Archive for Aprile, 2023

Renzi arruola Borghi, l’ira dem: “Un attacco cinico a Elly Schlein”

giovedì, Aprile 27th, 2023

Carlo Bertini

ROMA. Sarà pure «un’operazione di Renzi per far capire a Calenda che lui ha preso in mano il terzo polo», sospetto confermato dalla citazione di Gigi Proietti fatta in conferenza stampa dal leader di Italia Viva: «Io so’ come il cavaliere nero…» con la chiusa fulminante «e al cavaliere nero non gli devi rompere il…». Anche se tutto si iscrive nella competizione tra Renzi-Calenda e Letta, l’arrivo in Iv di Enrico Borghi, senatore vicino all’ex segretario, membro del Copasir, solida cultura di matrice cattolico democratica, esperto di sicurezza e difesa, segnala un problema per la neo segretaria dem.

«I silenzi in politica contano più delle parole», è l’accusa di Borghi a Elly Schlein, che non lo ha degnato di risposta dopo i quesiti da lui sollevati. «I cattolici non possono sentirsi a casa con chi è d’accordo con la Gestazione per altri (GPA)», sostiene Renzi. «Ho posto un disagio dei cattolici democratici, nessuna risposta», gli fa eco Borghi. La leader continua a tacere, intervengono Francesco Boccia, capogruppo al Senato, («amareggiato e deluso») e Marco Furfaro. Che – intervistato da Sky Start – replica così a Borghi, che parla di mutazione genetica del Pd: «L’unica mutazione è che cresciamo nei sondaggi: vuol dire che il Pd è tornato ad essere quello che gli elettori vogliono, netto sulle cose che dice». Tranchant anche Peppe Provenzano: «Borghi usa le stesse argomentazioni della destra contro Schlein».

Se la segretaria tace, i suoi spargono veleni: «E’ un attacco cinico a Schlein, Borghi è al terzo mandato col Pd, Renzi gli avrà promesso di ricandidarlo, alle politiche o alle europee o come presidente del Piemonte l’anno prossimo». Ma l’uscita di Borghi è la terza dopo quelle dell’ex ministro dell’Istruzione Beppe Fioroni e dell’ex capogruppo, il liberal Andrea Marcucci. E altre sarebbero in arrivo, come quella dell’europarlamentare Caterina Chinnici verso Forza Italia.

Quando poi Renzi scommette che «la prossima uscita del Pd non sarà in direzione di Italia Viva», il pensiero corre a Carlo Cottarelli, che potrebbe raggiungere Carlo Calenda in Azione. Insomma tra i dem si comincia a temere un’emorragia dell’area moderata del Pd.

Un tipo sempre prudente con le parole come Lorenzo Guerini, tira la corda: «Non sono d’accordo con Borghi, però non si può risolvere la questione con un’alzata di spalle, qualche valutazione sarebbe opportuna. C’è qualche malessere che va compreso politicamente», dice il presidente del Copasir. Confermando la tesi di Borghi, che rifiuta di dimettersi dal Comitato come gli intima il Pd: «Per il Copasir non cambia niente. La legge dice che i membri devono essere cinque di maggioranza e cinque di opposizione, da questo punto di vista è in regola».

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La telefonata di Xi Jinping a Zelensky: perché proprio ora? La paura della reazione atomica alla controffensiva ucraina

giovedì, Aprile 27th, 2023

di Guido Santevecchi

Un segnale all’Europa. E forse un tentativo di far rinviare i piani a Kiev

La telefonata di Xi Jinping a Zelensky: perché proprio ora? La paura della reazione atomica alla controffensiva ucraina

Perché proprio ora? Perché solo ora Xi Jinping ha finalmente parlato con il presidente dell’Ucraina aggredita dalla Russia? Il presidente cinese è un calcolatore e una possibilità è che abbia scelto i tempi del suo intervento «guardando» alle mappe dei generali di Kiev di cui tutti gli analisti militari occidentali discutono: sul tavolo ci sono i piani di una controffensiva ucraina prevista per maggio.

