Archive for Maggio, 2023

La stretta su Airbnb: minimo due notti per i soggiorni in città. Ecco come cambieranno gli affitti brevi

mercoledì, Maggio 31st, 2023

Giuliano Balestreri

Stop agli affitti brevi per meno di due notti. La stretta su Airbnb invocata da Federalberghi – che chiedeva proprio una limitazione per i soggiorni inferiori ai tre giorni consecutivi – è pronta sul tavolo della ministra del Turismo, Daniela Santanchè. E il 29 maggio, dal suo ufficio legislativo è stata inviata l’ultima bozza del disegno di legge a tutti gli operatori del settore. D’altra parte, all’assemblea di Federalberghi di metà maggio, la ministra aveva annunciato un intervento per l’inizio di giugno.

L’obiettivo dichiarato è quello di «fronteggiare il rischio di un turismo sovradimensionato rispetto alle potenzialità ricettive locali», ma anche salvaguardare «la residenzialità dei centri storici ed impedirne lo spopolamento». Per prima cosa, il ministero del Turismo assegnerà dietro richiesta un codice identificativo nazionale (Cin) «ad ogni immobile ad uso abitativo oggetto di locazione per finalità turistiche». Ma la stretta vera prevede che «a pena di nullità la durata minima del contratto di locazione per finalità turistiche non può essere inferiore a due notti» a meno che gli affittuari non siano un «nucleo familiare numeroso composto da almeno un genitore e tre figli». Tutti gli altri dovranno andare in albergo.

Un assist vero e proprio a Federalberghi con sanzioni fino a 5 mila euro per chi non possiede il codice identificativo nazionale per ogni appartamento – un codice da esporre sui portali e all’ingresso della casa. Inoltre, arriva l’obbligo per chi affitta più di quattro appartamenti – quindi in forma imprenditoriale – di presentare una comunicazione di inizio attività, con una nuova categoria economica assegnata specificamente alle locazioni turistiche.

Si tratta di un provvedimento che ignora completamente le richieste dei sindaci, capeggiati dal primo cittadino di Firenze, Dario Nardella, di mettere un tetto agli affitti brevi a 120 giorni l’anno per porre un rimedio anche all’emergenza abitativa. Un norma in questo senso – o che riducesse i vantaggi fiscali per gli affitti più lunghi – era auspicata per calmierare il prezzo degli affitti.

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Il collasso educativo di scuola e famiglia

mercoledì, Maggio 31st, 2023

Umberto Galimberti

I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda del sedicenne di Abbiategrasso. Ma non cerchiamo facili spiegazioni imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto dalla pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a cui viene affidata la propria identità, spesso accompagnata da un senso di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e non si riesce ad essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il valore di se stesso. L’identità, infatti, non la possediamo per il fatto che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato del riconoscimento o del misconoscimento che riceviamo dagli altri.

La famiglia oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i figli, soprattutto in tenera età, e in compenso li riempiono di regali che stanno al posto di tutte le parole mancate. Doni a Natale, ai compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro richieste che hanno come effetto l’estinzione del desiderio. Perché il desiderio è mancanza. Non si desidera quello che si ha, ma quello che non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi non desiderano più niente e sono indifferenti a tutto. Oggi poi i genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e dei divorzi, necessari quando il clima in famiglia è connotato dall’indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma non si creda che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli. Non sono rari i casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti o i lavori. È infatti diffusa una concezione della libertà intesa solo come revocabilità di tutte le scelte.

Ma veniamo alla scuola che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me lo si lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non educa. L’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede (gli studenti). L’educazione consiste nel prenderei cura della condizione emotiva degli studenti, perché come dice Platone: “La mente non si apre se prima non si è aperto il cuore”. E quando dico “cuore” penso a quel passaggio all’emozione a partire dalle pulsioni a cui si arrestano i bulli che, incapaci di esprimersi con le parole, sanno muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che «il bene e il male potremmo anche non definirli perché ciascuno li sente naturalmente da sé». Oggi non è più vero che tutti i ragazzi avvertono la differenza tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o aggredirlo fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto esagerando a giudicare dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai magistrati che li interrogano. Sono risposte disarmanti: «Ma cosa abbiamo fatto di strano?», «Volevamo solo divertirci». Quindi non sanno distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a scuola il doppio del tempo e aiutarli a guadagnare quella risonanza emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi diventeranno soggetti pericolosi.

