Archive for Maggio, 2023

Nei secoli fedele

mercoledì, Maggio 10th, 2023

di Massimo Gramellini

Montanelli sosteneva che gli italiani sognano sempre di fare la rivoluzione d’accordo con i carabinieri. Quando però sono i carabinieri a farla, la rivoluzione, significa che è diventata istituzione. E chi la contrasta non è più un conservatore, ma un reazionario. L’appuntato scelto Angelo Orlando non è il primo carabiniere a sposarsi con un altro uomo, eppure il fatto che lavori a Palazzo Chigi, i cui attuali inquilini non vanno particolarmente pazzi per i matrimoni gay, dà alla sua scelta un significato ironico.

Il resto lo fanno l’alta uniforme dello sposo e l’arco di spade incrociate del picchetto d’onore sotto il quale l’appuntato Angelo e il parrucchiere Giuseppe si sono baciati dopo essersi tenuti per mano. Quell’uniforme e quel picchetto rappresentano il marchio della più prestigiosa istituzione del Paese, gelosa custode dei valori della tradizione, su un rito che fino a non molto tempo addietro era vietato e ancora oggi suscita in alcuni (penso allo sgomento che starà provando il senatore Pillon) un moto di condanna o comunque di fastidio. A queste persone bisognerà pur dire che sono circondate, ormai persino dai carabinieri.

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Mes, che cos’è e a chi serve. Perché l’Italia non lo ratifica e la Germania si vendica

mercoledì, Maggio 10th, 2023

di Domenico Affinito e Milena Gabanelli

Si parla moltissimo di Mes, pochi lettori sanno cos’è, quindi partiamo dall’inizio. Mes vuol dire «Meccanismo Europeo di Stabilità», detto anche «Fondo salva stati», è stato approvato dal Consiglio europeo il 25 marzo 2011 per aiutare i Paesi dell’eurozona in difficoltà a causa della crisi finanziaria. Fortemente voluto dall’Italia (a Palazzo Chigi c’era Silvio Berlusconi) che rischiava di non essere in grado di ripagare il proprio debito pubblico dopo l’esplosione dello spread. Ci è voluto più di un anno perché entrasse in vigore, l’8 ottobre 2012, per un’iniziale contrarietà della Germania. All’epoca coinvolgeva 19 Stati che sono diventati 20 dal 1 gennaio 2023 con l’ingresso della Croazia.

Parte tutto dalla crisi del 2007-2008, scatenata dallo scoppio della bolla immobiliare e dai mutui subprime.

Mes, la genesi

Parte tutto dalla crisi del 2007-2008, scatenata dallo scoppio della bolla immobiliare e dai mutui subprime. Nel giro di poco la crisi finanziaria riduce la liquidità delle banche e la possibilità di credito alle imprese, di conseguenza si abbatte sull’economia reale, aggredisce i debiti sovrani e la capacità di solvibilità di alcuni Stati europei. Quelli più in difficoltà sono Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia, Spagna che, con la bassa inflazione di allora (in media 2,3% tra il 2000 e il 2008) non hanno sentito la necessità di fare riforme e investimenti per spronare la crescita e arginare la perdita di competitività. Nel 2008 il tasso di interesse medio sui titoli governativi a 10 anni di Italia, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna era il 10,4%, mentre quello di Francia e Germania viaggiava attorno al 4%. L’Europa cerca soluzioni per evitare che la crisi si propaghi anche alle economie sane e dà vita nel 2010 al Fondo europeo di stabilità finanziaria, rimpiazzato due anni dopo dal Mes.

Come funziona

Il Mes ha un capitale di 80,5 miliardi di euro versato dagli Stati membri in proporzione alle rispettive quote di capitale della Bce, ma è autorizzato a raccogliere oltre 700 miliardi sul mercato con apposite obbligazioni, grazie alla garanzia del capitale sottoscritto sempre dagli Stati membri. L’Italia partecipa con 14,28 miliardi versati e 125 miliardi sottoscritti a garanzia. La decisione di aiutare un Paese che ne fa richiesta viene presa all’unanimità dal Consiglio dei governatori, formato dai ministri delle Finanze dell’area Euro.