Il piano militare sta creando grandi attese e altrettanto nervosismo, da Washington a Mosca. Si teme un allargamento del conflitto, l’ombra di una reazione nucleare russa. Xi, aprendo il canale personale con Zelensky, spedendo un suo inviato con l’incarico di sondare «tutte le parti», forse vuole evitare o almeno far rinviare il contrattacco ucraino. Non sappiamo se il presidente cinese si sia di nuovo consultato in segreto nelle ultime ore con l’amico Vladimir Putin; se tema che l’Armata russa sia destinata a subire altri rovesci sul campo, o che il Cremlino immagini una risposta disperata con l’arma nucleare tattica. Certo, ora Kiev e Mosca (e anche gli occidentali) dovranno valutare il passo della superpotenza cinese, l’ipotesi di una mediazione. Xi ha evocato «il pensiero razionale» e «l’importanza di cogliere le opportunità». Sembra un invito anche agli Stati Uniti.

Stiamo ai fatti emersi. La nota di Pechino sulla telefonata, ieri è arrivata a tempo di record. La portavoce degli Esteri cinese ha anticipato nell’annuncio anche Zelensky, lo ha dato su Twitter in inglese, russo e spagnolo. Si capisce che Zhongnanhai (quartier generale del Partito-Stato) aveva già scritto la velina con il riassunto del discorso di Xi, pronta per il lancio internazionale, per impressionare il mondo.

Tre i punti chiave. 1) La cosa più concreta è l’annuncio dell’invio del Rappresentante speciale cinese per gli affari euroasiatici a Kiev e «in tutti gli altri Paesi interessati alla soluzione della crisi ucraina». Si tratta di Li Hui, in passato e per dieci anni ambasciatore a Mosca: dunque molto esperto di discussioni con il Cremlino.

2) Xi ha evocato il rischio di uso dell’arma nucleare, dicendo che «nessuno esce vincitore da uno scontro del genere». Si tratta di una ripetizione della posizione cinese, ma ricordarla in questa fase del conflitto, mentre personaggi come il russo Medvedev continuano ad agitarne lo spettro, aggiunge un senso di urgenza, quasi che i cinesi vogliano convincere gli ucraini della necessità di sedersi rapidamente al tavolo per scongiurare un esito atroce e umanamente insostenibile.

3) A Pechino nelle ultime settimane si è svolta una processione di leader europei, dal premier spagnolo Pedro Sánchez, al presidente francese Emmanuel Macron, che hanno chiesto a Xi di premere su Putin e di proporsi come grande mediatore, chiamando Zelensky. Per dare copertura alle missioni politiche (e commerciali) degli europei e rispondere alla posizione più critica espressa dalla presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen, il leader comunista aveva bisogno di un bel gesto. Ha finalmente telefonato a Kiev.

Secondo il riassunto cinese, Xi ha citato a Zelensky le idee elaborate in questi lunghi mesi per «avviare colloqui, ristabilire e preservare la pace, i confini riconosciuti e la sovranità di ogni Paese».

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Pd e M5s, dialogo e piroette a sinistra

giovedì, Aprile 27th, 2023

di Paolo Mieli

A due mesi dalle primarie che elevarono Elly Schlein al vertice del Pd, si può tracciare un bilancio più che positivo dei sessanta giorni trascorsi. Nei sondaggi il partito è tornato a collocarsi stabilmente sopra il 20 per cento e ha lasciato il M5S dietro di cinque punti. La nuova segreteria si mostra assai abile nel rintuzzare la maggioranza, producendo ogni giorno polemiche nuove di zecca. Talvolta anche due o tre in un’unica giornata. Né i dem si mostrano preoccupati dalle insidiose iniziative provenienti da sinistra, neanche dai referendum contro le armi a Zelensky o l’assai pubblicizzata «Staffetta dell’Umanità» di Michele Santoro per «unire l’Italia contro la guerra», per «riaccendere la speranza» e per «camminare insieme da Aosta a Lampedusa». Come se il nuovo gruppo dirigente del Pd considerasse tali iniziative fuori tempo rispetto a un anno fa quando invece Enrico Letta fu impensierito da quel che si muoveva sul fronte pacifista.

Un grande tonico per l’esordio di Schlein sono state le schermaglie delle settimane che hanno preceduto il 25 aprile. Curiosamente, però, in Europa furono presi più sul serio, ventinove anni fa, i rischi di deriva autoritaria del primo Berlusconi, di quanto sia accaduto adesso con il debutto di Giorgia Meloni. Fuori dai nostri confini, l’allarme fascismo è stato scarso. Anche nel mondo delle arti che pure nel 1994 si mostrò assai incline a questo genere di apprensione.

