Archive for Aprile, 2023

Pd, il primo mese di Elly Schlein: stato maggiore in allarme, ma i sondaggi smorzano le polemiche

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Federico Geremicca

L’ultima novità l’hanno dovuta digerire venerdì scorso, quando qualcuno li ha avvisati di metter mano rapidamente al cellulare e connettersi con Instagram, che la segretaria stava presentando la sua segreteria. Accidenti, ma che modi: la nuova segreteria, mai discussa con loro, annunciata su Instagram. Per il partito più continuista d’Italia, per i nipoti di Dc e Pci, come veder nominare dei cardinali via TikTok…

È bastato un mese – il primo mese sotto la guida di Elly Schlein – perché negli stati maggiori del Partito democratico (a Roma e in periferia) molti vedessero confermati i propri timori: anzi, più che confermati, ingigantiti. Ma è stato sufficiente lo stesso identico mese perché chi è fuori dagli stati maggiori del Pd, vedesse – al contrario – confermate le proprie speranze: anzi, più che confermate, moltiplicate. In sintesi: trenta giorni è stato il tempo necessario per render chiaro, dentro e fuori, perché gli stati maggiori non volessero la Schlein e perché invece è arrivata.

Non è la prima volta che nel Pd, come si dice, salta il tappo. Esattamente dieci anni fa, con Matteo Renzi, andò in scena lo stesso copione. Lasciamo perdere che i due sono come il giorno e la notte: a far da propellente per entrambi sono stati e furono le sconfitte dei predecessori e l’irrefrenabile insofferenza di elettori e simpatizzanti verso gruppi dirigenti eterni e litigiosi. Renzi promise una vasta rottamazione; la Schlein ha annunciato un più modesto «cambiamento»: se infatti avesse detto quel che aveva davvero in testa, forse perfino qualcuno dei suoi più stagionati supporter avrebbe cambiato campo…

Eppure, nel Pd tutto più o meno tace. Le voci dissonanti sono flebili. Si simulano polemiche ma senza passione. Nessuno alza la voce. Una spiegazione per questa fase (che eviteremo di definire già di quiete prima della tempesta) naturalmente esiste. E non è l’adesione ad una linea che nelle sue pieghe – peraltro – fatica ancora a definirsi. Né è l’apprezzamento verso uno stile di direzione così spiccio. Più semplicemente, la spiegazione è nella forza dei numeri che stanno accompagnando il cammino della nuova segretaria.

Sono numeri di sondaggi, naturalmente: ma quando si esce da una battaglia come quella persa il 25 settembre, anche i sondaggi hanno un loro fascino… C’è un dato, infatti, da non accantonare: dopo il 19 per cento delle elezioni politiche, il Pd ha continuato a flettere per mesi, tanto che l’ultima rilevazione prima dell’avvio del complicato iter congressuale (Swg per La7, 30 gennaio) vedeva il partito fotografato al 14,2 per cento (scavalcato e distanziato dai Cinque stelle).

Ora, un leader politico – a volte – è giudicato come si giudica un allenatore: magari non ti piace come fa giocare la squadra, ma se poi vince lo scudetto… I numeri di Elly Schlein, per ora, sono indiscutibili. L’ultimo sondaggio (10 aprile) attribuisce infatti al Pd il 20,7 dei consensi: sei punti e mezzo in più rispetto al minimo storico di fine gennaio. Non basta. I Cinque stelle, infatti, sono tornati dov’erano (15,1) e il Terzo polo ha ripreso la sua discesa (7,7).

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Migranti, il governo vara lo stato di emergenza: l’obiettivo è svuotare gli hotspot

mercoledì, Aprile 12th, 2023

Francesco Olivo

ROMA. Ora l’emergenza è ufficiale e certificata. Il governo Meloni è in difficoltà per l’aumento degli sbarchi sulle coste italiane, gli hotspot sono pieni e bisognava dare una risposta. Così si è arrivati allo stato d’emergenza sulla questione migratoria, il primo dal 2011. La richiesta, molto pressante, è arrivata dal ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, mentre formalmente la proposta è di Nello Musumeci, ministro del Mare, con delega alla protezione civile. Nei prossimi giorni sarà nominato un commissario, che con tutta probabilità sarà Valerio Valenti, ex prefetto di Firenze, attualmente capo del dipartimento immigrazione del Viminale.