Il Consiglio può anche prendere decisioni con una maggioranza dell’85%, ma solo se è a rischio la stabilità finanziaria ed economica dell’area dell’euro. I diritti di voto sono proporzionali al capitale sottoscritto: Germania, Francia e Italia hanno diritti di voto superiori al 15% e possono porre quindi il loro veto anche sulle decisioni urgenti. Una volta dato il via libera, il Mes corre in aiuto al Paese in difficoltà con: 1) prestiti economici, 2) acquisti di titoli di Stato, 3) linee di credito precauzionali, 4) prestiti per la ricapitalizzazione delle banche in crisi. Le condizioni dei prestiti variano a seconda del tipo di aiuto. Le linee di credito precauzionale non prevedono misure correttive dello Stato e sono riservate ai Paesi che rispettano le prescrizioni del Patto di stabilità, non presentano eccessivi squilibri, non hanno problemi di stabilità finanziaria, ma si trovano in un momento di difficoltà. Le linee di credito a «condizionalità rafforzata» sono destinate ai Paesi in difficoltà strutturale e in questo caso è obbligatorio un programma di riforme strutturali, negoziato con il Paese che chiede l’aiuto e vigilato dalla Troika, ovvero da Commissione europea, Banca centrale europea e Fondo monetario internazionale.

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Schlein, tailleur rosso e strategia accurata: «Sì al confronto, ma siamo contrari all’uomo o alla donna sola al comando»

mercoledì, Maggio 10th, 2023

di Maria Teresa Meli 

La leader dem: «Non ci sottraiamo al confronto e intanto abbiamo presentato le nostre proposte»

Schlein, la segretaria per il confronto sulla stabilità: ma con questo governo non ci sono margini 

«La verità è che non ci sono margini perché questo governo vuole andare all’elezione diretta del premier e io non penso che recederanno su questo. Comunque restiamo aperti a un confronto e ci vedremo di nuovo perché il tema della stabilità degli esecutivi interessa anche noi»: a sera, dopo l’incontro di quasi due ore con la premier, Elly Schlein affida ai fedelissimi i suoi dubbi e non nasconde un certo scetticismo. «E poi — ragiona la segretaria del Partito democratico — le priorità del Paese non sono queste e non vorrei che ci trascinassimo in mesi e mesi di discussioni sul presidenzialismo e il semipresidenzialismo, mettendo in secondo piano le urgenze, come il lavoro, la sanità, il problema della casa…». Schlein si era preparata con cura a quell’incontro (il primo tra le due) in cui la premier e la segretaria del Pd si sono rigorosamente date del lei, anche se prima, durante i colloqui informali che hanno preceduto la riunione nella sala della Biblioteca di Montecitorio, si davano il più confidenziale tu. La sera di lunedì e poi di nuovo la mattina dopo dal Nazareno era partito un ordine di scuderia ben preciso: nessun esponente dem avrebbe dovuto partecipare alle trasmissioni televisive che si sarebbero svolte alla vigilia dell’appuntamento con la presidente del Consiglio. Dare la linea spettava alla leader.

Chissà se anche l’elegante tailleur pantalone (alcuni dicono rosso magenta, altri porpora, perché ormai parlare dei colori della segretaria è di gran voga anche tra i parlamentari) faceva parte della strategia. Ma il piano studiato fin nei dettagli da Schlein non teneva conto dell’imprevisto, rappresentato in questo caso da Giuseppe Conte. Il leader dei 5 Stelle, infatti, spiazzava il Pd aprendo a una Bicamerale per fare le riforme. Uno strumento che al Nazareno viene visto con un certo sospetto, perché potrebbe essere un modo per rendere ancora più evidente la varietà di posizioni all’interno della minoranza. E la notizia della telefonata tra Schlein e Conte, dopo l’incontro tra l’ex premier e Giorgia Meloni, diffusa alle agenzie di stampa perché le dessero risalto, serviva proprio a dare la parvenza di un minimo di coordinamento delle opposizioni.