In ogni caso il Pd schleiniano mostra di avere fiato — e, a quanto pare, sostegno tra i propri elettori — talché potrebbe andare avanti ancora per mesi (magari per anni) nelle polemiche quotidiane che traggono spunto da voci dal sen fuggite ad esponenti della destra. A volte si ha quasi l’impressione che quelle «gaffe» governative siano intenzionali, parole gettate lì da navigati rappresentanti della maggioranza nella certezza che qualcuno abboccherà e ne seguirà un battibecco. Battibecco destinato a rinfrancare i settori dei due schieramenti più sensibili alle ragioni della propria identità.

Rassegniamoci perciò: le cose andranno avanti così. A lungo. Queste baruffe quotidiane sono un tonico per la sinistra e la destra non sembra darsene pena. D’altra parte, per la sinistra sarebbe terribilmente più complicato indicare una prospettiva diversa. Ad esempio, una via credibile per tornare al governo sospinti da un voto che consenta alla sinistra di conquistare la maggioranza nei due rami del Parlamento.

Nel decennio scorso, la destra, pur travagliata da un’infinità di disavventure, fu in grado di mantenere un proprio impianto di struttura (in fin dei conti quello berlusconiano del ’94) che le ha permesso al momento opportuno di serrare i ranghi e vincere le elezioni. Se perdeva pezzi, altri ne guadagnava. Con il partito di un immarcescibile Berlusconi lì a garantire nei confronti dell’Europa e quello di Giorgia Meloni che, dall’opposizione, era stato capace di intercettare (assorbendole) le perdite della Lega di Salvini. E di conquistarsi, in virtù dell’essersi schierato dalla parte della Nato e dell’Ucraina (oltreché dei buoni uffici di Mario Draghi), un’immagine tutto sommato rassicurante per i Paesi d’oltreconfine.

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Giorgetti: «Con queste regole europee dovremo rivedere anche gli investimenti»

giovedì, Aprile 27th, 2023

di Federico Fubini

Giorgetti: «Con queste regole europee dovremo rivedere anche gli investimenti»

Giancarlo Giorgetti non è sorpreso. Sapeva da quando ha accettato l’incarico che, come ministro dell’Economia, avrebbe governato un cambio di stagione. Sono finiti gli anni sull’orlo della deflazione e quelli della pandemia, che avevano portato la Banca centrale europea a sostenere il debito dell’Italia. Si spera siano nel passato anche gli choc — il Covid stesso, la crisi energetica — che avevano indotto a sospendere le regole di bilancio europee. Quella fase era stata dura, certo. Ma ora Giorgetti dovrà navigare in tempi normali – senza sostegni dall’esterno – con un’economia e specialmente un debito pubblico che sono tutto salvo che normali. Il sistema Italia era fragile e lo resta: anche ora che le regole di bilancio europee stanno per tornare.

La reazione

Per questo la reazione del ministro alla proposta della Commissione è a tre stadi. C’è sicuramente del disappunto perché gli investimenti del Piano nazionale di ripresa (Pnrr) non risultano esentati, né il loro peso è mitigato, nella valutazione dei conti pubblici. Il commento di Giorgetti alla proposta della Commissione è stato immediato: «È un passo avanti – ha detto a caldo – ma noi avevamo chiesto l’esclusione delle spese d’investimento, incluse quelle tipiche del Piano nazionale di ripresa e resilienza sul digitale e la transizione verde, dal calcolo delle spese obiettivo su cui si misura il rispetto dei parametri. Prendiamo atto che così non è». La proposta

Il flusso delle informazioni da Bruxelles

Poi però, con il flusso delle informazioni da Bruxelles e l’esame dei documenti, il ministro ha iniziato a mostrare anche dell’irritazione e soprattutto una dose massiccia di realismo. Quest’ultimo è legato al fatto che l’inevitabile compromesso fra le posizioni di diverse nelle capitali non renderà morbidissimi i nuovi vincoli. Dice il ministro: «Il nuovo Patto di stabilità impone una rigorosa revisione della spesa (pubblica, ndr), di tutta la spesa, compresi gli investimenti». Il perché è nelle regole proposte da Bruxelles e, almeno queste, ben viste a Berlino: in base ad esse la spesa pubblica potrà crescere percentualmente negli anni a venire, in sostanza, meno di quanto sia cresciuta l’intera economia negli anni passati; e poiché l’Italia quasi non è cresciuta nell’ultimo decennio, la spesa dovrebbe restare molto compressa e servirebbero tagli su altre voci se si volessero fare investimenti. Giorgetti osserva: «La spending review dovrebbe riguardare anche gli investimenti del Pnrr che hanno un impatto sugli obiettivi». In altri termini, quelli basati su prestiti europei (per circa 120 miliardi di euro) che entrano nel debito pubblico.

