, al momento del passaggio di consegne, lo scorso ottobre. Meloni capisce e lo cerca al telefono. Per giustificarsi, ma anche per confessare il suo disagio di fronte al puntiglio europeo. A quel punto, però, la premier è già consapevole che i toni vanno raffreddati il prima possibile.

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Landini fa il capo dell’opposizione. Schlein e Conte si mettono in scia e aizzano la piazza

domenica, Aprile 2nd, 2023

Domenico Di Sanzo

Dagli edili agli studenti. Dagli ambientalisti ai comitati di quartiere. Dal Pd al M5s. Ancora una volta sono i sindacati a riunire tutte le opposizioni, politiche e della società civile, al governo guidato da Giorgia Meloni. Nel primo sabato di aprile il tema che raccoglie una minoranza troppo spesso frastagliata è il no al nuovo Codice degli Appalti voluto dall’esecutivo di centrodestra. Una questione che si intreccia con la cancellazione del Superbonus 110%, vessillo dei Cinque Stelle.

Fai la cosa buona è lo slogan delle manifestazioni promosse da Cgil e Uil, andate in scena in cinque città: Roma, Torino, Napoli, Palermo e Cagliari. L’uomo che fa sfilare negli stessi cortei dem e grillini è di nuovo Maurizio Landini, che sembra diventato la vera calamita dell’anti-melonismo, più di Giuseppe Conte ed Elly Schlein. «Credo che ci sia bisogno di avviare una grandissima campagna di assemblee di confronto in tutti i luoghi di lavoro e quindi penso che il mese di aprile debba essere quello in cui si attiva questo percorso verso la mobilitazione. Ne stiamo discutendo insieme a Cisl e Uil», esorta alla battaglia Landini dalla piazza di Torino.

Replica Matteo Salvini, leader della Lega, vicepremier e Ministro delle Infrastrutture, ma soprattutto «padre» delle modifiche al Codice degli appalti. «Orgoglioso del Nuovo Codice degli Appalti che garantirà più lavoro per tutti, operai e imprenditori, più sicurezza e meno burocrazia – spiega Salvini – per fortuna ci sono sindacati che preferiscono il confronto allo scontro, il futuro al passato». E un’altra stoccata: «Chi attacca il Nuovo Codice, atteso da anni, parlando addirittura di mafia o di più morti sul lavoro, o è in malafede o è ignorante. Si tratta dei soliti professionisti del No a tutto».

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