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Riforme, il faccia faccia tra Meloni e Schlein e le distanze della premier con la Lega

mercoledì, Maggio 10th, 2023

di Monica Guerzoni 

L’elezione diretta del premier potrebbe convincere in parte le opposizioni. Ma non piace alla Lega. E la leader avverte: «Le riforme e l’Autonomia si tengono, sono in un unico pacchetto»

Meloni: è la madre di tutte le riforme. Il lungo faccia a faccia e l’abbraccio a Schlein. Le distanze con la Lega

Quando Giorgia Meloni lascia Montecitorio dopo quasi dieci ore filate di incontri con le opposizioni, i giornalisti provano a strapparle una parola in più. E la premier, esausta: «Basta, vi prego… Oggi ho dato, buona serata a tutti». La battuta più tagliente l’ha tirata fuori per replicare allo scetticismo di Giuseppe Conte. «Difficile discutere di riforme con un governo che fa queste scelte economiche», è partito carico il presidente del M5S. E Meloni, non senza malizia politica: «Mica ti voglio proporre un inciucio istituzionale!». 

Quando è toccato a Elly Schlein il capo del governo l’ha presa da parte e, lontano dalle rispettive delegazioni, le ha parlato faccia a faccia per quasi venti minuti. Al momento dei saluti, tra le due leader è scattato persino l’abbraccio. Per Meloni è stata una giornata «proficua, importante e positiva», perché adesso il cantiere delle riforme «è aperto». Se qualcuno ha avuto l’impressione che la leader della destra abbia tirato fuori un diversivo per spegnere i riflettori sulle difficoltà di governare il Paese, tra la pressione degli sbarchi e la pressione dell’Europa sul Pnrr, la giornata di ieri dimostra invece, a sentire i meloniani, che «la premier fa sul serio». Al punto da aver aperto uno spiraglio anche alla proposta di Conte di una commissione bicamerale. In passato non ha portato bene, eppure la premier l’ha accolta con un «valuteremo, purché non ci siano intenti dilatori». 

L’importante, per lei, è che si arrivi a una bozza in tempi rapidi e che nessuno provi a trascinarla nella palude dell’inconcludenza. Vale per le tentazioni aventiniane delle minoranze e vale per la maggioranza. Chi si è seduto faccia a faccia davanti a lei è rimasto colpito da una formula che la premier ha usato nel chiuso della biblioteca del presidente. Affermare che «questa è la madre di tutte le riforme» vuol dire da una parte alzare al massimo il livello del confronto con le opposizioni e, dall’altra, ammonire la Lega per le sue titubanze. L’uscita di Riccardo Molinari ha messo in allarme i Fratelli d’Italia e un filo di preoccupazione deve avvertirla anche la leader. Da via Bellerio dicono di condividere la concertazione con l’opposizione, ma per bocca del capogruppo alla Camera ricordano che nel programma di governo si parla di elezione diretta del presidente della Repubblica. 

Per cui, se Meloni intende «virare» sul premierato forte, il Carroccio chiede che «vengano mantenute le garanzie sul ruolo del Parlamento». Un avvertimento che non è sfuggito ai meloniani, consapevoli di come il terreno delle riforme possa rivelarsi accidentato soprattutto nel campo della maggioranza. Le facce già dicono molto. Quando Meloni accoglie il verde Angelo Bonelli ricordando che viene da Ostia, un Antonio Tajani disteso e ciarliero gli dice «allora andremo insieme a mangiare le ostriche» e si sente rispondere che no, «a Ostia ci sono le telline». Matteo Salvini invece è descritto come «pensieroso e cupo». I leghisti temono che l’iter della «madre di tutte le riforme» possa intralciare la corsa dell’Autonomia e lanciano moniti alla premier, il cui senso è «non decidi tutto tu». 

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Elly Schlein e Bonaccini? Il caso dei 55 milioni anti-alluvione restituiti

martedì, Maggio 9th, 2023

Sandro Iacometti

Il lavoro deve essere «di qualità», l’impresa «buona» e «le politiche sociali devono essere rimesse al centro dell’agenda». Senza dimenticare l’importanza degli «investimenti sulle piste ciclabili» e del «trasporto pubblico più sostenibile». A sentire parlare Elly Schlein, reduce da «un bellissimo» tour a sostegno dei candidati in Lombardia e veneto, viene da chiedersi perché non abbiano fatto segretario del Pd Nicola Fratoianni. A sparacchiare qualche vuoto slogan buonista era capace pure lui, che in più non porta il trench, ha un decennio di esperienza parlamentare alle spalle e si capisce quando parla.