Lo stato d’emergenza durerà, per il momento, sei mesi, con l’obiettivo di superare l’estate, sperando che la situazione internazionale possa favorire una riduzione dei flussi. La prima dotazione è di cinque milioni di euro, cifra considerata nel ministero solo un primo stanziamento.

Si tratta di una misura amministrativa, fondamentalmente per svuotare gli hotspot, che però ha inevitabili risvolti politici: «Abbiamo deciso lo stato di emergenza sull’immigrazione per dare risposte più efficaci e tempestive alla gestione dei flussi», ha dichiarato Giorgia Meloni con una nota al termine del Consiglio dei ministri. L’opposizione attacca: «Risuonano lontane le false promesse elettorali di fantomatici e irrealizzabili blocchi navali – dice Giuseppe Conte, leader del Movimento 5 Stelle -. Quando era all’opposizione Meloni, con l’Italia in ginocchio per il Covid, si stracciava le vesti contro la proroga dello stato di emergenza, eppure lo stato di emergenza in quel momento era una scelta davvero necessaria». «L’emergenza non è quella dei migranti ma quella di una situazione economica e sociale difficile e di una inflazione che ammazza gli stipendi», aggiunge Francesco Boccia, capogruppo del Pd al Senato. «In questo modo avremo probabilmente degli standard di accoglienza più bassi di quelli minimi previsti, con “strutture parcheggio” e affidamenti fatti senza evidenza pubblica, con tutti i rischi che ne conseguono”, dice Riccardo Magi, capogruppo alla Camera di + Europa.

Il primo obiettivo che il governo si pone con lo stato d’emergenza è intervenire sulle strutture, poter andare in deroga al codice degli appalti, viene considerato fondamentale per poter creare nuovi cpr, i centri di permanenza per i rimpatri (il decreto Cutro ne prevede almeno uno per regione). L’altro scopo è snellire la procedura dei trasferimenti, secondo il Viminale l’aumento degli sbarchi (“del 300%”) fa sì che spesso, in particolare a Lampedusa, non ci sia nemmeno il tempo per svuotare gli hotspot. Senza procedure d’emergenza, anche i semplici noleggi di charter e navi devono essere sottoposti a gare europee, procedure che per sei mesi potranno essere più rapide.

Con l’ingresso nello stato d’emergenza poi si attua una via preferenziale anche per l’accesso al fondo di emergenza nazionale, della presidenza del Consiglio, che però va rifinanziato, perché qui si attinge per ogni tipo di situazione straordinaria, a partire dalle calamità naturali.

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I conti con il nostro passato: la saggezza della Costituzione

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Ernesto Galli della Loggia

Nel tumultuoso dopoguerra, i padri fondatori probabilmente ritennero che ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto, come infatti è sostanzialmente avvenuto

C’era da aspettarselo: nell’Italia della vittoria della destra è cominciata subito a spirare un’aria di «passato che non passa». Cioè una continua tendenza a riaprire i conti e a farlo sempre nel modo più aggressivo e perentorio: come del resto piace ai media che hanno sempre il problema dell’«audience». All’ordine del giorno non è il pericolo del fascismo per fortuna, questo no, ma è ciò che pensa del fascismo chi sta al governo, sono le sue idee su quel passato lontanissimo. Ogni sera nei talk televisivi si richiedono dunque spiegazioni, chiarimenti, precisazioni. E naturalmente abiure. Per prendere una boccata d’aria viene allora in mente di sfogliare qualche testo, ad esempio la nostra Costituzione.