Non rinunciare ai prestiti europei

Questo però per il ministro non significa rinunciare ai prestiti europei. Piuttosto Giorgetti non vuole più casi della categoria dello stadio di Firenze, cioè a basso moltiplicatore di crescita futura. «Si tratta di riconsiderare i programmi, di ripassarli al setaccio e eventualmente riallocare le risorse su quelli realmente in grado di aumentare il potenziale produttivo del Paese». Esempi virtuosi? «I programmi di RePowerEU», i piani di transizione e indipendenza energetica che il governo presenterà tra poche settimane a Bruxelles. Poi però nel ministro c’è anche dell’irritazione, ma non per il contenuto dei documenti ufficiali. È per le voci da Bruxelles che, se passasse questa proposta, accreditano per l’Italia un cammino preciso: correzioni nette di bilancio da 0,85% del prodotto lordo all’anno (16 miliardi di euro ai valori del 2022) per stare nelle regole con programmi di risanamento quadriennali; o correzioni da 0,45% (8,5 miliardi) per stare nelle regole con programmi magari su sette anni, che però implicano un percorso preciso di riforme e investimenti. La logica di Bruxelles è che quella stretta da 0,85% del Pil all’anno sarebbe quanto serve all’Italia per risanare fino al punto in cui il debito inizia a scendere da solo, senza nuovi sacrifici. Quegli interventi porterebbero il surplus primario di bilancio – quello prima di pagare gli interessi – così in alto da tagliare il debito rispetto al Pil ogni anno. il piano

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l disarmo nucleare spiegato in 2 minuti: dal trattato del ’68 alla sospensione di Putin

mercoledì, Aprile 26th, 2023

di Niccolò Locatelli

Il 21 febbraio Vladimir Putin rivolgendosi alla nazione dalla Duma ha annunciato la sospensione del trattato New Start, relativo alla limitazione delle armi nucleari, firmato  nel 2010 da Obama e Medvedev. La Russia, ha spiegato Putin, non può permettere agli ispettori americani di visitare i siti nucleari considerata la posizione assunta dagli Usa sulla guerra in Ucraina. Il trattato consentirebbe infatti agli ispettori statunitensi e russi di  autorizzare ogni anno fino a 18 ispezioni con breve preavviso nelle rispettive basi nucleari. Ma come si è arrivati a firmare questo accordo? Qui si vuole ripercorrere la complessa opera di mediazione e dialogo portata avanti da Stati Uniti e Russia nel corso degli ultimi decenni per raggiungere un accordo sul disarmo nucleare. 
Ucraina – Russia, le news sulla guerra di oggi 26 aprile

LA STAMPA

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L’handicap del Belpaese

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Augusto Minzolini

È il passato che ci tira per i piedi e ci riporta indietro. I fantasmi di una tragedia da cui avremmo dovuto imparare la lezione e che, invece, ci perseguitano. Oppure un sogno agognato che non si avvera. Oggi si celebra il 25 aprile, la festa della Liberazione, quello che dovrebbe essere un anniversario di riconciliazione, di unità del Paese. E che si trasforma puntualmente in un giorno di polemica. Mai come in questa occasione con l’avvento di un governo di destra-centro, la sinistra in tutte le sue forme (complice anche la superficialità con cui qualche esponente dell’attuale maggioranza di governo congettura su certi argomenti) ne ha fatto un tema di divisione. Il problema, però, non è il fascismo con cui questo Paese ha fatto i conti da un bel po’. Quello semmai è un pretesto, l’alibi con cui la sinistra populista punta a compattarsi, la questione con cui tenta di delegittimare l’attuale governo e la sua maggioranza. Ciò che deve preoccupare, invece, è una lacuna, una questione irrisolta che nei momenti difficili può provocare seri danni: l’assenza di un sentimento nazionale unitario. Quello spirito che ancora manca come lamentava Silvio Berlusconi nel famoso discorso di Onna di 14 anni fa (che oggi pubblichiamo su Il Giornale) e che dovrebbe animare tutte le forze politiche. L’anelito che trasforma un Paese in una Nazione.

