Archive for Aprile 15th, 2023

I 5s sognano la democrazia diretta però boicottano l’elezione al Colle

sabato, Aprile 15th, 2023

Domenico Di Sanzo

Altro che Rousseau, i grillini dicono no al presidenzialismo Il ministro Casellati: «È il contrario di quello che dicevate»

Parlavano di Rousseau e della democrazia diretta. Della partecipazione dei cittadini e del referendum propositivo. Eppure i 5 Stelle boicottano l’elezione diretta del premier o del Presidente della Repubblica. Per i grillini, che si autoproclamavano «portavoce» dei cittadini, gli elettori non possono scegliere chi sarà chiamato a governare. L’ennesimo paradosso, un’altra contraddizione per il Movimento che ha già abiurato a tutti i suoi principi delle origini.
E così è accaduto che mercoledì, durante l’audizione della ministra delle Riforme istituzionali Maria Elisabetta Alberti Casellati in Commissione Affari costituzionali alla Camera, il M5s si è opposto a qualsiasi ipotesi di elezione diretta da parte dei cittadini del presidente della Repubblica o del presidente del Consiglio. «Non ho sentito, da parte dei 5 Stelle, un accenno alla volontà popolare – ha spiegato Casellati rivolgendosi ai deputati stellati – il fatto di non voler restituire il voto ai cittadini affinché possano scegliersi il presidente della Repubblica o del Consiglio, mi pare un po’ contrario a quello che avete sempre detto sulla partecipazione popolare». Anche nella scorsa legislatura gli stellati avevano votato contro la riforma presidenzialista proposta da Fdi.
Giuseppe Conte sul tema aveva bacchettato il centrodestra: «Non hanno le idee chiare».
Ma lo stesso Conte, da premier, nel 2019 sognava «una legislatura costituente» per «un cambio di sistema». Ancora, a giugno del 2021, intervistato da La7: «Proporrò agli altri leader di ragionare su una riforma costituzionale che possa rafforzare il nostro sistema. Se proporrò il presidenzialismo? Non me lo faccia anticipare». Dopo due mesi, con La Stampa, non nascondeva la sua invidia per i Paesi dove «Capi di Stato e di governo rimangono in carica per decenni».
Ora che il centrodestra ha i numeri e la possibilità per cambiare il sistema, il M5s di Conte si irrigidisce.

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Francia nel caos per la riforma pensioni: migliaia in strada e scontri

sabato, Aprile 15th, 2023

Via libera del Consiglio costituzionale francese al nodo centrale, nonché il più contestato, della riforma delle pensioni voluta dal presidente Emmanuel Macron, cioè quello dell’innalzamento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni. Dopo che da tre mesi massicce proteste infiammano la Francia, i 9 ‘saggi’ – così vengono definiti i membri della Corte costituzionale – hanno deciso di respingere 6 disposizioni presenti nel testo, ma di dare luce verde all’impalcatura essenziale della riforma. Macron potrebbe dunque ora promulgare il testo. Migliaia le persone scese subito in strada in diverse città, da Parigi a Nizza, da Lione a Caen a Rennes. Nella capitale i manifestanti si sono raccolti davanti all’Hotel de Ville e da lì è partito un corteo spontaneo.

I sindacati hanno lanciato un appello a Macron a non promulgare la riforma. Il presidente della Repubblica ha 15 giorni di tempo per farlo, ma fonti vicine a Macron hanno fatto sapere che la promulgazione potrebbe essere rapida. Entro 48 ore secondo Bfmtv. “Dal 2017 il presidente promulga sistematicamente tutte le leggi il giorno successivo o quello dopo ancora”, hanno ricordato a Franceinfo dall’entourage presidenziale. In mattinata Macron aveva invitato i sindacati a partecipare a un incontro all’Eliseo martedì 18 aprile, ma dall’intersindacale è giunto un no, tanto più che, secondo quanto filtrato, il presidente vorrebbe promulgare la legge prima di allora: a seguito della decisione della Corte i sindacati uniti contro la riforma hanno annunciato che non accetteranno alcun incontro con l’esecutivo prima del 1° maggio, data per la quale hanno indetto una nuova giornata di “mobilitazione eccezionale e popolare contro la riforma delle pensioni e per la giustizia sociale”.

