Su poliziotti e carabinieri la penso come Pasolini: sono figli del popolo e fanno un lavoro che molte persone più protette e privilegiate preferirebbero non fare. Proprio perché sono dalla loro parte mi preoccupa la cadenza quotidiana di video (gli ultimi due a Milano e Livorno) dai quali traspare, diciamo così, un’esuberanza repressiva che spaventa, anche perché è ai danni di persone che, nella scala sociale, non sono certo classificabili tra i più forti.
Pasolini descrisse il conflitto di piazza tra proletari (i poliziotti) e
figli di papà (gli studenti). Qui invece le botte arrivano addosso a
derelitti e gente comune. Non che picchiare un commendatore o una
contessa sia meno grave; lo Stato dovrebbe avere con tutti la stessa
severità, ma per tutti lo stesso rispetto. È solo per dire che l’uso
strumentale del Pasolini “pro-poliziotti”, tanto caro alla destra, va
storicizzato; e non è certo spendibile nel caso si vedano persone in
divisa che menano e scalciano transessuali, o ambulanti, o gente della
strada.
La vera questione non è “se”. Né “quando”. Sta già succedendo:
l’intelligenza artificiale è entrata in ufficio e lavora in mezzo a noi.
A volte insieme agli uomini, un moltiplicatore di produttività. A volte
— c’è chi teme sempre di più — al loro posto. «Fra qualche tempo diremo
che il 2023 è stato l’inizio della quarta rivoluzione industriale»,
è sicuro Massimo Ruffolo, ricercatore del Cnr e fondatore di Altilia,
azienda che sviluppa algoritmi per automatizzare l’analisi dei
documenti. Per esempio le centinaia di fogli con cui le banche valutano i
crediti difficili: in un paio d’ore l’AI spreme informazioni su cui un
bancario Sapiens sapiens faticherebbe giorni. Ma oltre che estrarre,
l’AI ragiona sempre meglio. E ChatGPT ha rivelato che adesso sa pure
generare parole e immagini. Il mestiere di impiegati e professionisti,
programmatori e illustratori. «È uno strumento che libera il tempo e la
creatività delle persone, ma certo, per fare le stesse operazioni ci
vorrà meno forza lavoro», dice Ruffolo. Anche le prime multinazionali
hanno iniziato ad ammetterlo: entro il 2030 British Telecom sostituirà
10 mila dipendenti con l’AI; Ibm ne rimpiazzerà 7.800.
È iniziata quindi. E se davvero l’AI si confermerà una tecnologia
generale, come la macchina a vapore o il Pc, la trasformazione del
lavoro non potrà che accelerare. Sono arrivate le prime stime, con tutti
i caveat del caso. La banca d’affari Goldman Sachs prevede che
l’equivalente di 300 milioni di posti di lavoro a livello globale sarà
esposto all’automazione. Mentre OpenAI, l’azienda che ha creato ChatGPT,
dice che due lavoratori su dieci vedranno rivoluzionata almeno metà dei
loro compiti.
La vera questione, allora, è “come”. E il primo dato è che
l’automazione si sposta dalle fabbriche agli uffici, dalle tute blu ai
colletti bianchi. Entriamo in un call center, uno dei settori dove i
chatbot — i programmi in grado di chiacchierare — sono arrivati prima.
«Con ChatGPT c’è stato un salto pazzesco, ancora tutto da scoprire, il
nostro problema semmai è che tende a dialogare troppo», dice Gianluca
Ferranti, capo dell’innovazione globale di Covisian, colosso del
settore. Racconta le due facce dell’AI: da un lato supporto al lavoro
umano, come quella che suggerisce in tempo reale all’operatore l’impatto
di un’azione; dall’altra sostituzione, come l’assistente virtuale
nell’e-commerce di una multinazionale del caffè: «C’è sempre la
possibilità di rivolgersi a un essere umano, ma con la nuova tecnologia
l’interazione viene automatizzata il 10-15% di volte in più». Significa
che lì servono meno persone, che Covisian sposta su attività diverse,
altre aziende chissà.
Da un paio di giorni alcuni commentatori tutt’altro che ostili al centrosinistra (in primo luogo Alessandro De Angelis su Huffington ma anche Mario Lavia su linkiesta) si interrogano stupiti circa l’assenza dalla scena di Elly Schlein.