Non si tratta di pura retorica. Tutt’altro. Semmai è il vero handicap italiano, quello che impedisce alla maggioranza e all’opposizione del momento di riconoscere e di proteggere insieme l’interesse nazionale. È l’handicap che ci ostacola nell’individuare una politica estera comune che dia più peso all’Italia nel mondo, nel fare sistema in economia, nell’introdurre una riforma istituzionale condivisa. Restiamo purtroppo un Paese irrimediabilmente diviso tra guelfi e ghibellini. Che senso ha, infatti, in una giornata come questa riaprire vecchie ferite all’insegna delle speculazioni politiche, proprio quando lo scontro a livello globale è tra le democrazie occidentali e altri totalitarismi, autarchie, regimi. Basta pensare all’Ucraina o a Taiwan. L’importante semmai è serbare il ricordo, l’intento e l’impegno comune affinché l’Italia non riviva una terribile e tragica dittatura come il ventennio fascista. E su questo francamente nessuno ha dubbi, a destra come a sinistra (a parte il pugno di nostalgici che non manca mai). Come nessuno ha dubbi sul valore della Resistenza. Eppure visto che a volte per avvelenare il presente fa comodo tirare in ballo vecchi fantasmi, sono giorni che assistiamo ad una mezza guerra civile combattuta a parole. Con il rischio che alla fine qualcuno ci creda.

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Santoro non si tiene: “A pascolare le pecore”. Chi insulta per il 25 aprile

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Alla sinistra non basta mai. Non basta neanche la lunga lettera al Corriere della sera con cui la premier Giorgia Meloni, il 25 aprile, ha preso ancora una volta le distanze da ogni totalitarismo: “Da molti anni e come ogni osservatore onesto riconosce i partiti che rappresentano la destra in Parlamento hanno dichiarato la loro incompatibilità con qualsiasi nostalgia del fascismo”. Parole nette e definitive che naturalmente non sono sufficienti a evitare alla premier le polemiche strumentali della sinistra. Un esempio se ne è avuto durante la trasmissione Dimartedì su La7. Michele Santoro intervistato dal conduttore Giovanni Floris parte subito all’attacco: “In questa lenzuolata di parole di Meloni sul Corriere della Sera la parola antifascismo non c’è una sola volta. Dobbiamo pensare che lei e Ignazio La Russa sono fascisti? Non lo penso, ma credo che siano afascisti – argomenta il giornalista – Ormai non sono né l’uno né l’altro, non sanno da dove vengono e dove vanno”. 

L’ex volto di tante trasmissioni Rai tira poi in ballo i consigli non richiesti di Gianfranco Fini alla premier. L’ex leader di An aveva chiesto a Meloni di dichiarare “senza ambiguità” che la destra italiana ha chiuso i conti col fascismo. “Sarà pure un maschio 8, ma Fini un po’ di politica l’ha studiata. Ha detto a Meloni di dire di essere antifascista, lei non ci è riuscita”, argomenta Santoro che spiega cosa si aspettava dal discorso della premier. Innanzitutto che si dicesse espressamente antifascista, e poi che linciasse pubblicamente La Russa e il ministro Francesco Lollobrigida…

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Luigi Di Maio inviato nel Golfo si mette in tasca oltre 330mila euro

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Dario Martini

Luigi Di Maio, grazie all’incarico di inviato speciale Ue nel Golfo Persico, riuscirà a mettersi in tasca oltre 330mila euro. Per la precisione 336mila. Lo stipendio non è ancora ufficiale. Ma è la retribuzione prevista per chi svolge questp tipo di compito per conto dell’Unione europea. La ratifica ufficiale ancora non c’è. Il primo step è previsto domani, quando della questione si occuperanno gli ambasciatori del Comitato politico e di sicurezza. Si tratta solo di un passaggio formale. Il via libera definitivo arriverà solo in seguito con l’approvazione del Consiglio. Se dovesse saltare sarebbe una vera sorpresa, dal momento che verrebbe bocciata l’indicazione dell’Alto rappresentante per la politica estera, Josep Borrell, il quale ha indicato il profilo dell’ex ministro degli Esteri italiano come il più qualificato. Proprio ieri, Peter Stano, portavoce della Commissione europea, rispondendo a una domanda su Di Maio, ha precisato: «Siamo molto fedeli alle procedure e alle buone maniere. Solitamente non commentiamo sulla corrispondenza inviata dall’Alto rappresentante» Josep Borrell «agli Stati membri. Quindi non posso confermare nulla, posso solo dire che procedura per selezionare e nominare una persona coma nuovo rappresentante speciale Ue presso il Golfo non si è ancora conclusa. Non possiamo commentare su una procedura interna e in corso quindi non contribuiamo alle speculazioni».