“Questa sera non ci sono né vincitori né vinti”, è stata la reazione della premier francese Elisabeth Borne. “La Corte costituzionale ha stabilito che la riforma è in linea con la nostra Costituzione, sia nel merito che nella procedura. Il testo è giunto alla fine del suo processo democratico”, ha twittato, rivendicando che “richiede uno sforzo da parte dei francesi che possono permetterselo”, “ma prevede anche molti progressi”. Il governo ha sostenuto che la riforma è necessaria per mantenere a galla il sistema pensionistico a fronte dell’invecchiamento della popolazione.

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Pietro Orlandi, le dichiarazioni a Quarto Grado: “Cosa ho detto su Papa Wojtyla”

sabato, Aprile 15th, 2023

Giada Oricchio

Il caso di Emanuela Orlandi, la figlia minorenne di un messo pontificio scomparsa nel nulla il 22 giugno 1983, sta sollevando forti polemiche a seguito di alcune dichiarazioni del fratello Pietro su papa Giovanni Paolo II.

L’11 aprile scorso, Orlandi è stato ricevuto in Vaticano perché Papa Francesco ha fatto riaprire l’inchiesta e ha consegnato un file audio al Promotore di Giustizia in cui un uomo vicino alla Banda della Magliana afferma: “Wojtyla pure insieme se le portava a letto, non so dove, all’interno del Vaticano. Quando è diventata una cosa che ormai era una schifezza, il segretario di Stato ha deciso di intervenire. Ma non dicendo a Wojtyla ora le tolgo da mezzo… non hanno fatto altro che chiamare De Pedis e gli hanno detto sta succedendo questo, ci puoi dare una mano? Punto. Il resto so tutte ca**ate”. Ospite del talk “Dimartedì” su LA7, Pietro Orlandi ha aggiunto: “Mi dicono che Wojtyla ogni tanto la sera usciva con due monsignori polacchi… non andava certo a benedire le case…”.

La frase adombra un’accusa pesantissima verso il pontefice defunto. Ma ieri, venerdì 14 aprile, in collegamento con il programma di Rete4 “Quarto Grado”, l’uomo ha chiarito il senso delle sue parole: “Mi hanno strumentalizzato per fare titoli di giornale e per infangarmi. Sono arrivate palle di fango. Io non ho mai accusato direttamente Giovanni Paolo II di pedofilia, sfido chiunque a sostenerlo”. Orlandi ha proseguito: “Papa Francesco ha detto che vuole fare chiarezza, sa che c’è questo audio che accusa Wojtyla. Circola dal 9 dicembre e nessuno si è mai indignato. Io ho ritenuto opportuno portarlo senza i bip (che coprivano i nomi, nda) al Promotore di Giustizia”.

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Meloni, missione in Etiopia: “Investire qui per evitare un nuovo esodo verso l’Europa”

sabato, Aprile 15th, 2023

dal nostro inviato Ilario LOmbardo

ADDIS ABEBA. Appena quattro mesi fa, nel dicembre 2022, la relazione del Copasir aveva messo nero su bianco che «il rischio di una saldatura tra i molteplici focolai di crisi e una destabilizzazione più ampia» dell’Etiopia «potrebbe alimentare flussi irregolari verso l’Unione europea». Un violento conflitto etnico, la resiliente presenza jihadista, una siccità potenzialmente catastrofica: sulla base del lavoro dell’intelligence italiana, il comitato parlamentare per la sicurezza fotografava una realtà inquietante, un mix di fattori che rappresenta la premessa alla visita di due giorni – ieri e oggi – di Giorgia Meloni ad Addis Abeba.

All’entrata dell’hotel Sheraton la presidente del Consiglio si sofferma a inquadrare il senso della missione, dopo aver già incontrato il presidente dell’Unione Africana Moussa Faki e prima di rivedere nuovamente il primo ministro etiope Abiy Ahmed. «L’Etiopia è uno snodo cruciale», dichiara. Le materie di interesse sono tante. «Quella migratoria – continua – è una conseguenza». Il “piano Mattei”, cuore della strategia meloniana in Africa, considera l’Etiopia un punto fermo per la stabilità di tutto il Corno d’Africa.