In Italia sta accadendo quasi tutto quello che poteva accadere, ma la leader dell’opposizione sembra afona; o per meglio dire, pare scomparsa dall’epicentro dei problemi, salvo un intervento a Piazza Pulita.
E non sono solo gli osservatori ad aver colto queste incongruenze.
Anche all’interno del partito si avvertono perplessità varie e si
diffondono interrogativi senza risposta. Ci si attendeva un passo
diverso dopo le prime settimane di doveroso apprendistato.
È comprensibile che la leader non voglia farsi rappresentare da altri volti, a parte raramente la vice-presidente Chiara Gribaudo.
Ed è altrettanto logico che i vecchi dirigenti del Pd, sconfessati ed
emarginati, anche quelli che l’avevano appoggiata nella scalata, siano
poco inclini a darsi da fare a sostegno della neo segretaria.
Ma forse c’è di più. La linea politica radicalizzata, quasi una
variante dei Cinque Stelle, ha bisogno di essere sostenuta con idee,
fantasia e un particolare dinamismo. Altrimenti, una volta esaurita la
novità, si disperde in un manierismo fumoso, diventa una mera collezione
di slogan per le tv e i giornali. Che a loro volta finiscono per
stancarsi.
Finora Elly Schlein ha tenuto una posizione abbastanza netta, benché forse poco convinta, solo sull’Ucraina.
E c’è da immaginare che su questo punto cruciale non sia mancato il
consiglio del Quirinale. Per il resto non c’è granché, soprattutto a
pochi giorni dal secondo turno delle amministrative.
TRENTO. «Io non sono una luddista, sono una nerd anni ’90.
Credo che il progresso tecnologico abbia portato benefici incredibili
alle nostre vite e ai processi produttivi, ma servono politiche che li
redistribuiscano. Come possiamo accettare che lavoratori e lavoratrici
delle piattaforme siano sfruttati a cottimo? Dobbiamo scrivere le nuove
regole del lavoro digitale». La segretaria del Pd Elly Schlein sceglie
il Festival dell’economia di Trento, e il pubblico di studenti,
pensionati e curiosi che dopo un po’ di timidezza iniziale la applaude
più volte, per mettere in fila le sue idee su crescita, debito, Pnrr,
imprese, lavoro e tasse. Per dirla con una parola impronunciabile, ma
cara alla narrazione obamiana in cui lei stessa si è fatta le ossa, la
«Schleinomics».
Intervistata dal direttore de Il Sole24Ore
Fabio Tamburini Schlein, camicia optical e doppiopetto color borgogna,
mostra di essere consapevole che la sua grande sfida, che è insieme
sfida alla maggioranza di centrodestra e sfida per rilanciare il suo
partito, è quella di riuscire a coniugare le rivendicazioni storiche
della sinistra (nel suo lessico non mancano i termini «conflitto»,
«concertazione» e «intermediazione pubblica»), il riformismo e l’agenda
dei più giovani (in primis ambiente e tecnologia). Domenica e lunedì si
vota per i ballottaggi delle amministrative ma è chiaro che, chiusa
l’ultima partita elettorale della «fase congressuale», e dopo settimane
di battaglie sui diritti, in vista delle europee 2024 il Pd dovrà
trovare un nuovo assetto anche sui temi economici.
Il modello,
citato almeno un paio di volte insieme alle analisi di Jean Paul
Fitoussi, Amartya Sen e Joseph Stiglitz (ma pure alle ricette del
«professor Prodi» a cui Schlein è legata fin dai tempi di Occupy Pd), è
la Spagna di Pedro Sanchez. L’orizzonte è l’agenda Onu 2030 per cui «il
Pil è una priorità ed è importante ma bisogna tenere conto dell’impatto
sociale, ambientale, economico e di genere delle misure che mettiamo in
campo». Anche per questo «siamo estremamente preoccupati sull’attuazione
del Pnrr. Il governo invece che lamentarsi delle scadenze europee
dovrebbe chiedere maggiori risorse per una transizione più giusta».
Quanto al capitolo debito pubblico, pur riconoscendo la necessità di
ridurlo pensando alle generazioni future, per Schlein bisogna «lavorare
sul denominatore, cioè sulla crescita, perché sono state sbagliate le
politiche tutte incentrate sul rigore, e anche in Europa oggi c’è questa
consapevolezza».