Il governo italiano, tramite il titolare della Farnesina Antonio Tajani, ha precisato che l’ex capo dei 5 Stelle non è il candidato del governo italiano. La Lega, invece, ha parlato di scelta vergognosa. E proprio il partito di Salvini, con un’interrogazione a firma dell’eurodeputato Marco Zanni, ha chiesto chiarimenti a Borrell. Nell’interrogazione viene evidenziato come proprio Di Maio, quando era ministro degli Esteri, «abbia creato in maniera ripetuta incidenti diplomatici con alcuni Paesi parte del Golfo Persico». Inoltre, si sottolinea che dalla risposta a un’altra interrogazione, la «E-003982/20221, si desume che la retribuzione per tale figura potrebbe corrispondere a quella di un AD14-15». L’interrogazione a cui si fa riferimento ha come oggetto l’incarico di un altro inviato speciale, quello per il Sahel, fascia di territorio dell’Africa subsahariana, per cui, appunto, il compenso è quello di categoria AD14-15. Lo stipendio mensile che corrisponde a questo codice è pari a 16.084 euro, previsto per i funzionari single senza figli a carico che percepiscono la cosiddetta «indennità di espatriato». L’«expat allowance» (questo il termine inglese) spetta agli alti funzionari che per lavoro si trovano all’estero, distanti dal luogo di residenza. La tassazione, con ritenuta alla fonte, è circa del 10%, ma se si aggiungono altre indennità minori il compenso totale viene di fatto pareggiato, così lordo e netto finiscono per essere praticamente equivalenti.

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In Russia “sta crollando tutto, la gente si ammazzerà per le strade” e il potere è “nelle mani di uno s…”. Il nuovo devastante audio tra due oligarchi russi

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Jacopo Iacoboni

In Russia «sta crollando tutto», e il potere è «nelle mani di uno stronzo».

Se la conversazione è autentica – come molti indicatori lasciano credere, e come sostengono e scrivono gli osservatori russi indipendenti che abbiamo consultato –è un altro devastante capitolo della lotta intestina nelle élite russe, che ormai non credono più a Vladimir Putin e, non potendolo dire pubblicamente, parlano tra loro. Tanto. Disperatamente. Un nuovo impressionante leak (rivelato del progetto investigativo russo “Sistema”) svela il dialogo tra due uomini che sembrano essere il miliardario Roman Trotsenko (un uomo vicinissimo a Igor Sechin, il boss di Rosneft), e l’uomo d’affari Nikolai Matushevsky.

I due che parlano al telefono discutono della guerra, organizzano la partenza dei loro parenti dalla Russia e dicono quello che pensano sulle autorità del paese. «Non esiste il concetto di un domani. Moriranno [dannazione], a un certo punto nel tempo, e non lasceranno nulla dietro. Sarà solo un deserto bruciato», dice un uomo con una voce simile a quella di Trotsenko, che è una delle persone più ricche di Russia. Trotsenko e Matushevsky hanno definito la registrazione un falso. Matushevsky ha detto ai giornalisti di “Sistema” «penso che sia un falso o uno stupido scherzo di qualcuno che usa l’intelligenza artificiale». Ma – scrivono per esempio «Astra» e «Svoboda» – diversi fatti suggeriscono che la conversazione registrata sia autentica. Anche “Sota” la avvalora. Current time, citando una fonte, scrive che il numero dal quale telefona l’uomo che nell’audio viene chiamato “Roma” corrisponde a quello di Trotsenko.

I due interlocutori prevedono scenari da guerra civile, come già fecero – in un altro precedente leak – l’oligarca Akhmadov e il produttore musicale Iosif Prigozhin, d cui La Stampa aveva dato conto in anteprima. «Le persone si taglieranno a vicenda per le strade di Mosca», dice il presunto Trotsenko. «Sfortunatamente, la Russia, che amiamo così sinceramente, è finita nelle grinfie di uno stronzo». «Le persone si uccideranno a vicenda per le strade di Mosca. È solo una questione di tempo». E il suo interlocutore raddoppia, dice di aver visto di recente un video con il taglio degli auguri di Capodanno dei presidenti, «a partire da Eltsin […] fino all’ultimo, quando questo deficiente non è sullo sfondo dell’albero di Natale, come sempre, ma i militari». «Come può vivere una nazione in cui l’unica ideologia è che un ristretto gruppo faccia soldi e mantenga il potere?».