Tra le cui prescrizioni una di certo tra le meno conosciute in assoluto è quella contenuta nel secondo capoverso della XII disposizione transitoria e finale. La quale, dopo aver vietato «la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista» recita: «In deroga all’articolo 48 sono stabilite con legge, per non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione, limitazioni temporanee al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista».

In altre parole, dopo il primo gennaio 1953, se lo avessero voluto i «capi responsabili del regime fascista» (facciamo qualche nome di quelli allora viventi: Federzoni, Grandi, Bottai, Scorza ecc., quasi tutti squadristi, responsabili di cosucce come le leggi razziali e la seconda Guerra mondiale) avrebbero potuto tranquillamente essere eletti nel Parlamento della Repubblica.

Come si spiega questa decisione all’apparenza così contrastante con l’immagine di una Costituzione coerentemente antifascista? Forse con il fatto che i padri fondatori immaginavano che a quella data i suddetti «capi responsabili» del fascismo sarebbero stati pronti a rinnegare le loro convinzioni e magari a dirsi antifascisti? Difficile crederlo. Assai più probabile, mi azzardo a ipotizzare, che nella loro saggezza fossero convinti che così come a molti altri italiani un tempo genuinamente fascisti e nel loro intimo con ogni probabilità restati tali, anche a quei capi fascisti non aveva senso comminare l’esclusione dalla vita pubblica, né tanto meno chiedere loro una ritrattazione o una dissociazione postuma. Con il tempo — essi piuttosto si auguravano — ci avrebbe pensato la democrazia a mettere le cose a posto: come infatti è sostanzialmente avvenuto. Con il tempo che serve a riconciliare con il passato smorzando il fuoco dei ricordi. Non a caso amnesia e amnistia — quella amnistia saggiamente decretata da Togliatti nel 1946 per chiudere la guerra civile — hanno la medesima radice. Per ricominciare bisogna in qualche modo dimenticare.

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Intervista a Calenda: «Renzi deve sciogliere Italia viva. Io lavoro 25 ore al giorno, lui vuole le mani libere»

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Maria Teresa Meli

Il leader di Azione: «Così cerca di bloccare ogni passo avanti fino alle Europee». «Non puoi fare credibilmente un partito con uno che ti avverte che farà il direttore del Riformista un quarto d’ora prima che accada»

Intervista a Calenda: «Renzi deve sciogliere Italia viva. Io lavoro 25 ore al giorno, lui vuole le mani libere»

Carlo Calenda, che succede, lei e Matteo Renzi state divorziando?
«Lo deve chiedere a lui. Sono 48 ore che vengo bersagliato da attacchi anche personali da parte di quasi tutti i dirigenti di Italia viva. Il punto per noi è politico: Renzi si rifiuta di prendere l’impegno di sciogliere Italia viva quando nascerà il nuovo partito e sta bloccando ogni passo avanti sulla strada del partito unico. E questo è un problema: se da due partiti non nasce un partito ma ne nascono tre significa semplicemente che vuoi tenerti le mani libere».

Intanto il coordinamento del Terzo polo non si riunisce più, per quale motivo?
«Perché a dicembre con un colpo di teatro Renzi è ridiventato segretario di Italia viva, accentrando su di sé tutti i poteri e levando Ettore Rosato con cui lavoravamo molto bene e che sedeva negli organi di coordinamento del Terzo polo. Oggi nel Comitato politico del Terzo polo non c’è nessuno che può prendere impegni per Italia viva. Le sembra normale? E anche il gruppo che doveva studiare le regole del congresso non riesce più a riunirsi perché da Italia viva non danno disponibilità. Quindi Renzi deve fare chiarezza».

E come si dovrebbe fare chiarezza secondo lei?
«Intanto rispondendo al documento che gli ho mandato da settimane per preparare il processo che porterà al partito unico e poi dicendo con chiarezza se è disponibile a sciogliere Italia viva, perché se non è disponibile non nasce nessun partito».