Ma la segretaria dem, dopo aver definito il macro-perimetro del suo programma economico, coglie l’occasione per criticare l’esecutivo Meloni su altre questioni molto attuali. «Per noi la priorità è contrastare quello che sta facendo il governo sul decreto lavoro – spiega, ricordando la sua uscita dal Pd all’epoca del Jobs Act -. Sotto a un taglio del cuneo fiscale, che purtroppo non è strutturale ma dura solo alcuni mesi, c’è nascosta una norma che rende strutturale la precarietà». Sul fisco il fronte è sia nazionale che europeo. In Italia si «strizza l’occhio a chi non paga le tasse con i condoni e alzando il tetto del contante» mentre per combattere l’evasione «la priorità assoluta è l’incrocio delle banche dati digitali».
Venerdì nero per pendolari, studenti, lavoratori. Sarà una
giornata abbastanza complicata per chi utilizza i mezzi pubblici. In
quasi tutta Italia (escluse le zone colpite dall’alluvione) è sciopero
del trasporto pubblico. Disagi nei trasporti, ma non solo: è coinvolta
anche la scuola. Per quanto riguarda i treni, Fs ha reso noto che
«circoleranno regolarmente» le Frecce e gli Intercity di Trenitalia,
mentre Italo ha pubblicato sul proprio sito la lista dei treni
garantiti.
Le motivazioni dello sciopero La
protesta è stata indetta dall’Usb per «rilanciare la piattaforma
contrattuale del settore Tpl inviata alle istituzioni e alle
associazioni datoriali», contro «le privatizzazioni selvagge attraverso i
continui ricorsi ad appalti, subappalti e subaffidamenti che alimentano
sfruttamento e precarizzazione, il susseguirsi di rinnovi contrattuali
‘farsa’ in cambio della crescente svendita dei diritti», ma anche le
«gravose responsabilità dei lavoratori del settore senza adeguati
livelli di sicurezza, con pesanti penalizzazioni salariali che
inaspriscono ancor più le condizioni dell’attuale crisi economica e del
carovita».
Ecco gli orari e le informazioni sull’astensione dal lavoro nelle principali città d’Italia: TORINO
– Il servizio urbano e suburbano, metropolitana e centri per i clienti
saranno garantiti dalle 6 alle 9, e dalle 12 alle 15. Il servizio
extraurbano, compreso quello ferroviario e la tratta Aeroporto-Ceres, si
fermerà già alle 8 per poi proseguire nella fascia centrale
14.30-17.30. Tra le 15 e le 18 potrebbero non essere garantite le corse
della linea bus SF2 tra Venaria e Torino e viceversa. Assicura GTT che
saranno completate le corse in partenza entro il termine delle fasce di
servizio garantito.
NOVARA – Ferrovienord spa
ramo Milano e ramo Iseo circolazione Treni dalle 00.01 alle 5.59, dalle
9.01 alle 17.59 e dalle 21.01 a fine servizio.
MILANO – Dalle ore 00.01 alle 5.29, dalle 8.31 alle 12.29 e dalle ore 15.31 a fine servizio. BRESCIA – Dalle ore 00.01 alle ore 5.59, dalle 9.01 alle 11:29 e dalle 14.31 a fine servizio.
BOLZANO E PROVINCIA
– Servizi su gomma, funicolare, funivia e trenino del Renon dalle 00.01
alle ore 5.59, dalle 9.00 alle ore 11.59 e dalle 15.00 a fine turno di
servizio; personale viaggiante ferroviario astensione dalle 00.01 alle
5.59, dalle ore 9.00 alle 17.59 e dalle ore 21.00 a fine servizio.
Professor Franco Cardini, da insigne storico lei venne chiamato nel cda Rai dell’era Moratti, cosa pensa delle nomine? «Troppa
lottizzazione. Meloni non si fida dei suoi, figurarsi degli altri.
L’occupazione di sedie e strapuntini è un sistema verso cui il governo
non mostra discontinuità. Il fatto poi che la destra non abbia
personalità sufficienti è comprensibile, perché per tre quarti di secolo
è stata considerata appestata e non ha maturato molti elementi
politico-intellettuali».
Che Rai ci vorrebbe? «Ricordo
sempre che la tv francese e quella tedesca hanno fatto il canale Arte
insieme, mentre noi nulla. Non bastano Paolo Mieli e Corrado Augias per
educare le masse. Sarebbe ora di puntare su dei giovani storici, e lo
dico da anziano che non smania di apparire».