Ma per accorgersi dei percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi frontali che presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai vent’anni, occorre che gli insegnanti dispongano di empatia, che è la capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni che ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso che misura la preparazione culturale dei candidati. A questa prova dovrebbe aggiungersi un test di personalità che misura il grado di empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non ha empatia non può fare l’insegnante, come chi è alto un metro e cinquanta non può fare il corazziere. Tutti noi abbiamo studiato con piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove professori che compongono una classe, sono fortunati quegli studenti che hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e riferimento per la loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia previsto nel loro curriculum di studi un solo libro di psicologia dell’età evolutiva?

Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante, nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola d teatro, invece di insistere nelle sue interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50.

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Torino capitale dell’economia: domani si apre la seconda edizione del Festival internazionale, con 4 Nobel

mercoledì, Maggio 31st, 2023

Fabrizio Goria

TORINO. Globalizzazione, sfide del futuro, sviluppo sostenibile. Il Festival internazionale dell’Economia di Torino, dal 1° al 4 giugno, ha un obiettivo importante: essere il baricentro per un pianeta che sta perdendo il suo asse. Troppa l’incertezza, in aumento le tensioni. Ed è proprio per questo che, come ha detto il coordinatore scientifico della kermesse, Tito Boeri, «Torino sarà il centro del dibattito economico mondiale» per quattro giorni. Quattro anche i premi Nobel – Michael Spence, Paul Krugman, Josh Angrist, David Card – che a Torino porteranno le proprie idee. Ma anche il governatore della Banca d’Italia Ignazio Visco e i commissari europei Paolo Gentiloni e Nicolas Schmit. Lo scopo è quello di fornire risposte alle tante, troppe, domande che incidono sull’economia globale.

Dopo una vincente prima edizione, il Festival dell’Economia di Torino è pronto a partire. Fiducioso sulla buona riuscita dell’evento è il comitato organizzatore, capitanato da Laterza e dal Real Collegio Carlo Alberto. “Ripensare la globalizzazione” è il tema principale, ma non l’unico. La sostenibilità – sociale, economica, ambientale – sarà discussa almeno tanto quanto il futuro dello sviluppo economico. Al Festival si parlerà «degli errori fatti sin qui e di come correggerli» con Dani Rodrik, economista di Harvard tra i primi teorici di una globalizzazione più “sana”. E si discuterà anche di innovazione con John Elkann, presidente di Stellantis, che alle 14 di domani al Museo del Risorgimento darà la sua visione di come è possibile crescere in modo sostenibile in un mondo globalizzato. Tema, quest’ultimo, che ricorrerà spesso nella kermesse. Per esempio, ne parlerà anche David Autor del Massachusetts institute of technology, che farà il punto sull’espansione della Cina e le possibili conseguenze della riapertura del Dragone nella fase post-Covid. Si discuterà invece di dinamiche dei prezzi, proprio in una fase in cui l’inflazione sui servizi risulta essere più persistente del previsto, con Lucrezia Reichlin della London Business School. Non mancheranno gli intellettuali più giovani, ma già affermati, che potranno fornire freschezza alle discussioni nel centro di Torino.

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Patrioti d’Europa: la premier usa termini come Nazione e cita Renan, teorico della razza ariana

mercoledì, Maggio 31st, 2023

ILARIO LOMBARDO

Lo scorso dicembre, su questo giornale, il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki promise che assieme a Giorgia Meloni i conservatori europei avrebbero costruito un’«Europa delle patrie». Il progetto resta quello, mentre attorno si affollano sostenitori e i partiti affiliati crescono nei consensi. La contemporaneità del successo della destra in Italia e in Spagna in una competizione locale – che a Madrid ha però assunto un rilievo nazionale al punto da convincere il primo ministro Pedro Sanchez a dimettersi e ad anticipare le elezioni – pongono alla premier una riflessione da fare in vista della sfida del 2024, quando il paradigma europeo potrebbe cambiare per sempre.