Trotsenko è considerato una delle “casse” del capo di Rosneft Igor Sechin, e Nikolai Matushevsky è il creatore di spazi artistici importanti e alla moda, Flakon e Khleb-zavod, a Mosca. Lo sfondo della conversazione, che avrebbe avuto luogo all’inizio di gennaio 2023, è di estrema confidenza. I due si chiamano con diminutivi affettuosi – Kolya e Roma – discutono delle vacanze a Bali, “Kolya” dice a “Roma” che ci sono molti investitori lì e che è un posto da tenere in considerazione in tutti i sensi: «Recentemente, è stato davvero difficile per me in Russia, ho capito che qualcosa non andava, non è bello stare lì», si lamenta Kolya, e quello che sarebbe Trotsenko si mostra d’accordo. Poi Kolya parla in dettaglio del suo nuovo progetto: “Airbnb for Business”: «Esatto, non devi ricordare più cosa è successo in Russia. Non esiste più e non accadrà più», e a quel punto “Roma” approva l’idea e sostiene che in Indonesia «tutto decuplicherà in dieci anni, e la Russia cadrà due volte». Si decuplicherà, par di capire, anche il livello di capitali (russi) che stanno affluendo. Poi gli amici parlano di trasloco, bambini, famiglie, e finiscono a commentare la guerra e la situazione in Russia.

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Restituiamo un valore alle nostre storie

mercoledì, Aprile 26th, 2023

Marco Follini

Caro direttore, c’è sempre una ragione, quando non se ne viene a capo. E la ragione delle date che non tornano e degli equivoci della memoria sta anche nel fatto che il mantra della classe politica che si è affermata negli ultimi tempi è stato quello di un’innovazione spinta fino alle soglie dell’improvvisazione. Dopo anni e anni nei quali tutti noi abbiamo preso a pugni il nostro passato, dopo che nessuno più ha rivendicato la propria storia, e semmai s’è fatto a gara per cancellarne ogni traccia, sarebbe stato davvero difficile immaginare che si fosse riusciti a conservare, e semmai affinare, una minima capacità di fare i conti con le radici della vita repubblicana.

Ora, questo difetto appartiene un po’ a tutti. E di certo non giustifica le aberrazioni di certa destra, né i suoi silenzi, né certe sue parole equivoche. Ma noi, figli della Prima repubblica e dei suoi gloriosi partiti di una volta, forse abbiamo qualche responsabilità in più per aver spezzato il filo che ci legava alle nostre tradizioni. Infatti, abbiamo cambiato nome, deposto le insegne, bandito ogni forma di nostalgia e quasi manifestato imbarazzo per essere stati quelli di prima. Una volta che non c’erano più la Dc, il Pci e tutti gli altri, ci è sembrato doveroso rivendicare l’unico titolo che continuava a contare: quello di essere “post” qualcosa. Un po’ poco per salire in cattedra.

È ovvio che la politica sia movimento, innovazione, ricerca e scoperta di nuovi orizzonti. Ma ogni destinazione dovrebbe sapersi confrontare anche con la sua stessa origine. E immaginare il percorso storico come uno svolgimento e non come un susseguirsi di strappi e lacerazioni. Per noi, invece, ultime generazioni dei partiti che furono, l’arrivo finiva per essere solo il capovolgimento della partenza. Così, abbiamo fatto del nostro meglio per perderci. I democristiani intenti a dirsi popolari e mai più Dc. I comunisti pronti a rivendicare di non essere mai stati tali. E via dicendo. Quasi che il nostro stesso passato fosse diventato una tassa che ci si poteva esimere dal pagare.

Per questa via si arriva all’ultimo paradosso della politica italiana. E cioè al fatto che quanti possono rivendicare qualche merito quasi se ne vergognano, o almeno se ne tengono a prudente distanza. E quanti invece si dovrebbero distaccare dal torvo passato, quantomeno quello dei loro antenati, finiscono quasi per rivendicarlo adottando tutti quei giri di parole e/o quei colpevoli silenzi che dovrebbero far da scudo alle loro traballanti coscienze. Senza riuscirci, peraltro.

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