Senza una pacificazione sul lungo periodo, e senza infrastrutture e investimenti, gli effetti – le conseguenze di cui parla Meloni – sono facilmente intuibili. Il lavoro da fare è lo stesso di quello che il governo italiano sta portando avanti nel Nord Africa: «È necessario un sostegno che passa attraverso lo sblocco dei finanziamenti, come per la Tunisia» quelli attesi dal Fondo monetario internazionale e dalla Banca Mondiale. Anche qui, come a Tunisi, gli aiuti si sono fermati davanti alle accuse e alle inchieste sulle violazioni dei diritti umani.

Dalla relazione del Copasir a oggi, comunque, la situazione è andata migliorando. La tregua con i ribelli del Tigray ha permesso di riprendere le relazioni internazionali e gli affari con le aziende europee e americane. Il blocco occidentale considera l’Etiopia cruciale non solo per scongiurare l’esodo dei profughi ma anche per frenare gli appetiti di Russia e Cina nella regione. Ma la stabilità è raggiungibile – sostiene Meloni – solo disincagliando le risorse promesse e «sostenendo ulteriori investimenti». L’Italia si è fatta trovare in prima fila, anche grazie ai rapporti coltivati negli ultimi anni e a un ruolo di mediazione durante il conflitto. Ma la corsa è partita. E la competizione è spietata. In Etiopia è già stato il segretario di Stato americano Anthony Blinken, e presto verranno il presidente francese Emmanuel Macron e il cancelliere tedesco Olaf Scholz.

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Terzo Polo, passione triste

sabato, Aprile 15th, 2023

Massimo Recalcati

La logica tristemente infausta dei due galli in un pollaio è davvero sufficiente per spiegare quello che appare come il naufragio politico del progetto del cosiddetto Terzo Polo? È un fatto di esperienza: non sempre le separazioni affettive ci obbligano a distribuire in parti eguali la responsabilità del fallimento di una unione. A volte si constata che è una delle due parti a perseguire (coscientemente o inconsciamente) l’obbiettivo della divisione, mentre l’altra prova in tutti i modi a difendere la relazione dalla sua fine. È forse questo il caso della morte prematura del progetto di unione tra Azione e Italia viva promesso agli elettori nell’ultima campagna elettorale? Vi sarebbe allora qualcuno dei due più colpevole dell’altro? Qualcuno che ha maggiori responsabilità nell’aver reso impossibile un progetto politico atteso da diversi come una speranza di questo Paese?

È quello che insistono a raccontare in queste ore, con più o meno livore, i rappresentanti dei due schieramenti in conflitto. Non intendo entrare nel ginepraio psichico che queste domande spalancano a cielo aperto. È inutile, scriveva Majakovsky prima di suicidarsi, “rinfacciarsi i torti reciproci”. Il problema mi pare assai più generale e prescinde dai caratteri dei due contendenti, come dai calcoli individuali o di schieramento. Riguarda piuttosto la politica nell’epoca della sua evaporazione ideologica. Più del teatrino dei due galli nello stesso pollaio obbligati ad affermarsi l’uno contro l’altro, utilizzerei la metafora, altrettanto nota, del dito con l’unghia sporca che indica la luna. Restare a osservare l’unghia sporca – sempre quella dell’altro ovviamente – impedisce, lo sappiamo, di contemplare la bellezza della luna. È questo un problema che la vita politica contemporanea – non solo quella del nostro Paese – patisce profondamente. È una delle ragioni che hanno sospinto recentemente Elly Schlein ad una vittoria inattesa. Ci voleva uno strappo, una discontinuità col passato, un movimento in avanti. Perché la crisi della politica implica anche la spinta a farla risorgere dalle ceneri, ovvero la necessità di rendere ancora possibile la visione della bellezza della luna. E non mi stupisce che Schlein debba gran parte della sua affermazione all’essere una leader capace di esprimere la forza e il coraggio della giovinezza. La sua vittoria scaturisce, infatti, ben al di là dei contenuti specifici del suo programma, se non, a mio avviso, addirittura in contraddizione con alcuni di essi, dall’incarnazione persuasiva di una passione che non arretra di fronte agli ostacoli e che sa coinvolgere in modo avvincente le nuove generazioni. Ma è indubbio che la politica ai tempi della sua evaporazione, comporti per lo più il fiorire di leadership sempre più narcisistiche e sempre meno al servizio della comunità. Questo restringe fatalmente l’orizzonte del pensiero politico a quello del proprio Ego e alla difesa dei suoi prestigi.