Qualche nome? «Oltre
a dei grandi come Alessandro Barbero e Massimo Cacciari, vorrei vedere
Antonio Musarra, Francesca Roversi Monaco e Barbara Frale».
Ha visto che Lucia Annunziata si è dimessa in polemica con le scelte del governo? «Mi
chiedo se condividesse le modalità dei governi precedenti, questo non
ce l’ha ancora detto. La sua lettera è coerente con la sua personalità
seria e preparata, ma spero non serva a mettere la base per un rientro
prima o poi».
Per il direttore del Salone del libro Lagioia l’egemonia culturale della sinistra è un’ossessione della destra, è così? «È anche un’ossessione della sinistra imposta all’opinione pubblica, ricordo il film La terrazza di Ettore Scola».
Eppure mai come ora si è vista tanta ricerca di spazi… «Con
i risultati che vediamo. Chi sono gli intellettuali di destra?
Buttafuoco è un caro ragazzo filoislamico, ma non basta. Bruno Guerri?
Sta bene solo al Vittoriale. Veneziani? Un bravo scrittore, non un
intellettuale. Con loro si va poco lontano. L’egemonia della sinistra, a
sua volta egemonizzata dal Pci, era di un altro livello».
Che consigli può dare? «La
destra esca dal recinto e dia spazio alla società civile, agli
scienziati e agli artisti meritevoli. Ci sta provando, ma in modo
maldestro».
C’è un fascista in fondo al cuore di tanti democratici, come ha detto Recalcati a proposito del caso Roccella? «Nel mio di sicuro, ma io non sono democratico. Almeno non nella maniera ideologica o teologica che si porta».
Si sente per caso aristocratico? «Non
siamo ai tempi di Cesare o Pericle, quando sarei stato dalla parte dei
plebei. Oggi mi definisco un cittadino che crede nelle leggi e pensa che
siano migliorabili. E dopo essere stato un missino poco convinto,
europeista non nazionalista, dagli anni ’60 sono un cattolico,
socialista ed europeista, in questo ordine».
Cosa le ha fatto la democrazia? «Il
sistema rappresentativo è diventato elitario e dominato da tre forze:
finanza, economia e tecnologia. Chi le gestisce esprime i politici che
poi vengono eletti attraverso un metodo controllabile».
ROMA. Presentato come incontro «di routine», del quale ufficialmente non è nemmeno stata data notizia, si è tenuto sul Colle un summit ai massimi livelli istituzionali per ragionare di un fenomeno che ormai sembra completamente sfuggito di mano: i decreti legge. Non solo se ne sfornano troppi, e questo governo in particolare ne sta producendo in media uno alla settimana, ritmo da record; ma in Parlamento c’è chi ne approfitta per infilare nei decreti delle misure del tutto estranee alle materie dei provvedimenti urgenti, con lo stesso sconsiderato cinismo di quanti si lanciano nella scia delle ambulanze allo scopo di evitare le code (e magari provocano pure incidenti).
La tecnica è quella
solita: consiste negli emendamenti parlamentari, di cui la stessa
maggioranza si avvale in modo sistematico, talvolta d’accordo con
l’esecutivo, per soddisfare le più svariate esigenze, non sempre
commendevoli. Il risultato è che alla fine dell’iter il presidente della
Repubblica si ritrova sul tavolo, per la promulgazione, un testo spesso
irriconoscibile, completamente diverso da quello che aveva autorizzato
il governo a presentare. Un malcostume antico. Da ultimo però si sono
rotti gli argini della decenza e Sergio Mattarella non poteva far finta
di nulla. Guarda caso ieri ha invitato nel suo salotto i presidenti del
Senato, Ignazio La Russa, e della Camera, Lorenzo Fontana scortati dai
rispettivi segretari generali.
La notizia del vertice istituzionale, circolata negli ambienti politici, ha trovato conferme in serata. Per quanto nulla sia filtrato dal Quirinale sui contenuti del colloquio, tantomeno da Palazzo Madama e da Montecitorio, si è vicini al vero immaginando che Mattarella abbia sollecitato i suoi ospiti a prendere con decisione l’iniziativa. Il capo dello Stato non ha titolo per intervenire sui lavori del Parlamento, figurarsi sull’ammissibilità degli emendamenti ai decreti; semmai è un compito che spetta ai presidenti dei due rami. I quali (da quanto è dato sapere) hanno assicurato la loro massima disponibilità e si attiveranno in futuro per evitare incidenti spiacevoli come quello capitato la scorsa settimana alla Camera, quando il «decreto bollette» era stato bloccato un attimo prima del voto finale e «ripulito» in tutta fretta di quattro emendamenti surrettizi. Si era sospettato nella circostanza un intervento in tackle del Quirinale, ma da quelle parti lo escludono. E comunque, il punto di vista di Mattarella è noto fin dal 24 febbraio scorso, quando il presidente aveva accompagnato la promulgazione del decreto “Milleproroghe” con una lunga lettera a La Russa e Fontana in cui, nel pieno rispetto della loro autonomia costituzionale, lasciava intendere che da loro si aspettava passi concreti.