C’è stato un tempo, però, in cui la numero uno del Nazareno i conti con la realtà, volente o nolente doveva farli. Il problema è che spesso non tornavano. Come quando tra il 2021 e il 2022, con Stefano Bonaccini presidente dell’Emilia-Romagna e lei vice, la Regione ha dovuto restituire al ministero delle Infrastrutture 55,2 milioni di euro su 71,9 complessivi per l’incapacità di spenderli nei tempi previsti. Già così viene un po’ da ridere, considerate le continue accuse al governo sui ritardi nella messa a terra del Pnrr. Ma il bello è che quei soldi avrebbero potuto contribuire a contenere il disastro che si è scatenato sul territorio con le alluvioni di qualche giorno fa. Stando a quanto scritto dal direttore di Open, Franco Bechis, che si è andato a spulciare i rapporti della Corte dei Conti, nell’elenco degli interventi previsti in quei finanziamenti perduti c’erano pure «la manutenzione ordinaria per la sistemazione della rete idrografica del bacino Lamone», «i lavori di sfalcio, taglio vegetazione riprofilatura e ripristino sponde in frana tratti saltuari nei corsi d’acqua dei bacini del torrente Idice e del torrente Sillaro», «gli interventi urgenti d’emergenza nei corsi d’acqua dei bacini del torrente Idice», quelli «d’emergenza nei corsi d’acqua dei bacini del torrente Sillaro», nonché i «Lavori di sfalcio, taglio vegetazione riprofilatura e ripristino sponde in frana in tratti saltuari dei torrenti Idice, Savena, Sillaro, Quaderna, Gaiana e Fossatone» e i «Lavori di Manutenzione del torrente Ravone». Insomma, opere di manutenzione di gran parte dei corsi d’acqua esondati.

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Italia in un angolo sul Mes: perché la Ue spinge per la ratifica

martedì, Maggio 9th, 2023

Andrea Muratore

Nelle ultime settimane è aumentata notevolmente la pressione sull’Italia perché ratifichi la riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità (Mes) conclusa nel 2021 ai tempi del governo Conte II e che né l’avvocato pugliese alla guida del governo formato da Movimento Cinque Stelle e Partito Democratico né Mario Draghi e il suo esecutivo di unità nazionale hanno mai chiesto di ratificare esplicitamente.

Giorgia Meloni non sembra volersi discostare dalla linea dei suoi predecessori e, anzi, con l’ascesa di Fratelli d’Italia a forza guida del governo il no alla ratifica della riforma del Mes è diventata da frutto di un compromesso tra coalizioni divise un baluardo dell’esecutivo. La riforma prevede un contributo del Mes al Fondo di risoluzione unico (Srf) per le crisi bancarie ed è contestato da Fdi perché si ritiene che la sua approvazione riporterebbe d’attualità il Mes nel suo complesso e lo spauracchio per una possibile richiesta di ristrutturazione del debito italiano.

Curioso, dunque, che nel periodo segnato da una tensione bancaria notevole tra Svizzera e Stati Uniti che ha avuto code europee col caso Deutsche Bank l’Ue torni a fare pressione ad altissimi livelli su Roma perché l’itinerario della riforma sia compiuto. La stessa presidente della Banca centrale europea, la francese Christine Lagarde, ha sottolineato la volontà dell’Eurotower di vedere la riforma in vigore in tempi brevi parlando con il ministro dell’Economia e delle Finanze Giancarlo Giorgetti al recente Ecofin.

La riforma del Mes aggiungerebe un “terzo grado” di giudizio alla risoluzione delle crisi più gravi in ambito bancario nell’Europa a Ventisette. Ad oggi si partirebbe col bail-in che farebbe pagare a obbligazionisti e titolari di conti correnti notevoli il costo della risoluzione di uno stato di crisi e, in caso di insufficiente disponibilità di risorse, il Srb interverrebbe scaricando le sue cartucce finanziarie sull’istituto in crisi per tenerlo a galla, proteggerlo da una fuga di capitali, evitarne il dissesto e prevenire il contagio.