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Approvato il Def: 3 miliardi per il taglio del cuneo fiscale. Meloni: «Misure per la natalità»

mercoledì, Aprile 12th, 2023

di Enrico Marro

Approvato il Def: 3 miliardi per il taglio del cuneo fiscale. Meloni: «Misure per la natalità»

Il governo taglierà ulteriormente i contributi a carico dei lavoratori dipendenti con redditi medio-bassi per un valore complessivo di «oltre tre miliardi a valere sul periodo maggio-dicembre 2023». Lo ha deciso martedì il Consiglio dei ministri che ha approvato il Def, il Documento di economia e finanza. I tre miliardi che verranno utilizzati per «sostenere il potere d’acquisto delle famiglie» derivano dal mantenimento dell’obiettivo di un deficit quest’anno pari al 4,5% del prodotto interno lordo a fronte di un tendenziale (cioè a legislazione vigente) del 4,35%. Il governo aumenterà dunque di poco più di 3 miliardi il deficit, portandolo al 4,5%, per ridurre il cuneo fiscale, «con un provvedimento di prossima attuazione», a favore dei lavoratori a reddito medio-basso. Sulla scia, quindi, di quanto fatto con l’ultima legge di Bilancio, che aveva confermato per il 2023 il taglio di due punti dei contributi sulle retribuzioni fino a 35mila euro lordi, aggiungendo un punto (per un totale di tre) per quelle fino a 25mila euro. Un’operazione costata complessivamente 4,2 miliardi. Ai quali ora se ne aggiungono appunto tre. le misure

Pil in frenata

Anche per il 2024 i margini di manovra resteranno limitati. Se infatti il Pil di quest’anno viene rivisto inleggera crescita, all’1% come obiettivo programmatico rispetto allo 0,6% fissato lo scorso novembre e allo 0,9% tendenziale, per il 2024 la correzione è invece al ribasso: l’obiettivo di crescita è posto infatti all’1,5% contro il precedente 1,9%. E la frenata del Pil proseguirà nel 2025 con un + 1,3% e nel 2026 con un + 1,1%. Rispetto al 2022, quando la crescita è stata del 3,7%, pesano la congiuntura segnata da inflazione e bassa crescita, l’incertezza legata alla guerra, ma anche, spiega l’Economia, il rialzo dei tassi di interesse e «l’affiorare di localizzate crisi nel sistema bancario e finanziario internazionale». Del resto, proprio ieri il Fondo monetario internazionale ha corretto al ribasso le stime di crescita. Il Pil del mondo crescerà quest’anno del 2,8% e il prossimo del 3%, lo 0,1% in meno di quanto previsto in precedenza. Quello dell’Italia aumenterà nel 2023 dello 0,7%, ovvero lo 0,1% in più rispetto alle precedenti previsioni di gennaio, ma meno dell’1% previsto nel Def. E per il 2024 il Fmi stima un +0,8% contro il + 1,5 del governo. La cui linea è difesa dalla premier, Giorgia Meloni, che commenta così il Def: «Il governo ha tracciato la politica economica per i prossimi anni, una linea fatta di stabilità, credibilità e crescita. Rivediamo al rialzo con responsabilità le stime del Pil e proseguiamo il percorso di riduzione del debito pubblico. Sono le carte con le quali l’Italia si presenta in Europa». Sulla crescita modesta pesano anchele difficoltà nell’attuare il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Tanto che dal ministero dell’Economia si osserva che «per rendere il nostro Paese più dinamico, innovativo e inclusivo non basta solo il Pnrr. È necessario investire anche per rafforzare la capacità produttiva nazionale e lavorare su un orizzonte temporale più esteso».

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Dopo aver svilito la politica, Grillo mette in burla anche la fede

martedì, Aprile 11th, 2023

Andrea Indini

Chissà se, nel vedere i primi teatri pieni, qualcuno si era immaginato l’ascesa di Beppe Grillo. I vaffa sbraitati in piazza, la cavalcata verso Roma, lo slogan «Onestà, onestà» e le scatolette di tonno. I governi giallo-verde-rosso, le pochette di Conte e il clan dei miracolati innalzati a ministri. Chissà se qualcuno, agli albori dei meet up, della decrescita felice e della democrazia partecipata, aveva intravisto i disastri del populismo più becero fatto movimento: la politica ridotta a barzelletta, le leggi scritte coi piedi, la buffonata della povertà cancellata per decreto, l’aberrazione del reddito di cittadinanza.