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Giletti, lo sfogo dopo lo stop: “Stavamo lavorando su Dell’Utri e ci hanno fermati, chiediamoci perché”

sabato, Aprile 15th, 2023

GIUSEPPE LEGATO, GRAZIA LONGO

In un’ultima, a tratti drammatica, riunione di redazione coi suoi 35 giornalisti e collaboratori e in colloqui privati con persone vicine a lui, si è sfogato, coraggiosamente, senza filtri: «Chiediamoci perché ci hanno chiuso. Stavamo preparando tre puntate importanti, delicatissime, deflagranti. Siamo stati fermati». E giù coi temi che in redazione conoscono tutti «la strage di via D’Amelio, Marcello dell’Utri, l’ex sottosegretario D’Alì».

E che questa sia la chiave di lettura che circola tra gli autori del programma lo conferma la giornalista (sospesa) Sandra Amurri: «Mi chiedo: c’è davvero qualcuno disposto a credere che la ragione di una tale decisione della rete possa essere dipesa dal pagamento di Baiardo per le sue partecipazioni al programma? E non sia, invece, scaturita dalle inchieste in cantiere su altre verità nascoste sui cosiddetti “intoccabili?”».

Il sipario su Non è l’Arena è calato come un fulmine da due giorni, ma tra i motivi che hanno portato alla chiusura anticipata della trasmissione di La 7 non c’è sicuramente quello relativo al pagamento di Salvatore Baiardo, il gelataio pregiudicato che coprì la latitanza dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano (ora in carcere), reato per cui scontò 4 anni di carcere negli Anni Novanta.

La procura di Firenze, che indaga sulla strage di via Georgofili pianificata dal boss Messina Denaro (la cui malattia e l’imminente arresto furono «profetizzati» da Baiardo a novembre in trasmissione) ha accertato che i gettoni di presenza furono due entrambi tracciabili perché effettuati con bonifici. Uno di 10 mila euro, per la puntata del 5 novembre 2022, e uno di 5 mila per quella del 5 febbraio. Il procuratore distrettuale antimafia di Firenze Luca Tescaroli sta indagando per capire che cosa si nasconde dietro le affermazioni di Baiardo. Ha mandato messaggi in codice ad esponenti di Cosa Nostra? Custodisce davvero segreti sul presunto incontro (mai provato) tra i fratelli Graviano, Silvio Berlusconi, Marcello Dell’Utri e il generale Delfino? Che cosa ha raccontato dietro le quinte a Massimo Giletti? Per questa ragione il noto conduttore è stato interrogato due volte, il 19 dicembre e il 23 febbraio, come persona informata sui fatti e potenziale parte offesa quindi completamente estraneo ai sospetti che gravano su Baiardo a sua volta sentito a Palermo nei giorni scorsi, ma non dai magistrati siciliani.

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Appalti impossibili, dalle carrozze per i treni alle case popolari quasi 600 gare a vuoto: persi lavori per due miliardi

sabato, Aprile 15th, 2023

PAOLO BARONI

ROMA. Il caro materie prime, ma non solo. Fatto sta che una bella fetta delle gare bandite negli ultimi otto mesi per far marciare i progetti finanziati coi fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza o attraverso il Piano nazionale complementare sono rimaste al palo. Da agosto 2022 a marzo 2023, stando alle informazioni della Banca dati nazionale dei contratti pubblici dell’Autorità nazionale anticorruzione, sono state ben 517 le gare andate deserte, a cui si aggiungono poi altre 61 procedure che si sono concluse senza esito in seguito a offerte irregolari, inammissibili, non congrue o non appropriate. Si tratta, è vero, di una frazione rispetto alle oltre 60 mila gare bandite in questo lasso di tempo, quanto basta però per impedire di mettere a terra nei tempi previsti all’incirca 1,8 miliardi di euro di investimenti.

La maggior parte delle gare andate a vuoto, ben 356, riguarda il settore dei lavori, 162 i servizi, 60 riguardano appalti per forniture. Sono soltanto 83 le gare a procedura aperta, dove tutte le imprese sono libere di partecipare e presentare offerte, andate deserte. Per il resto si tratta per lo più di procedure negoziate per affidamenti sotto soglia – ben 223 gare con questa tipologia – seguite da 199 affidamenti diretti, 52 con procedura negoziata senza previa indizione di gara e 21 procedure ristrette che prevedono una selezione qualitativa preliminare degli operatori ammessi all’appalto.