Per l’analista economico Giuseppe Liturri il timore è che senza volerlo dire esplicitamente la Bce preveda il rischio di un dissesto finanziario tale da dover richiedere l’aiuto del Mes al Srb: “Potrebbe essere imminente un dissesto bancario di dimensioni tali dover richiedere dapprima il bail-in di obbligazionisti e depositanti oltre 100 mila euro fino al 8% del passivo della banca. Tale sacrificio non dovrebbe essere sufficiente a riequilibrare attivo e passivo al punto che dovrebbe intervenire il Srf, i cui circa 60 miliardi non dovrebbero bastare per soccorrere la banca”, nota Liturri su StartMag. “A quel punto sarebbe necessario il prestito del Mes al Srf per intervenire come autorità di risoluzione e tenere la banca”, o le banche interessate da un’eventuale crisi, “in piedi“. Tale solerzia da parte di Lagarde confliggerebbe, dunque, con l’affettata serenità mostrata dopo la tempesta finanziaria su Credit Suisse che ha portato l’ex governatrice del Fondo Monetario Internazionale a definire “infondate” le preoccupazioni per un contagio.

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Il sondaggio che beffa la sinistra subito dopo il Primo maggio

martedì, Maggio 9th, 2023

Luca Sablone

Sale il centrodestra, cala il Pd: beffa per la sinistra nella settimana dell'1 maggio

La distanza tra la sinistra e il mondo dei lavoratori è sempre più marcata. A testimoniare la lontananza tra i due mondi è l’analisi che può essere effettuata alla luce dei dati emersi dall’ultimo sondaggio di Swg per La7. Le principali coalizioni della politica italiana si presentano con situazioni opposte: nella settimana dell’1 maggio il centrodestra cresce nelle intenzioni di voto, mentre la sinistra perde terreno e resta indietro. Una vera e propria beffa per chi si professa paladino delle lotte a favore degli operai.

Il boom di FdI, il calo del Pd

La rilevazione conferma il netto vantaggio di Fratelli d’Italia, che resta la formazione politica con maggiori preferenze: il partito di Giorgia Meloni nel giro di una settimana incassa un ottimo +0,7% e si porta al 29,5%. Trend del tutto differente per il Partito democratico, che invece si sgretola dello 0,4% e cala al 21,1%. Ne approfitta il Movimento 5 Stelle: i grillini vantano una variazione positiva dello 0,3% che porta loro al 15,6%.

Non si registrano novità per la Lega di Matteo Salvini, stabile al 9%. Lieve flessione per Forza Italia: gli azzurri perdono lo 0,2% e si attestano al 6,6%. Quello dei forzisti è comunque un margine ampio rispetto ad Azione di Carlo Calenda, che perde per strada lo 0,2% e scende al 4,1%. Le liti interne al Terzo Polo e la rottura della strada verso il partito unico continuano dunque a penalizzare l’ex ministro dello Sviluppo economico.

Infine si trovano le formazioni politiche che possono contare su un consenso minore rispetto ai partiti tradizionali: Verdi-Sinistra italiana al 3,3% (+0,1%), Italia Viva di Matteo Renzi al 2,8% (+0,3%), +Europa di Emma Bonino al 2,4% (+0,1%), Per l’Italia con Paragone all’1,8% (-0,3%) e Unione popolare all’1,6% (-0,2%). Il peso delle altre liste ammonta al 2,2%, in calo dello 0,2%. Scende del 2% la quota di chi non si esprime (34%).

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Se Putin festeggia la liberazione con i suoi generali da operetta

martedì, Maggio 9th, 2023

Domenico Quirico

Gli anniversari, le celebrazioni pubbliche hanno un loro odore, una sorta di alito soprannaturale che forse i loro sacerdoti neppure colgono. Che odore ci sarà oggi sulla Piazza rossa durante la sfilata che ricorda la vittoria nella seconda guerra mondiale? Certo sfileranno carri armati rombanti, missili paurosamente enigmatici come dinosauri, quadrate legioni di fanti, “specnaz”, cadette alternate a ceffi marziali, mobilitazioni quasi epilettiche, veterani grigi come ceneri di storie spaurite.