Il piano è compattare i conservatori e convincere i partiti popolari a staccarsi dai socialisti con cui da anni governano a Bruxelles. Riproporre il modello italiano, insomma, il centro-destra al potere, proiettandolo in Europa. Quello che non riuscì a Silvio Berlusconi, e che Meloni invece sogna di realizzare con la sponda della fazione di destra del Ppe, e cioè con Antonio Tajani, il tedesco Manfred Weber e quelle parte dei popolari spagnoli che stanno lavorando a saldare l’alleanza con la destra post-franchista di Vox. Santiago Abascal e Meloni si sono fatti i complimenti a vicenda via social per i risultati elettorali. Congratulazioni che la leader italiana ha inviato non a caso attraverso il profilo di Ecr, la sigla dei conservatori europei di cui, seguendo le coordinate di Dio, patria e famiglia, fanno parte FdI e Vox. La mossa di Sanchez di anticipare il voto a luglio, spiega Carlo Fidanza, capodelegazione di FdI all’Europarlamento «serve a spaventare l’elettorato moderato dei popolari e a non permettere di far consolidare l’alleanza con Vox, alleanza che dimostrerebbe come la narrazione dei socialisti sulla destra è inutilmente allarmista». Il punto di arrivo è l’Italia di Meloni. Gli eredi della fiamma che si sono accomodati ai tavoli europei senza nessuno stravolgimento. La strada per convincere tutte le anime dei popolari a mollare i socialisti è lunga e piena di insidie. Vox dovrà smussare alcune tesi radicali, un po’ come ha fatto Meloni entrando a Palazzo Chigi. «Ma sarà un percorso naturale» scommette Fidanza. Più della Spagna a preoccupare i meloniani è la Polonia, dove a settembre sarà sfida feroce tra il conservatore Morawiecki e il popolare Donald Tusk. I contraccolpi potrebbero essere fatali per l’eventuale patto a Bruxelles.

La strategia di FdI è appena abbozzata. Ma ci sono alcuni punti fermi, battaglie identitarie, che ritroveranno il vigore di un tempo. A partire dall’immigrazione. E serviranno anche a nascondere i non pochi cedimenti all’Europa che nel passaggio dall’opposizione al governo Meloni ha dovuto digerire, in nome di una prima legittimazione internazionale e del buon esito delle trattative sul Pnrr. Il blocco navale dei migranti, la difesa assoluta delle ragioni dei balneari, e il no senza sfumature al Mes, sono ricordi lontani. La presidente del Consiglio deve riscrivere un’agenda, per le Europee. E lo farà cercando un equilibrio non semplice tra la postura di un capo di governo che non può più fare a botte con Bruxelles e il leader di un partito e di una coalizione che ha le sue parole d’ordine.

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Romano Prodi: “Il governo ora punta a prendersi tutto, questo è autoritarismo”

mercoledì, Maggio 31st, 2023

Fabio Martini

Romano Prodi è meno levigato del solito, sceglie parole severe, forse mai così secche negli ultimi 10 anni: «In questi giorni sono emersi due segnali nuovi che non si debbono sottovalutare. Nessuno ha ragionato su un sistema informativo che dopo decenni di duopolio si sta trasformando in un monopolio della destra. E al tempo stesso sta emergendo la tentazione di escludere il presidente Stefano Bonaccini dalla ricostruzione in Emilia-Romagna. Ma così siamo davanti ad un governo che punta a prendersi tutto. C’è una parola semplice che riassume tutto questo: autoritarismo. Così si sta cambiando la natura del Paese».