Eppure era davanti agli occhi di tutti. Grillo che a teatro vomitava insulti e spargeva illusioni. E, alle sue spalle, Gianroberto Casaleggio e la piattaforma Rousseau, il blog e i social usati come clava. Una macchina macina click, consensi e soldi. Lo vedevamo, eccome. Forse, però, nessuno credeva davvero possibile l’ondata pentastellata. Poi è arrivata e ha travolto la politica, calpestandola. Poco importa se poi, dopo aver berciato per anni contro la Casta, si sono fatti Casta anche loro.

Ora che il movimento è diventato partito e i danni sono irreversibili, il fondatore si è chiamato fuori e ha cambiato casacca. Da comico a guru, da padre-padrone a santone o, peggio, ayatollah. E così, dopo aver svilito la politica, punta a svilire pure la fede. Lo scorso 21 dicembre ha fondato una nuova religione, l’Altrovismo. Una pagliacciata, per carità. Molti, forse, avevano pensato lo stesso dei VaffaDay. Poi, appunto, le piazze hanno iniziato a riempirsi. E, dopo le piazze, le urne e gli scranni in parlamento. Quindi chissà.

Oggi la Chiesa di Grillo ha già la sua bibbia, il «Libro dell’Altrove». È uscito nei giorni scorsi ed è acquistabile online per 10 euro e 99 centesimi. Inizia così: «Innanzitutto è importante comprendere che la specialità degli esseri umani non deriva dai loro pollici opponibili o dalla loro intelligenza, ma dalla memoria del tempo e dal senso dell’Io». E questo senso è l’Elevato a spiegarlo ai suoi fedeli in 80 pagine di follie su superfluo, sostenibilità del pianeta e alienazione dell’uomo.

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Nomine, le scelte di Meloni per Eni, Enel, Poste, Leonardo e Terna (che scontentano anche i suoi ministri)

martedì, Aprile 11th, 2023

di Monica Guerzoni 

La premier sceglie i 5 top manager. Le tensioni con la Lega, Salvini sente Gianni Letta

Nomine, Meloni ha l’ultima parola. E «scontenta» anche i suoi ministri
Da sinistra Claudio Descalzi, Roberto Cingolani, Stefano Donnarumma, Matteo Del Fante, Giuseppina Di Foggia 

La clessidra di Palazzo Chigi è agli ultimi granelli di sabbia. La grande partita delle nomine al vertice di Eni, Enel, Poste, Leonardo e Terna si sta per chiudere e non senza tensioni. Giorgia Meloni è al suo primo test al grande tavolo del potere e la prova di forza della leader sta mettendo sotto pressione i partiti. Pasquetta nervosa, senza tavoli né vertici, ma con colloqui telefonici in vista degli incontri di oggi a Palazzo Chigi. Giorgetti e Salvini, che temono di restare con le briciole nel piatto, si sono parlati dal vivo e puntano a ottenere almeno la presidenza dell’Eni. 

Il ministro dell’Economia deve partire in tarda serata per una missione al Fmi e vuole salire sul volo di Stato per gli Usa con l’accordo in tasca, magari dopo aver firmato la lista. In cima c’è Claudio Descalzi, inamovibile come ad di Eni. Il secondo nome è ancora un punto interrogativo e l’unica certezza è che il presidente del cane a sei zampe «proverà a indicarlo Salvini». Purché, avvertono ai piani alti del governo, «sia un profilo di assoluto standing». Tra i nomi evidenziati in giallo spicca quello della prima donna destinata ad approdare al vertice di una società pubblica quotata in Borsa. Un traguardo che Meloni si è imposta come «grande sfida della parità». L’onore e l’onere di diventare il primo «amministratore delegato donna» — per dirla con la premier, che vuole affidarle la guida di Terna — potrebbe toccare a Giuseppina Di Foggia, ceo di Nokia Italia. 