Guerra Russia-Ucraina, le notizie di oggi in tempo reale

Odore di gloria, di potenza, di forza dunque? Quello che si annuncia anche nelle Alte Sfere è semmai uno sfinimento generale che è il nome scientifico della tristezza. Un anno dopo l’aggressione all’Ucraina, nella stessa piazza, l’odore che si respira è di muffa, di ragnatele, zaffate di rassegnazione, di impotenza. L’odore dei regimi in balia alla decadenza senza potervi porre rimedio. Nella piazza l’unica rimembranza circondata da aure fatidiche beh!, pare proprio la mummia di Lenin. La parata è la vetrina di un negozio dove si vendono cose nuove che sembrano vecchie ma che comunque non si possono comprare per i prezzi troppo alti. La vecchia Urss brezneviana, insomma. Qualcosa che ha già appiccicato addosso il soccombere alla peste dell’oblio. Per i regimi autoritari è peggio che subire una sconfitta militare o diplomatica. Da quelle si risorge, dall’altra no. Un anno fa ci si interrogava, in modo un po’ grottesco per la verità, su quale poteva esser la sorpresa che Putin avrebbe infilato nel suo discorso, alcuni ipotizzavano che avrebbe annunciato una unilaterale fine della operazione speciale. I silenzi del “vozhd”, del duce supremo, allora erano interpretabili come astuzie subdole, raffinate che nascondevano terribili colpi di scena, armi segrete, ferinità diaboliche. Un anno dopo l’apoteosi di questo ermetismo è il nulla da dire. Ogni parola, ogni gesto anche i più naturali, oggi, acquisteranno il carattere spettrale del vuoto. Alla vigilia di un altro nove maggio forse il dato più preoccupante per il futuro è che nessuna sorpresa è possibile, che non ci saranno svolte palingenetiche, passi indietro o passi avanti. La guerra continuerà orribilmente naturale, tragedia da cui nessuno è esentato, in un mondo quotidianamente arenato attorno ad essa, occupata a straziarsi in un ossesso scrutinio di sé. Ci si appiglia alla “controffensiva” ucraina come a un palpito liberatorio in un copione piatto. Perfino i russi sembrano, per paradosso, affidarsi alla controffensiva, poiché l’attacco nemico restituirebbe loro una parte, difendersi, resistere, al di là del rituale insistere su bombardamenti ciechi.

Al secondo appuntamento con l’impegnativo anniversario con la Vittoria l’autocrazia putiniana somiglia al moribondo regno borbonico di fronte a Garibaldi. Quando le cose vanno male gli assolutismi ancora vitali reagiscono con la ferocia, trovano colpevoli veri o finti. E punirli non basta più, bisogna costruire rituali e dannazioni che siano peggio della morte, trasformarli in messaggi per spaventare. Nulla di tutto questo è accaduto a coloro che oggi sfileranno o saranno in prima fila sulla tribuna d’onore con i loro carichi di medaglie appesi a ventri ben torniti, i marescialli, i generali, gli ammiragli, i cortigiani in uniforme che sembrano aver addosso qualcosa di guasto. Certo non sono più i tempi staliniani con gli eroi definitivamente retrocessi di fronte a spicci plotoni di esecuzione per “tradimento’’. Ma trascinarli sul banco degli imputati per incapacità, in prigione: questo sì. In prigione, non in pensione.

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Povero stagista: le spese superano i compensi anche del triplo. Nel resto d’Europa cifre fino a 5 volte più alte

martedì, Maggio 9th, 2023

PAOLO BARONI

ROMA. Grama, davvero grama la vita dello stagista, al punto che spesso non conviene nemmeno accettare un’offerta o scervellarsi per individuare tra le tante quella più interessante. Perché anche nelle città dove i compensi sono più alti, fra affitto e costo dei consumi, le spese per vivere in trasferta inseguendo il proprio sogno professionale possono anche arrivare a più del doppio del compenso mensile. Rendendo praticamente impossibile l’impresa dei tanti giovani, e sono migliaia, che in questo modo cercano di imparare in concreto un mestiere nella speranza poi di trovare più facilmente un’occupazione.

Il caso più eclatante è quello di Milano, la città italiana dove tra l’altro è da sempre più alto il numero delle posizione aperte: a fronte di uno stipendio medio per gli stage di 669 euro al mese bisogna infatti mettere in conto in media 1.299 euro per l’affitto – a riprova che sotto la Madonnina questa voce ha costi esorbitanti – e 207 euro di spese per consumi. Il totale fa 1.506 euro con uno squilibrio entrate/uscite che sfiora gli 840 euro pari al 125% del compenso. Lo stesso vale per Roma dove pure lo stipendio medio è più alto (792 euro al mese) ma dove il totale delle spese arriva a quota 1.204 euro con uno squilibrio di 412 euro (+52%). Più contenuto, ma sempre in rosso per circa 100 euro, anche lo squilibrio di uno stage a Torino. Al Sud il costo della vita, come è noto, è molto più basso, ma anche le occasioni di stage sono certamente minori.