Con i suoi standard di crescita l’Italia se la cava meglio degli altri grandi Paesi europei, ma istituzioni tra loro diverse (Commissione europea, Fondo monetario, Banca d’Italia) tengono alta la vigilanza. Siamo dentro una bolla? O sarebbe il momento giusto per mettere a reddito i discreti segnali con una politica economica degna di questo nome?
«Certo che se la cava, ma stiamo attenti a non esagerare. Abbiamo un rimbalzo un po’ più forte da una caduta molto più violenta e la palla è rimbalzata un po’ più in alto. Tuttavia gli ultimissimi dati, riferiti all’export, non sono consolanti. Nei riguardi dell’analisi della nostra economia c’è infatti una certa fragilità da parte dei commentatori italiani, professori e politici compresi, che esaltano sempre il presente senza guardare al lungo periodo».

Sui dossier fondamentali – nuovo patto di Stabilità, difesa dell’Ucraina – il governo si attiene alla “dottrina” precedente. Sul Pnrr vacilla, sul Mes tiene a bordo tavolo la ratifica: un’arma utile, o può esplodere in mano?
«Il governo ha impostato le cose in modo da minimizzare il rischio, affidando gli Esteri al più americano della coalizione e l’Economia al più bruxellese. Su questo non aveva alternative. Su tutto il resto i partiti della coalizione si stanno dividendo il bottino, litigando tra loro. Questo contrasto emerge anche riguardo al Mes. D’altra parte quando non si vuole un provvedimento, che nel peggiore dei casi è a danno zero, significa che lo si vuol tenere come un’arma contrattuale. In questo caso non mi sembra un’arma efficace, ma un corpo urticante, capace solo di irritare. Quanto al Pnrr era nato per aumentare la pigra produttività del Paese, grazie a un mix di grandi riforme e grandi investimenti. Le riforme non ci sono e gli investimenti, bene che vada, si stanno spargendo in rivoli inadatti ad aumentare la produttività».

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Meloni e la sfida europea per la stanza dei bottoni. L’avviso ai suoi: non offriamo pretesti

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Francesco Verderami

Il piano con i conservatori e il rapporto solido con von der Leyen. Intanto, per le scelte sulla Rai e le tensioni con la Corte dei conti sul Pnrr, le opposizioni e i loro alleati a Strasburgo potrebbero accusare l’esecutivo di «deriva orbaniana»

Meloni e la sfida europea per la stanza dei bottoni. L’avviso ai suoi: non offriamo pretesti

Anche le vittorie sono medaglie a due facce. E i risultati elettorali, in Italia come in Spagna, contengono delle insidie che Giorgia Meloni intravede sulla strada che porta alle Europee. L’appuntamento potrebbe cambiare la geografica politica del Vecchio Continente. E se è vero che Popolari e Conservatori partono con i favori del pronostico, è altrettanto vero che fino al voto del 2024 le forze rivali faranno il possibile per contrastare questo disegno. Lo si scorge a Bruxelles, dove — racconta un ministro — «la tecnostruttura si aggrappa a cavilli senza fondamento per metterci il bastone fra le ruote sul Pnrr». E lo si nota dalla postura di certe cancellerie, a Parigi come a Madrid, dedite da tempo ad attaccare la premier italiana.

Perciò «poniamo sempre attenzione», ripete Meloni su ogni iniziativa di governo: «Non dobbiamo offrire pretesti». Al punto che il ruolo da frenatore assunto dal sottosegretario alla Presidenza Alfredo Mantovano sta creando tensioni anche in FdI. Ma la sfida europea sarà un passaggio strategico per la premier. E il fatto che finora non abbia commesso falli di reazione «è una cattiva notizia per i suoi avversari a Bruxelles», spiegano fonti diplomatiche. Anche se c’è chi scorge un possibile nuovo fronte polemico: tenendo insieme le scelte sulla Rai e le tensioni con la Corte dei conti sul Pnrr, le opposizioni e i loro alleati a Strasburgo potrebbero accusare l’esecutivo di «deriva orbaniana».