Gli alleati sono in sofferenza, prova ne siano i colloqui tra Salvini e Gianni Letta. Meloni invoca «competenza», ha preteso l’ultima parola su tutti i profili dei manager e punta a fare il pieno, cinque ad su cinque, a dispetto dei desiderata della Lega. «Descalzi all’Eni non si tocca e alle Poste resta Matteo Del Fante», aveva avvertito la presidente. E così è stato. Fonti di governo confermano che «Giorgia è irremovibile, non ascolta nemmeno i ministri di Fratelli d’Italia».

 Ne sa qualcosa Francesco Lollobrigida, che non è riuscito a imporre Maurizio Ferrante alle Poste. E ne sa più di qualcosa Guido Crosetto. Il co-fondatore di FdI pensava di aver convinto la leader ad affidare la poltrona più importante di Leonardo a Lorenzo Mariani, ceo di Mbda Italia. Invece sembra proprio che il ministro della Difesa abbia dovuto arrendersi e che non sia affatto contento. Dopo aver promesso a Crosetto che sarà ricompensato con «cose altrettanto importanti», ammesso che lo siano anche per lui, Meloni ha scelto per sostituire l’ad Alessandro Profumo l’ex ministro del governo Draghi, Roberto Cingolani, consulente di Palazzo Chigi per l’emergenza energetica. 

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Attacco a Tel Aviv, la salma di Parini in arrivo oggi a Ciampino. Netanyahu: “Faremo giustizia”

martedì, Aprile 11th, 2023

Nello Del Gatto

GERUSALEMME. Partirà oggi dall’aeroporto Ben Gurion per arrivare nel primo pomeriggio a Ciampino, la salma di Alessandro Parini, il giovane avvocato ucciso venerdì sera sul lungomare di Tel Aviv. È arrivato il via libera dalle autorità israeliane, che hanno concluso una parte delle indagini sulla sua morte, avvenuta ad opera di Yousef Abu Jaber, un arabo israeliano. Il corpo di Parini è stato sottoposto ad alcuni esami strumentali all’istituto di medicina legale di Abu Kabir. In particolare una tac ha evidenziato che nessun proiettile era presente nel corpo del giovane avvocato. Parini è stato anche ricordato sabato dalla manifestazione giunta alla quattordicesima settimana, nata per protestare contro la riforma della giustizia e divenuta un referendum anti Netanyahu.

Il premier ha deciso di metterci la faccia e presentarsi ieri sera in conferenza stampa, sullo stato della sicurezza nazionale. Negli ultimi giorni gli scontri sulla spianata delle moschee in occasione della Pasqua ebraica, razzi da Gaza, dal Sud del Libano, dalla Siria, l’attentato a Parini e quello, sempre venerdì nella Valle del Giordano nella quale sono state uccise due sorelle inglesi e la loro madre (morta ieri per le ferite) che vivevano in un insediamento nella zona, hanno posto un serio problema di sicurezza.

Netanyahu, che ha detto che il paese «è sotto attacco terroristico» e che questi sono cominciati con il governo precedente, ha assicurato che «tutti i terroristi saranno presi» e che il ministro della difesa Gallant, in un primo momento licenziato perché si opponeva alla riforma della giustizia, resta al suo posto. «La maggior parte delle persone oggi capisce che è necessario apportare modifiche al sistema giudiziario», ha affermato Netanyahu quando gli è stato chiesto delle riforme giudiziarie, esprimendo preoccupazione per l’immagine che Israele proietta ai suoi nemici durante questo periodo di disordini politici. Il premier ha poi sottolineato che il governo israeliano dovrebbe essere un fronte unito contro il terrorismo.

