Umberto Galimberti
I giovani oggi stanno male, come dimostra la tragica vicenda
del sedicenne di Abbiategrasso. Ma non cerchiamo facili spiegazioni
imputando il loro malessere al distanziamento sociale imposto dalla
pandemia. Ben più profonde sono le ragioni. E vanno cercate nel collasso
educativo della famiglia e della scuola, avvenuto con il progressivo
passaggio dalla società della disciplina che si regolava sul ciò che era
permesso e ciò che era proibito, alla società dell’efficienza e della
performance spinta, spesso misurata dal numero dei like e dei follower a
cui viene affidata la propria identità, spesso accompagnata da un senso
di insufficienza per ciò che si vorrebbe essere e non si riesce ad
essere a partire dalle attese altrui, dalle quali ciascuno misura il
valore di se stesso. L’identità, infatti, non la possediamo per il fatto
che siamo nati, ma è un dono sociale, è il risultato del riconoscimento
o del misconoscimento che riceviamo dagli altri.
La famiglia
oggi è molto carente in termini educativi. I genitori parlano poco con i
figli, soprattutto in tenera età, e in compenso li riempiono di regali
che stanno al posto di tutte le parole mancate. Doni a Natale, ai
compleanni, alle promozioni, alle immediate soddisfazioni delle loro
richieste che hanno come effetto l’estinzione del desiderio. Perché il
desiderio è mancanza. Non si desidera quello che si ha, ma quello che
non si ha. E in un clima di abbondanza e di gratificazioni il desidero
si spegne. Inutile poi lamentarsi se, in età adolescenziale, i ragazzi
non desiderano più niente e sono indifferenti a tutto. Oggi poi i
genitori vivono spesso il mito del giovanilismo che li conduce a
comportamenti non proprio esemplari. Non parliamo delle separazioni e
dei divorzi, necessari quando il clima in famiglia è connotato
dall’indifferenza reciproca, quando non dalla violenza. Ma non si creda
che separazione e divorzi non incidano in termini depressivi sui figli.
Non sono rari i casi in cui si cambia partner come si cambiano i vestiti
o i lavori. È infatti diffusa una concezione della libertà intesa solo
come revocabilità di tutte le scelte.
Ma veniamo alla scuola
che accompagna i nostri ragazzi per dodici anni della loro vita. Qui me
lo si lasci dire. La scuola Italiana istruisce quando riesce, ma non
educa. L’istruzione è una trasmissione di contenuti culturali e
scientifici da chi li possiede (gli insegnanti) e chi non li possiede
(gli studenti). L’educazione consiste nel prenderei cura della
condizione emotiva degli studenti, perché come dice Platone: “La mente
non si apre se prima non si è aperto il cuore”. E quando dico “cuore”
penso a quel passaggio all’emozione a partire dalle pulsioni a cui si
arrestano i bulli che, incapaci di esprimersi con le parole, sanno
muoversi solo con i gesti, il più delle volte violenti, senza una
risonanza emotiva dei loro comportamenti. Kant diceva che «il bene e il
male potremmo anche non definirli perché ciascuno li sente naturalmente
da sé». Oggi non è più vero che tutti i ragazzi avvertono la differenza
tra parlare male di un professore, (cosa che abbiamo fatto tutti) o
aggredirlo fisicamente (oggi ci provano anche i genitori), tra
corteggiare una ragazza o stuprarla. E non sto esagerando a giudicare
dalle risposte che i ragazzi che compiono queste azioni danno ai
magistrati che li interrogano. Sono risposte disarmanti: «Ma cosa
abbiamo fatto di strano?», «Volevamo solo divertirci». Quindi non sanno
distinguere più il bene dal male, ciò che è grave da ciò che grave non
è. Cosa fa la scuola con i bulli? Li sospende. Malissimo. Deve tenerli a
scuola il doppio del tempo e aiutarli a guadagnare quella risonanza
emotiva dei loro comportamenti, senza la quale questi ragazzi
diventeranno soggetti pericolosi.
Ma per accorgersi dei
percorsi emotivi e sentimentali di questi adolescenti, i cui lobi
frontali che presiedono la razionalità giungono a maturazione intorno ai
vent’anni, occorre che gli insegnanti dispongano di empatia, che è la
capacita di leggere cosa passa nella mete e nel cuore degli alunni che
ogni giorno hanno di fronte. Si diventa insegnanti superando un concorso
che misura la preparazione culturale dei candidati. A questa prova
dovrebbe aggiungersi un test di personalità che misura il grado di
empatia, come peraltro avviene nei Paesi del Nord Europa. Perché chi non
ha empatia non può fare l’insegnante, come chi è alto un metro e
cinquanta non può fare il corazziere. Tutti noi abbiamo studiato con
piacere le discipline dei professori che ci avevano affascinato, e
trascurato quelle dei professori che ci demotivavano. Oggi, su nove
professori che compongono una classe, sono fortunati quegli studenti che
hanno uno o due maestri su cui fare affidamento e riferimento per la
loro formazione. Sempre in ordine alla formazione degli insegnanti è mai
possibile che, avendo a che fare con ragazzi in età evolutiva, non sia
previsto nel loro curriculum di studi un solo libro di psicologia
dell’età evolutiva?
Temo i professori che seducono gli studenti con la loro personalità, o peggio che vadano a mangiare con loro la pizza, perdendo immediatamente al loro autorevolezza. Approvo invece i professori che li seducono con la loro cultura, che però deve essere offerta come, ad esempio, Benigni ha recitato la Divina Commedia, perché la cattedra è un palcoscenico. E non sarebbe male che un insegnante, nel suo percorso formativo, frequentasse anche una scuola d teatro, invece di insistere nelle sue interrogazioni ad esempio su la battaglia di Campaldino nota 31, pagina 50.