Si vedrà. Di certo c’è che Meloni vanta oggi una posizione dominante in Italia anche sugli alleati. Su Matteo Salvini, per esempio, che dovrà fare una «scelta di campo» in vista delle Europee. La premier è pronta ad accoglierlo nell’Ecr, se solo lo chiedesse: ma visti gli attuali rapporti di forza con FdI, il capo del Carroccio ufficializzerebbe il ruolo di junior partner di Meloni. L’altra opzione è aprirsi un (difficile) passaggio verso il Ppe, soluzione caldeggiata dai governatori regionali e da Giancarlo Giorgetti. È in questa chiave che il segretario della Lega ha discusso l’altra sera con Silvio Berlusconi di una lista comune alle Europee, che gli offrirebbe una scorciatoia e al contempo equilibrerebbe un po’ i valori con Meloni: ma nei due partiti cova un’ostilità al disegno che rende impraticabile il piano.

C’è poi il problema del centro. Che è un problema italiano ma anche, anzi soprattutto, del Ppe. I popolari europei si trovano di fatto nelle stesse condizioni del 1994, quando la fine del Ppi indusse Helmut Kohl ad accettare l’ingresso di Forza Italia nel «salotto buono» di Strasburgo. Il punto è che oggi non c’è un altro Berlusconi. Non fosse altro perché Meloni non intende cedere al corteggiamento discreto del capo dei popolari Manfred Weber. Semmai se ne riparlerà dopo le Europee. Così al momento sul centro insistono due progetti. Uno è legato a Letizia Moratti, l’altro a Maurizio Lupi. La prima vanta il sostegno dietro le quinte di Matteo Renzi. Il secondo chiede al Cavaliere di costruire insieme ad altre liste una «sezione italiana del Ppe» per andare al voto con un nuovo simbolo. Entrambi — consapevoli che alle elezioni bisognerà superare la tagliola del 4% per entrare nell’Europarlamento — attendono di capire le intenzioni di Berlusconi, che non sembra però voler aprire quanto resta della sua cassaforte elettorale. Infatti risponde a tutti: «Venite con me». E c’è chi mette persino nel conto che l’ex premier possa candidarsi per trainare con i suoi consensi la lista di Forza Italia.

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Governo: identità e riforme da fare

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Angelo Panebianco

Un vero bilancio sarà possibile sono quando si sarà conclusa la sua parabola. Ma forse l’esperienza del governo Meloni ci consentirà già prima di allora di comprendere quali siano i vincoli, i limiti e le possibilità di azione di un governo dell’Italia democratica nelle condizioni di oggi. Sulla carta, questo esecutivo gode di vantaggi superiori a quelli di molti che lo hanno preceduto: una forte maggioranza parlamentare, una opposizione debole, radicalizzata e divisa, l’aspettativa di una lunga durata.

È un insieme di condizioni che rende possibile tentare di rispondere a una domanda: ha ragione o torto chi pensa che i partiti (non importa il colore politico) se vincono le elezioni, siano sempre dotati di una personalità scissa? È vero o no che tali partiti siano, da un lato, spesso, ottime macchine elettorali, efficienti strumenti per la raccolta del consenso e, dall’altro, se si guarda alle loro performance come forze di governo, semplici gestori dello status quo (salvo qualche correzione al margine)? Intendiamoci su ciò che significa in questo caso status quo: significa che chi va al governo ne fa una occasione per sostituire personale nei posti-chiave di nomina governativa e che, per il resto identifica il «governare» nel modo in cui lo si è sempre inteso in Italia: spendere risorse per acquisire consenso. Gli interventi a margine sono quelli ad alto contenuto simbolico (es. abolizione del reddito di cittadinanza, o interventi normativi in tema di immigrazione). Gestione dello status quo significa che le strozzature, gli ostacoli, le disfunzioni, i lacci che da sempre opprimono il Paese non vengono presi di petto: una cosa che si potrebbe fare solo con un vasto piano di riforme le quali, identificate con la massima precisione possibile le cause delle strozzature, siano finalizzate a rimuoverle. Con effetti positivi che, inevitabilmente, si manifesterebbero non nel breve ma nel medio-lungo termine. L’assenza di quelle riforme è nascosta da un diluvio di annunci di provvedimenti che i ministri fanno e che, anche quando vengono attuati (la maggior parte degli annunci però si perde normalmente per strada) non intaccano, o intaccano solo in minima parte, le suddette strozzature e disfunzioni.