Un sondaggio pubblicato domenica da Channel 13 ha evidenziato che il Likud del premier, se si tenessero ora le elezioni, perderebbe 12 seggi, un risultato che non si vedeva dal 2006. La sua coalizione di governo arriverebbe a 46 seggi, contro i 61 necessari per formare il governo, visto che anche i suoi alleati, Itmar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, perderebbero seggi.

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Il Pnrr vale il doppio del Piano Marshall: perché i soldi dell’Europa non devono andare persi

martedì, Aprile 11th, 2023

di Ferruccio de Bortoli

Anche il pluricelebrato piano Marshall fu accompagnato da dubbi e polemiche sui tempi di attuazione, sulla nostra capacità di spendere e investire. Lucius Dayton, capo della missione speciale Eca (Economic cooperation administration) arrivò a minacciare il governo di Alcide De Gasperi di non versare la terza rata degli aiuti. «Si può fare di più» recitava un allarmato titolo del Corriere d’Informazione, del 5-6 ottobre del 1950, che dava conto delle parole contenute nella lettera di messa in mora del governo scritta dall’inviato dell’amministrazione americana. Era in gioco un assegno di 218 milioni di dollari, nel terzo anno del programma Erp (European recovery program). Giorgio La Malfa, in un articolo sul Sole 24 Ore, ricorda un episodio significativo. Donato Menichella, governatore della Banca d’Italia, incarica il presidente dell’Iri, l’Istituto per la ricostruzione industriale, Francesco Giordani, di accedere ai finanziamenti della Banca mondiale — di cui era membro del board — per lo sviluppo del Mezzogiorno. Giordani si sente rispondere: «Ma se non siete riusciti a spendere tutti i soldi del piano Marshall!».

La Cassa del Mezzogiorno

Nasce così, nel 1950, grazie all’intuizione di Pasquale Saraceno — e proprio per superare le rigidità americane — la Cassa del Mezzogiorno. Uno strumento più adatto per assicurare, come in realtà avverrà, una stagione di investimenti produttivi. E ridurre le disuguaglianze fra Nord e Sud. Il nostro potente alleato, vincitore della Seconda Guerra Mondiale, spingeva affinché gli aiuti si traducessero — al di là degli interessi di mercato delle aziende americane e degli investimenti nella Difesa — in lavoro e reddito, dunque minori tensioni sociali. Un argine all’ascesa comunista. Era quella un’Italia che usciva dalla guerra prostrata da morti e distruzioni, visibili ogni giorno agli occhi di chi andava a lavorare, ferite aperte in tutte le memorie familiari. Le previsioni

Riscatto nazionale

Una Repubblica appena nata, una Costituzione appena scritta, un Paese assetato di libertà con la voglia di conquistare il futuro. Se soltanto una parte, anche piccola, di quel sentimento di riscatto nazionale fosse presente oggi, i dubbi sulla nostra capacità di portare a termine, nei tempi previsti, il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr), sarebbero fortemente limitati. Il piano Marshall fu la premessa del miracolo economico italiano, grazie al quale il nostro Paese si affermerà tra le sette più grandi economie del mondo (addirittura quinta alla fine degli anni Ottanta). Il Pnrr vale il doppio del piano Marshall portato ai valori attuali. Il doppio! Possibile che non riesca — inutile illudersi in un secondo miracolo economico — a riportarci su un cammino di crescita duratura e stabile? Ma quella era un’Italia più giovane, che faceva più figli, che si accontentava di ciò che aveva, disposta al sacrificio. C’era una grande forza lavoro. Anche sottoutilizzata. Un’esuberanza imprenditoriale. Anche selvaggia. Si continuava a emigrare (solo nel 1975 il saldo fra immigrazione ed emigrazione cambierà di segno). La produzione industriale nel 1948 era tornata già ai livelli pre guerra. E così il reddito pro capite nel 1950. Noi, nel 2023, non siamo ancora riusciti a tornare al 2008, al tempo della crisi finanziaria, nonostante la nostra crescita sia stata dell’11 per cento in due anni. Ci accontentiamo — considerandolo quasi miracoloso — di aver recuperato il livello di Prodotto interno lordo (Pil) del 2019.