Il colloquio di Henry Kissinger con
Oriana Fallaci del 1972, di cui il diplomatico poi si pentì e disse: «La
cosa più stupida della mia vita»
Il più grande diplomatico del XX secolo: Henry Kissinger compie 100 anni.
Nato tedesco, arriva negli Usa nel 1938. Da segretario di Stato è
l’artefice del disgelo con la Cina. Premio Nobel per la Pace nel 1973.
Qui sotto, la storica intervista di Oriana Fallaci, realizzata nel 1972.
Quest’uomo troppo famoso, troppo importante, troppo fortunato, che
chiamavano Superman, Superstar, Superkraut, e imbastiva alleanze
paradossali, raggiungeva accordi impossibili, teneva il mondo col fiato
sospeso come se il mondo fosse la sua scolaresca di Harvard.
Questo personaggio incredibile, inspiegabile, in fondo assurdo, che
s’incontrava con Mao Tse-tung quando voleva, entrava nel Cremlino quando
ne aveva voglia, svegliava il presidente degli Stati Uniti e gli
entrava in camera quando lo riteneva opportuno. Questo
cinquantenne con gli occhiali a stanghetta, dinanzi al quale James Bond
diventava un’invenzione priva di pepe. Lui non sparava, non faceva a
pugni, non saltava da automobili in corsa come James Bond, però
consigliava le guerre, finiva le guerre, pretendeva di cambiare il
nostro destino e magari lo cambiava. Ma insomma, chi era questo Henry Kissinger? […]
La sua biografia è oggetto di ricerche che rasentano il culto e tutti si sa che è nato a Furth, in Germania, nel 1923, figlio di Luis Kissinger, insegnante in una scuola media, e di Paula Kissinger, massaia. Si sa che la sua famiglia è ebrea, che quattordici dei suoi parenti morirono nei campi di concentramento,
che insieme al padre e alla madre e al fratello Walter fuggì nel 1938 a
Londra e poi a New York, che a quel tempo aveva quindici anni e si
chiamava Heinz, mica Henry, e non sapeva una parola d’inglese. Ma lo
imparò molto presto. Mentre il padre
faceva l’impiegato in un ufficio postale e la madre apriva un negozio di
pasticceria, studiò così bene da essere ammesso a Harvard e laurearsi a
pieni voti con una tesi su Spengler, Toynbee e Kant, poi
diventarvi professore. Si sa che a ventun anni fu soldato in Germania,
dove era con un gruppo di GI selezionati da un test e giudicati così
intelligenti-da-sfiorare-il-genio, che gli affidarono per questo (e
malgrado la giovane età) l’incarico di organizzare il governo di
Krefeld, una città tedesca rimasta senza governo. Infatti a Krefeld
fiorì la sua passione per la politica: una passione che avrebbe appagato
diventando consigliere di Kennedy, di Johnson, e poi assistente di
Nixon. Non a caso potevi considerarlo il secondo uomo più potente
d’America. Sebbene alcuni sostenessero che era molto più, come
dimostrava la battuta che al tempo della
mia intervista circolava a Washington: «Pensa cosa succederebbe se
morisse Kissinger. Richard Nixon diventerebbe presidente degli Stati
Uniti…».