Traggo due esempi da altrettanti editoriali apparsi sul Corriere nell’ultima settimana.

Sabino Cassese (Corriere del 27 maggio) ha documentato come il recente decreto ufficialmente volto a rafforzare la capacità amministrativa dello Stato abbia la sola funzione di assumere nuovi dipendenti e di stabilizzare quelli assunti a tempo indeterminato. Osserva che il decreto non affronta alcuno dei problemi che determinano l’inefficienza dell’amministrazione. «Non è un aumento del numero di dipendenti pubblici — conclude Cassese — l’obiettivo a cui puntare ma piuttosto il miglioramento del servizio alla collettività e un miglior trattamento stipendiale per quelle categorie pubbliche che non hanno prospettive di carriera o per quelle qualifiche che trovano sul mercato condizioni migliori…». In sintesi: assunzioni al posto di interventi sulle disfunzioni dell’amministrazione. Come si è sempre fatto.

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Pd, la partita dura di Elly Schlein: alibi in stile Belushi per spiegare lo stop

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Roberto Gressi

Il partito «cannibale». E ora anche il Molise diventerà un test

Pd, la partita  dura di Elly Schlein. Alibi in stile Belushi per spiegare lo stop

«Non è stata colpa mia! Ero rimasto senza benzina. Avevo una gomma a terra. Non avevo i soldi per un taxi. La tintoria non mi aveva portato il tight. C’era il funerale di mia madre! Era crollata la casa! C’è stato un terremoto! Una tremenda inondazione! Le cavallette! Non è stata colpa mia!». 

Dai, che ve lo ricordate John Belushi nei Blues Brothers. Dopo il tritacarne delle elezioni amministrative Elly Schlein, come si dice nel linguaggio della politica, ha tenuto a precisare che certo non basta essere stato il primo partito, che l’alternativa non si costruisce sulle spalle del solo Pd, che candidati e alleanze erano già stati scelti, ben prima che lei arrivasse, e che, insomma, non può riparare in un amen a tutti i disastri combinati prima che lei prendesse in mano la baracca. 

In breve sintesi è questo il pensiero emerso dalla segreteria fiume convocata dopo il diluvio, quella ormai soprannominata il «tortellino magico» in virtù della vicinanza politica e geografica alla segretaria. Si è trattato ben più di una chiamata di correo, che ha spinto anche una persona mite come Monica Nardi, portavoce di Enrico Letta nel tempo in cui è stato segretario del Pd, ad affidare a Twitter un esasperato colpo di staffile: «Lo scaricabarile, vi prego, no. Enrico le Amministrative le ha stravinte per due anni di seguito. Poco dopo ha perso (male) le Politiche, ma non ha cercato alibi e non ha mai sparato contro nessuno del Pd».

 Tra i dem, insomma, prevale al momento, a fronte delle giustificazioni, la tendenza Estiqaatsi, l’opinionista grande capo di una tribù di nativi americani, parto della fantasia di Lillo e Greg. E le rinfacciano Marco Furfaro, per la rimonta fallita in Toscana. Marta Bonafoni, per il Pd disperso nel Lazio. Giuseppe Provenzano, che in Sicilia ha fatto il minimo sindacale tenendo Trapani. Fino a imputarle perfino i successi campani, frutto di quel Vincenzo De Luca che lei, buon ultima, vorrebbe azzoppare. 

Ora, dopo appena tre mesi dalle primarie, è già il momento di calcolare la parabola, per capire se la velocità di fuga, quella che consente di battere la forza di gravità e di volare alto, è sufficientemente alimentata. O se invece il peso del passato, dove forse non tutto era da buttare, avrà il sopravvento sulla novità, che magari non ha abbastanza idee ed energia, e la riporterà sulla terra.