Tra le tante voci spicca una gara di Trenitalia a procedura negoziata, importo base 1.176.550.000 euro relativa alla fornitura di carrozze «Notte» per il servizio Intercity. Sempre nel Gruppo Fs quattro le gare con procedura ristretta indette da Rete ferroviaria italiana (Rfi) andate deserte: la più consistente riguarda i lavori di potenziamento sulla linea Bari-Foggia (69,85 milioni), seguita dall’appalto per la progettazione e i lavori di realizzazione del nuovo apparato centrale computerizzato Milano Certosa (31,75 milioni) e da quello dello scalo di Torino Orbassano (due gare da 39,2 milioni totali). Deserta anche la gara dell’Anas da 29 milioni di euro per realizzare il monitoraggio strutturale di ponti, viadotti e gallerie in Piemonte, Valle d’Aosta, Lombardia, Veneto, Friuli-Venezia Giulia ed Emilia Romagna.

Nulla da fare a Genova per la gara europea per completare la stazione di piazza Corvetto (38,38 milioni di euro) e a Catania per i lavori per l’implementazione dei sistemi di controllo e gestione della tratta della Circumetnea tra Catania Borgo e Riposto (38,51 milioni). Lo stesso vale per l’acquisto di nuovi mezzi. L’Azienda Regionale Sarda Trasporti, ad esempio, non è riuscita ad ottenere i 46 autobus elettrici ed i 3 mezzi a idrogeno che aveva in programma posto che sono andate deserte le gare per 4 lotti (importo gara a procedura aperta 64,5 milioni). Al Comune di Napoli, invece, non è andata in porto la gara per acquistare 10 tram bidirezionali (26 milioni di euro), idem a Firenze (51 veicoli elettrici, 1,2 milioni di euro).

Pesante la situazione nel campo dell’edilizia. Tra le tante gare non hanno ricevuto offerte 3 dei 7 lotti in cui Invitalia ha suddiviso la procedura (30 milioni di euro totali) per i lavori di riqualificazione degli immobili dell’Aler Bergamo-Lecco-Sondrio. Lo stesso vale per le due gare, 32,6 milioni in tutto, bandite in Liguria dall’azienda regionale Arte per ristrutturare 2 immobili a Ventimiglia. Stessa sorte è toccata a Latina all’Azienda territoriale (gara da 14,68 milioni) e a Firenze al Comune (15,8 milioni per riqualificare un intero comprensorio urbano).

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L’orologio che ha rovinato Macron

sabato, Aprile 15th, 2023

di Aldo Cazzullo

Il presidente è fondamentalmente l’argine contro il populismo, di destra e di sinistra, ma non è riuscito a risolvere le questioni da cui il populismo trae vita e forza

S e è vero che ognuno di noi verrà ricordato per due o tre cose, allora Emmanuel Macron resterà nella memoria collettiva come il presidente con l’orologio; proprio come il suo lontano predecessore e dichiarato modello Valéry Giscard d’Estaing è ricordato come il presidente dei diamanti. Ma se quello fu uno scandalo mai chiarito che coinvolgeva un odioso dittatore, Bokassa, stavolta il presidente non ha fatto nulla di male. Si è soltanto tolto un orologio di lusso durante un’intervista televisiva in cui spiegava i motivi della propria riforma delle pensioni, contro le mobilitazioni di piazza. Nella foga dell’argomentazione ha sbattuto l’orologio; così se l’è slacciato di nascosto, tenendo per un breve e fatale attimo le mani sotto il tavolo. Ma per i suoi nemici l’ha fatto per vergogna, per occultare un simbolo di ricchezza e di privilegio proprio mentre sosteneva le ragioni per cui bisogna chiedere un sacrificio a lavoratori anziani e mal pagati.

Molto probabilmente ha ragione Macron. L’orologio non vale 80 mila euro, come hanno scritto i suoi odiatori, ma duemila: che non sono pochi, ma restano nella sfera dei fatti propri, non in quella delle brioches di Maria Antonietta, dell’ostentazione aristocratica e dello sfregio al popolo. E ovviamente ha ragione Macron pure quando ricorda che la vita si allunga e lavorare sino a 64 anni, con l’eccezione dei lavori usuranti, è necessario.