Quindi l’uomo restava un mistero,
come il suo successo senza paragoni. E una ragione di tale mistero era
che avvicinarlo, comprenderlo era difficilissimo: di interviste
individuali non ne dava, parlava solo alle conferenze-stampa indette
dalla presidenza. Così, giuro, non ho ancora capito perché accettasse di
vedere me, appena tre giorni dopo aver ricevuto una mia lettera priva
di illusioni. Lui dice che fu per la mia intervista col generale Giap,
fatta ad Hanoi nel febbraio del sessantanove. Può darsi. Però resta il
fatto che dopo lo straordinario «sì» cambiò
idea e decise di vedermi a una condizione: non dirmi nulla. Durante
l’incontro, a parlare sarei stata io e da quel che avrei detto egli
avrebbe deciso se darmi l’intervista o no. Ammesso che ne
trovasse il tempo. Il che avvenne davvero alla Casa Bianca, giovedì 2
novembre 1972, quando lo vidi giungere tutto affannato, senza sorrisi, e
mi disse: «Good morning, miss Fallaci». Poi, sempre senza sorrisi, mi
fece entrare nel suo studio elegante e pieno di libri, telefoni, fogli,
quadri astratti, fotografie di Nixon. Qui mi dimenticò mettendosi a
leggere, le spalle voltate, un lungo dattiloscritto. Era un po’
imbarazzante restarmene lì in mezzo alla stanza, mentre lui leggeva il
dattiloscritto e mi voltava le spalle. Era anche sciocco, villano da
parte sua. Però la cosa mi permise di studiarlo prima che lui studiasse
me.
E non solo per scoprire che non è
seducente, così basso e tarchiato e oppresso da quel testone di ariete:
per scoprire, ecco, che non è affatto disinvolto, né sicuro di sé.
Prima di affrontare qualcuno, egli ha bisogno di prendere tempo e
proteggersi con la sua autorità. […] Al venticinquesimo minuto circa, decise che avevo passato gli esami. Forse mi avrebbe dato l’intervista. […]
E alle dieci di sabato 4 novembre ero di nuovo alla Casa Bianca. Alle
dieci e mezzo entravo di nuovo nel suo ufficio per incominciare l’intervista più scomoda, forse, che abbia mai fatto.
Dio che pena! Ogni dieci minuti lo squillo del telefono ci
interrompeva, ed era Nixon che voleva qualcosa, chiedeva qualcosa,
petulante, fastidioso come un bambino che non sa stare lontano dalla sua
mamma. Kissinger rispondeva con premura, ossequioso, e il colloquio con
me si interrompeva: rendendo ancor più difficile lo sforzo di capirlo
un poco. Poi, proprio sul più bello, mentre egli mi denunciava l’essenza
inafferrabile del suo personaggio, uno dei telefoni squillò di nuovo.
Era di nuovo Nixon e: poteva il dottor Kissinger passare un attimo da
lui? Certo, signor presidente. Scattò in piedi, mi disse di aspettarlo,
avrebbe cercato di darmi ancora un po’ di tempo, uscì. E così si
concluse il mio incontro. […]
Perché Xi sembra incapace di
interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a
orrende caricature? L’Europa spera che le prove di disgelo funzionino,
ma farà bene a prepararsi una polizza assicurativa
Sono in corso le prove di un disgelo tra America e Cina. L’Europa fa il tifo perché avvenga.
Le delegazioni delle due superpotenze si sono incontrate per parlare di
commercio, per la prima volta da quando l’incidente del pallone-spia
aveva bloccato i contatti ad alto livello. Gli strateghi della politica
estera di Washington e Pechino si sono parlati per otto ore a Vienna.
Alcuni «falchi» della politica estera americana sono andati in pensione.
Alla Casa Bianca c’è chi pensa che anche nella squadra di Xi Jinping
stia prevalendo una corrente più morbida. Joe Biden capisce che una
distensione con la Repubblica Popolare sarebbe un dono gradito agli
europei, Germania e Francia in testa. Dopotutto, Bernard Arnault è
diventato l’uomo più ricco del mondo perché le vendite di Lvmh sono
esplose nella Cina post-Covid.
C’è il rischio che le speranze vadano deluse. I
prudenti approcci tra americani e cinesi vanno confrontati con la
spettacolare luna di miele fra Pechino e Mosca, con delegazioni ai
massimi livelli che firmano accordi in ogni campo. Xi Jinping ha
questa visione sull’Ucraina: può darsi che Putin abbia sbagliato tutto,
può darsi che la Cina paghi dei prezzi per averlo appoggiato, però
adesso Pechino deve impedire che la Russia venga sconfitta. Una disfatta
militare di Putin renderebbe più credibile il dispositivo delle
alleanze americane nel Pacifico, sarebbe un colpo alla Cina nella sua
sfera geopolitica primordiale. Xi ha una teoria dell’accerchiamento che riecheggia quella di Putin:
la «trappola ucraina» ordita dagli americani contro i russi sarebbe
pronta a replicarsi in Asia contro i cinesi. L’idea di un Occidente
dominato dall’America che trama per schiacciare la Repubblica Popolare è
ormai dominante sui media del regime comunista. Noi occidentali, ancora
intrisi di colonialismo e imperialismo, vorremmo ricacciare la Cina là
dov’era a metà dell’Ottocento, quando ebbe inizio con le guerre
dell’Oppio il suo «secolo delle umiliazioni». Se qualche lettore si
sente un po’ stretto in questa descrizione della mentalità occidentale
nel 2023, è in buona compagnia.