 La frase chiave di Elly Schlein, quando a sorpresa ha confinato Stefano Bonaccini nella ridotta dell’Emilia-Romagna, è stata una citazione della femminista Lisa Levenstein: «Anche questa volta non ci hanno visti arrivare». Enunciato strepitoso, tanto da essere copiato, o per lo meno mutuato, anche da Giorgia Meloni, che si è guardata bene dal sottovalutare l’arrivo della rivale in politica e che ora, certamente, continua a stare sul chi vive e non dà per già liquidata la partita. 

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Ferragni e la bambina

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Massimo Gramellini

Sto diventando pazzo, o forse soltanto vecchio, anche se una cosa ovviamente non esclude l’altra. Riassunto: sul suo profilo Instagram una ragazzina di undici anni, Giulia D., critica il suo idolo Chiara Ferragni per essersi fotografata in déshabillé davanti allo specchio. E il vecchio sobbalza perché, più delle forme della Ferragni, lo sconvolge che a undici anni una ragazzina abbia già un profilo Instagram. Il messaggio rivela una scrittura adulta e l’eccesso di riferimenti complimentosi alla madre lascia supporre che ne sia lei l’autrice. Però il profilo è formalmente intestato a Giulia D. ed è quindi a lei che Chiara Ferragni risponde stizzita. Sì, avete capito bene, una imprenditrice di trentasei anni polemizza in pubblico con una ragazzina di undici, chiamando in causa la libertà di espressione, che è l’alibi con cui i capitalisti dei social giustificano qualsiasi contenuto pruriginoso consenta loro di fare più soldi. A questo punto interviene Instagram, il padrone del giocattolo, che chiude d’imperio il profilo. Della Ferragni? Figuriamoci. Chiude quello della ragazzina, accorgendosi all’improvviso che ha solo undici anni, mentre per aprirne uno bisognerebbe averne almeno tredici.

Conclusione: Giulia D. e sua madre strillano in difesa della libertà, la Ferragni strilla in difesa della libertà, e il vecchio pazzo resta afono, con la sensazione che tutte e tre abbiano ragione e al tempo stesso torto.

CORRIERE.IT

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Pensione, come sarà la riforma: più flessibilità in uscita, ma la Fornero non sarà cancellata

mercoledì, Maggio 31st, 2023

di Diana Cavalcoli

l nodo pensioni

Dopo lo scoglio delle amministrative, Giorgia Meloni spinge sulle riforme. Nella giornata di martedì 30 maggio la premier ha incontrato le parti sociali per esaminare le ricette anti-inflazione ma anche per parlare di riforma delle pensioni oltre che di quella fiscale. Proprio sulla riforma previdenziale il confronto con i sindacati è serrato: proprio in queste ore Maurizio Landini, leader della Cgil, ha ribadito l’intenzione di avviare un percorso di mobilitazione italiana ed europea «per la lotta alla precarietà, l’aumento dei salari e delle pensioni». Ma come potrebbero cambiare le pensioni? E quale destino per la Legge Fornero e per il suo limite a 67 anni dell’età pensionabile?

La posizione della Corte dei conti

Qualche indizio arriva dal rapporto 2023 sul Coordinamento della finanza pubblica. Nel documento la Corte dei Conti sottolinea come la logica di fondo della legge Fornero non vada messa in discussione. I giudici fanno solo riferimento alla possibilità di «correggere con misure mirate alcuni punti di eccessiva rigidità della legge». Una soluzione potrebbe così essere il rafforzamento dell’Ape sociale, l’anticipo pensionistico, che dal 2017 ha interessato più di 93 mila persone. In questo scenario non troverebbe spazio Quota 41 fortemente voluta dalla Lega di Matteo Salvini e considerata costosa dai giudici, che sottolineano la necessità di uno stop alle varie Quote. Un superamento quindi di Quota 100, Quota 102 e Quota 103, che nel 2023 rappresenta la via d’uscita anticipata dal mondo del lavoro per ottenere la pensioni, anche se con varie limitazionie penalizzazioni (leggi qui i pro e i contro dell’uscita anticipata con quota 103).

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