Eppure la popolarità del presidente è crollata, e secondo un sondaggio abbastanza terrificante se si votasse oggi Marine Le Pen entrerebbe trionfalmente all’Eliseo, battendo in un ballottaggio altrettanto terrificante il campione della sinistra radicale Jean-Luc Mélenchon. Ma allora, se l’orologio non era poi così costoso e la riforma prevede due soli anni di lavoro in più, perché la Francia ha reagito con tanta indignazione e tanta violenza?

Ieri sera sulla legge che Macron ha imposto in Parlamento senza avere la maggioranza dei voti si è espresso il Consiglio costituzionale: «i nove Saggi», come li ha definiti un’analisi del Figaro firmata dal soave nome di Célestine Gentilhomme, ma corredata di foto di celerini armati e scontri di inaudita durezza. Com’era prevedibile i saggi, presieduti da un vecchio e accorto arnese come Laurent Fabius che era primo ministro di Mitterrand a 37 anni e ora ne ha 76, hanno individuato una soluzione di mezzo, cassando parti secondarie della riforma ma salvandola nella sostanza. Come a dire: abbiamo ascoltato il popolo, senza boicottare il sovrano. Ora ci saranno altre fiammate, ma forse la questione si assopirà; in attesa della prossima rivolta.

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Stop alla protezione speciale, la linea dura sugli sbarchi

sabato, Aprile 15th, 2023

di Lorenzo Salvia

Il pressing leghista, poi l’intesa in maggioranza. E c’è la stretta sui permessi per cure mediche

Stop alla protezione speciale, la linea dura sugli sbarchi

Il segnale l’aveva dato in mattinata il sottosegretario all’Interno Nicola Molteni, della Lega: «Azzereremo la protezione speciale. È un unicum italiano ed è diventata nel corso degli anni una sanatoria, un fattore di attrazione di immigrazione». Una dichiarazione, quella del sottosegretario, che sosteneva il più importante dei 21 emendamenti presentati dalla Lega al decreto approvato nel Consiglio dei ministri di Cutro, dopo il naufragio che ha portato alla morte di 93 migranti.

L’accordo

Nelle stesse ore i partiti di governo si stavano confrontando proprio sugli emendamenti al decreto. E dopo Molteni è intervenuto Nicola Procaccini, eurodeputato di FdI e già portavoce di Giorgia Meloni al ministero per la Gioventù: «La protezione speciale consente di fare questo sbando che purtroppo c’è stato». Due indizi fanno quasi una prova, e infatti poco dopo arriva l’annuncio. La maggioranza ha presentato un subemendamento che cancella la protezione speciale. Il testo è stato firmato dai capigruppo in commissione Affari costituzionali Daisy Pirovano (Lega) e Marco Lisei (FdI) , primo firmatario Maurizio Gasparri per Forza Italia. I tre senatori dicono «basta alle sanatorie per tutti i clandestini».

Esulta la Lega

Ma è soprattutto la Lega a cantare vittoria, dicendo che così «si ritorna ai decreti Salvini». Mentre da FdI parlano di «maggioranza coesa nel raggiungere l’obiettivo di cancellare la cosiddetta protezione speciale». Tradotto: non si torna ai decreti sicurezza, si elimina solo una procedura specifica. Il tutto nel giorno in cui l’Onu lancia un appello proprio al nostro Paese: «Qualsiasi nuova politica nell’ambito dello stato di emergenza — dice l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i Diritti umani, Volker Türk — deve essere conforme agli obblighi dell’Italia in materia di diritti umani». Immediata la replica del capogruppo di FdI alla Camera, Tommaso Foti: «L’Alto commissario si può occupare di altre e più significative cose, anziché intromettersi nella legislazione (…) che il Parlamento approva». Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, invece, dice di «condividere quello che dice la Cei». E cioè che «non esiste un allarme, ma esiste uno stato di emergenza tecnicamente inteso che ha suggerito al governo di dotarsi di procedure semplificate per poter essere all’altezza della sfida».