Noi dobbiamo superare una visione del
mondo ancora troppo occidento-centrica, abbiamo lacune di conoscenza
sulla Cina, e dobbiamo fare spazio alle sue aspirazioni legittime. Però è attuale una domanda inversa: quand’è che i dirigenti comunisti di Pechino hanno smesso di capirci? Perché Xi sembra incapace di interpretare i meccanismi delle nostre democrazie, al punto da ridurle a orrende caricature? La
Cina di Deng Xiaoping uscì dal trentennio tragico del maoismo studiando
con attenzione i modelli altrui: Giappone, America, Europa. Oggi Xi
indottrina un miliardo e quattrocento milioni di persone perché abbiano
un complesso di superiorità che è nemico della curiosità.
Il caso più recente è il pallone-spia. Come può Xi immaginare che Biden faccia ingoiare all’opinione pubblica il diritto di sorvolo dei cieli americani da parte dell’intelligence cinese? Idem per le bugie di Stato sul Covid e l’incapacità di Pechino di capirne l’impatto su di noi. L’elenco delle incomprensioni è ben più lungo e antico.
«I vecchi sistemi di pompaggio non bastano più». A Conselice parte la vaccinazione contro il tetano
DAL NOSTRO INVIATO RAVENNA — Conselice, ma non solo. Decine i comuni e le frazioni trasformati in paludi. Conseguenza dell’alluvione e dell’orografia di una fetta di Romagna a pelo sul livello del mare. Ravenna,
Lugo, Alfonsine, Bagnacavallo da sempre hanno dovuto fare i conti con
gli allagamenti. «Fino ad oggi le opere di bonifica fatte in passato e i
sistemi di pompaggio ci avevano protetti — dice il sindaco di Ravenna
Michele De Pascale —, con i cambiamenti climatici non sono più
sufficienti». Ma la mappa dei centri allagati va oltre la Romagna, fino a
Budrio e Molinella, nel Bolognese.
Cinquanta idrovore
Odori nauseabondi e gommoni a Fornace Zarattini, frazione di Ravenna, dove risiedono 1.500 persone più gli insediamenti produttivi. Dopo dieci giorni la gente è esasperata.
Enrico Piani e la moglie sono scappati con una bimba di 2o mesi:
«Avevamo appena ristrutturato la casa, ora è tutto distrutto, siamo
disperati. Per questo ho lanciato una raccolta fondi per tutti quelli
nelle nostre condizioni». Ma De Pascale ci tiene a dire che la situazione sta migliorando, grazie a 50 idrovore in aggiunta a quelle del Comune.
«Partivamo da 100 ettari allagati da un metro d’acqua, ora siamo a
20-30 centimetri in una porzione del comune». A Bagnacavallo, dove è
esondato il Lamone, ancora sott’acqua la frazione di Villanova. «Siamo
passati da 4 mila abitanti con un metro d’acqua a poche decine di
persone e un livello di 20 centimetri», dice la sindaca Eleonora Proni.
Anche qui in azione 30 idrovore aggiuntive.
Casa per disabili
A Budrio,
per l’esondazione dell’Idice, è ancora allagata la struttura che ospita
la cooperativa «L’orto» che assiste disabili. Evacuati 50 tra operatori
e ospiti, più altri 80 residenti. Qui la sindaca, Debora Baddiali, è
riuscita a convincere tutti a lasciare le proprie case e si prepara a
prevenire eventuali problemi sanitari con una massiccia disinfestazione
per le zanzare. «I cittadini hanno affrontato i disagi con grande
dignità — afferma —, ma se non arriveranno in fretta anche gli aiuti
economici ci verranno dietro con i forconi». Ancora allagate alcune zone
di Alfonsine e Medicina. Mentre è difficile anche solo censire gli
ettari di campagna trasformati in enormi risaie.