Gli stage, salvo sorprese, come è noto, sono ottimi modi per dare il via alla propria carriera. Ma qual è il posto migliore per cercare uno stage? «Business Name Generator», che fa parte del gruppo di performance marketing Marketzoo, ha analizzato 32 città italiane considerando il numero di opportunità di stage, lo stipendio medio, le attrazioni della città e il costo medio della vita, per determinare la località migliore dove cercare di dare inizio alla propria carriera.

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Riforme, la scelta di Meloni: “Premier scelto dal popolo. Avanti da soli se l’opposizione non ci sta”

martedì, Maggio 9th, 2023

Federico Capurso, Ilario Lombardo

ROMA. Prima ancora di sedersi al tavolo, Giorgia Meloni lancia un avvertimento alle opposizioni chiamate a un confronto, oggi alla Camera, sulle riforme costituzionali. «Vorrei una riforma il più possibile condivisa – dice la premier dalla tappa elettorale di Ancona –, ma il mandato per farla l’ho ricevuto dal popolo e io tengo fede agli impegni». Il messaggio, diretto al Movimento, al Pd e a quel che fu il Terzo Polo, la premier lo ripete una seconda volta, per essere certa che arrivi ai destinatari: «Non accetto atteggiamenti aventiniani o dilatori».

Un disegno di legge è già pronto. Prevede l’elezione diretta del presidente del Consiglio e il mantenimento dei poteri attuali del presidente della Repubblica. Naturalmente è stata prevista anche una clausola di salvaguardia: la riforma entrerebbe in vigore dal 2029, per non intaccare le prerogative del Capo dello Stato. «Gli italiani devono poter eleggere direttamente chi li governa», dice anche Matteo Salvini. Insomma, si parla di quel premierato che le opposizioni hanno già bocciato nel primo round di confronti con il governo, proponendo invece le loro alternative: dal cancellierato dei Dem al sindaco d’Italia d’ispirazione renziana. La ministra per le Riforme Elisabetta Casellati aveva fatto notare al Pd che il loro cancellierato intaccherebbe le prerogative del Quirinale più di un premierato, e aveva chiesto ai Cinque stelle come possono, loro che si dicono un movimento di popolo, essere contrari all’elezione diretta del premier. Lo aveva fatto notare, senza però riuscire a convincerli.

Sotto il palco di Ancona, il reggente di Forza Italia, Antonio Tajani, pone però una questione destinata a durare più a lungo dell’incontro di oggi: «Le riforme le vogliamo fare con tutti, ma se poi le opposizioni si dividono, come facciamo?». Ecco, l’idea inizia a solleticare qualcuno al governo: sfruttare le difficoltà delle opposizioni nel fare fronte comune e da lì provare intavolare, magari, un dialogo con Azione e Italia viva. Non è un caso che la notizia dell’assenza di Renzi dalla delegazione di Iv che oggi siederà al tavolo con Meloni sia stata accolta malissimo nelle file di Fratelli d’Italia: «Uno sgarbo», fanno sapere. Ed è altrettanto significativo che la segretaria del Pd, Elly Schlein, abbia già telefonato a tutti gli altri leader di minoranza per tentare un coordinamento.

Meloni ha un’idea precisa sul metodo che intende usare per lavorare alla sua riforma istituzionale. «Un obiettivo di legislatura», l’ha definita ancora pochi giorni fa, fissata con una tempistica non stringente, proprio per evitare di inciampare nella fretta che, tra le altre cose, fu fatale a Matteo Renzi, azzoppato e costretto a lasciare Palazzo Chigi dopo il fallito referendum del 2016. Per la premier tutto dipenderà dall’atteggiamento che assumeranno le opposizioni. Il traguardo, ribadirà oggi Meloni ai partiti, «deve essere la stabilità dei governi». Niente bicamerale, però, e nessuna commissione Costituente. Meloni, in accordo con Casellati, vuole evitare quelle formule che già in passato si sono spesso trasformate in una palude che inghiottiva ogni tentativo di riforma. Si andrà in Aula e poi, se necessario, si affronterà il referendum.

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