Le difficoltà

Si fa un gran parlare in questi giorni delle difficoltà del governo Meloni nel rispetto dei tempi del Pnrr con il rischio di perdere la prossima rata. La terza, come ai tempi del piano Marshall. Ma di 19 miliardi per il 2022. La prossima rata (16 miliardi) dovrebbe essere pagata a fine giugno. A patto che si raggiungano 27 obiettivi (96 nell’intero anno). La realtà (amara) è che nessuno sa esattamente a che punto siamo.E anche oggi, come nel 1950, i principali problemi riguardano progetti nelle aree del Sud per le quali è destinato il 40% dei sussidi e dei prestiti avuti dall’Unione europea. All’epoca del piano Marshall si risolse con una struttura ad hoc, la Cassa del Mezzogiorno. Ci si chiede, di conseguenza, se nel previsto (dal Pnrr) esercizio dei poteri sostitutivi degli enti locali e dei comuni, non sia necessaria una figura o una struttura commissariale.

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Cosa lascerà alla politica un Cavaliere senza eredi

martedì, Aprile 11th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Non vi sforzate di immaginare il dopo Berlusconi: come D’Annunzio, ma più triviale e teatrale del Vate, il Cavaliere ha vissuto e vive una “vita inimitabile”. E dunque non replicabile. Si rassegnino figli e famigli, senatori e coordinatori, deputate e fidanzate, badanti e cantanti: al di là dei patrimoni miliardari e dei conti fiduciari, delle ville ottocentesche e delle residenze picaresche, non c’è un’altra eredità da spartire. Solo la “roba”. Che è tanta, tantissima. Ma non c’entra (più) niente con la politica. Come tutti, e senza falsa retorica, auguriamo anche noi al “Presidente” di rialzarsi anche stavolta, dopo l’ennesima caduta cui lo condannano il Fato, la malattia, l’anagrafe. Ma come tutti, con altrettanta onestà, dobbiamo sapere che il suo finale di partita – speriamo comunque più lungo e sereno possibile – coincide inevitabilmente con la fine del suo partito.

Berlusconi è esistito ed esisterà anche senza Forza Italia: prima della politica c’erano già sia il costruttore seriale che ha sfornato Milano Due sia il tycoon televisivo che ha stravolto i nostri usi culturali e i nostri consumi commerciali. Ma Forza Italia non sarebbe esistita e non può esistere senza Berlusconi. Questo destino inscindibile è l’essenza stessa del “partito personale” che lui ha fondato e plasmato a sua immagine e somiglianza (e nel quale si sono beatamente rispecchiati corrivi cantori e cattivi imitatori, in Italia e nel mondo). Ed è l’effetto naturale e non collaterale del primo dei tre lasciti che (insieme al populismo e al bipolarismo) il Cavaliere consegna alla Storia italiana: il leaderismo. Cioè la sacralità del comando e la natura octroyée del suo esercizio, dove ogni atto non è negoziato ma concesso dal sovrano al suddito.

L’unto del Signore, auto-investito di un mandato messianico e sempre titanico, “scende in campo” con una missione epocale: salvare l’Italia dai comunisti (benché rimanga in eterno il sospetto che l’abbia fatto per salvare se stesso dai processi). Per questo inventa dal nulla il “partito di plastica”, trasformando la rete della raccolta Publitalia nella tela del consenso azzurro, e in pochi anni lo trasforma nel “partito di Silvio”. Col suo carisma e col suo strapotere, tutto decide e tutto amministra. Con la sua spregiudicata destrezza e la sua smisurata ricchezza, applica alla politica la regola che Enrico Cuccia adattava alla finanza: “Ogni uomo ha un prezzo” (lui di suo ci aggiunge anche “ogni donna”, ma questo è un altro discorso). Nel Palazzo, come al Mercato, tutto si può comprare e vendere: leggi e sentenze, elettori ed eletti, concessioni e condoni.

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