Il subemendamento

Il subemendamento elimina la conversione della protezione speciale in permesso di soggiorno per lavoro. E dà una stretta ai permessi per calamità naturali e per cure mediche, quest’ultimo ammesso solo per patologie non curabili nel Paese d’origine. Visto che in commissione il dibattito va a rilento, il testo dovrebbe essere votato direttamente in Aula. Va detto che il decreto era stato oggetto di interlocuzione anche con il Quirinale, come avviene sempre in questi casi. Ma nella maggioranza si dicono tranquilli su queste nuove modifiche: «Non sono a conoscenza di interlocuzioni specifiche né di allora né di adesso — dice il capogruppo di FdI al Senato Lucio Malan — ma di sicuro si fa in modo che tutto quello che viene scritto dalla maggioranza resti nell’alveo della Costituzione».

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Il sondaggio sul Pnrr: per il 49% non rilancerà il Paese. Italiani scettici

sabato, Aprile 15th, 2023

di Nando Pagnoncelli

Solo il 3% ritiene che sarà realizzato almeno il 90% dei progetti. Prioritaria la sanità. Il 44% conosce il piano solo in parte, mentre il 28% ne ha solo sentito parlare e il 16% lo ignora del tutto

Il sondaggio sul Pnrr: per il 49% non rilancerà il Paese. Italiani scettici

Il Pnrr rappresenta una straordinaria opportunità per l’Italia di affrontare i problemi strutturali del Paese, avviare profonde riforme e favorire un processo di crescita. Si tratta di un piano che guarda al futuro, alla costruzione dell’Italia dei prossimi 10-15 anni, facendola uscire da quella sorta di «presentismo permanente» che ha caratterizzato gli ultimi due decenni, nei quali le principali scelte politiche sono state improntate al «qui e ora», spesso alla ricerca del consenso immediato, confermando il famoso aforisma secondo cui «un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista alla prossima generazione». Nonostante la grande importanza che riveste, ad oggi il Pnrr è assai poco conosciuto, basti pensare che solamente il 12% dichiara di conoscerlo in modo approfondito e il 44% lo conosce solo in parte, mentre il 28% ne ha solo sentito parlare e il 16% ignora del tutto di cosa di tratti.

Dopo aver descritto dettagliatamente le sei «missioni» in cui si articola il piano, nel sondaggio odierno è stato chiesto alle persone intervistate di indicare le due missioni giudicate più importanti: prevale nettamente il tema della salute (citato dal 50%) sostenuto dall’aspettativa di un rafforzamento della rete territoriale di medicina e dell’ammodernamento delle dotazioni tecnologiche del Servizio sanitario nazionale; si tratta di un risultato prevedibile, dopo il trauma collettivo della pandemia che ha messo a dura prova il nostro sistema sanitario. Non a caso, sia pure con accentuazioni diverse, questa missione rappresenta la priorità per tutti, indipendentemente dalle caratteristiche socio-demografiche, dall’orientamento di voto e dal livello di conoscenza del Pnrr. A seguire troviamo la rivoluzione verde e la transizione ecologica (27%) e, a poca distanza, l’istruzione e la ricerca scientifica (24%), quindi l’inclusione e la coesione sociale e territoriale (20%), le infrastrutture per una mobilità sostenibile (19%) e, da ultimo, il capitolo, assai composito, riguardante la digitalizzazione, l’innovazione, la competitività e la cultura (14%).

Nel complesso, tuttavia, emerge un discreto scetticismo sulla possibilità che il Pnrr possa risolvere i problemi strutturali e favorire il rilancio economico del Paese: un italiano su due esprime poca (36%) o nessuna (13%) fiducia in proposito, contro solamente uno su tre che ne ha molta (4%) o abbastanza (31%). E una quota esigua (3%) prevede che verrà realizzato oltre il 90% dei progetti contenuti nel piano, mentre la maggioranza relativa (36%) è convinta che non arriveremo al 60%. I motivi dello scetticismo sono piuttosto articolati: uno su quattro (27%) ritiene che in Italia non siamo capaci di fare progetti che siano effettivamente realizzabili, uno su cinque (21%) mette in discussione le capacità del governo (la percentuale sale al 43% tra gli elettori del Pd e del M5s), mentre il 13% dubita delle capacità dei comuni e dei sindaci di «mettere a terra» i progetti e il 12% imputa il possibile flop alla mancanza di coraggio della politica preoccupata di perdere consenso per l’impopolarità di alcune riforme. Non sorprende, quindi, che la maggioranza preveda che verranno effettuati cambiamenti rispetto al piano originario presentato dal governo Draghi e approvato dell’Ue. Di questo parere sono soprattutto gli elettori del centrodestra.

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