Archive for Maggio, 2023

Il fantasma presidenziale che si aggira per l’Italia

domenica, Maggio 7th, 2023

MASSIMO GIANNINI

Dunque ci risiamo. Il fantasma “presidenzialista” è di nuovo tra noi, come è già successo almeno altre quattro volte nell’eterna transizione italiana. Dopo le fumose Commissioni demitiane del ‘90 e le avventurose Bicamerali dalemiane del ‘98, i pastrocchi cesaristi di Berlusconi nel 2005 e i sogni medicei di Renzi nel 2016, adesso è Giorgia Meloni a riaprire il solito, sconclusionato e velleitario “cantiere delle riforme” (che dalle nostre parti ricorda la Sagrada Familia di Gaudì, ma senza averne ovviamente la sontuosa maestà). È un investimento politico che non può farle lucrare dividendi immediati. Non c’è il tempo né il modo per chiudere in fretta un accordo con le opposizioni, né per imporre alle Camere un testo di legge fatto e finito.

Ma con questa mossa la Sorella d’Italia costruisce la sovrastruttura ideale che le consente di attraversare dall’alto l’intera legislatura, dando un orizzonte e un senso compiuto alle tre fasi sulle quali sta strutturando il nucleo duro del suo “governo personale” dentro il “governo nazionale”. Come ha scritto Lucia Annunziata: il controllo totale dell’economia attraverso i vertici delle cinque grandi aziende controllate da Tesoro (alle quali ora si aggiunge anche la Rai e perfino l’Inps e l’Inail), la gestione diretta dei fondi del Pnrr attraverso la “Struttura di missione” trasferita a Palazzo Chigi, l’Opa sul ceto medio attraverso l’appropriazione della Festa del Primo Maggio, celebrata contrapponendo simbolicamente “il governo che lavora” al “sindacato che manifesta”. Ora, a inverare e a dare forma “sistemica” a queste singole tappe del percorso di consolidamento della leadership meloniana, si aggiunge il “presidenzialismo”.

Qualunque cosa significhi, perché ancora non sappiamo se nella versione della nuova destra post-missina questa forma di governo di cui il Belpaese discute da decenni penda più verso il modello americano, quello francese o quello tedesco. O se invece non scivoli, com’è probabile e com’è sempre accaduto finora, verso un patchwork tutto italiano, studiato e cucito a misura del Capo di turno e della maggioranza del momento. Diciamolo subito, a scanso di equivoci: la presidente del Consiglio ha pieno diritto di indicare al Paese un suo disegno riformatore, e di metterlo all’ordine del giorno del confronto politico. Almeno in questo, c’è coerenza rispetto alle promesse dei “Patrioti”. Lo aveva detto lei stessa, nel suo discorso programmatico per la fiducia parlamentare.

Conviene rileggere quel passaggio, scandito in aula il 25 ottobre: «Siamo fermamente convinti del fatto che l’Italia ha bisogno di una riforma costituzionale in senso presidenziale, che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare. Una riforma che consenta di passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”. Vogliamo partire dall’ipotesi del semipresidenzialismo sul modello francese, che in passato aveva ottenuto un ampio gradimento anche da parte del centrosinistra, ma rimaniamo aperti anche ad altre soluzioni. Vogliamo confrontarci su questo con tutte le forze politiche presenti in Parlamento, per giungere alla riforma migliore e più condivisa possibile. Ma sia chiaro che non rinunceremo a riformare l’Italia di fronte a opposizioni pregiudiziali. In quel caso ci muoveremo secondo il mandato che ci è stato conferito su questo tema dagli italiani: dare all’Italia un sistema istituzionale nel quale chi vince governa per cinque anni e alla fine viene giudicato dagli elettori per quello che è riuscito a fare». Questo preambolo meloniano, sul quale presumibilmente si concentrerà il primo incontro di dopodomani con il Pd di Elly Schlein, pone alla politica e al Paese due grandi questioni.

Partiamo dalla prima questione: il merito. Con buona pace della ministra Casellati, l’era delle ambigue fumisterie è finita. La maggioranza dica con chiarezza qual è la forma di governo che ha in mente, se davvero ne ha una. Si può eleggere direttamente un presidente di uno Stato Federale bilanciato da un Congresso forte e da una Corte Suprema ancora più forte, come avviene negli Stati Uniti. Oppure si può eleggere direttamente un presidente della Repubblica che tuttavia “coabita” con un capo del governo, come fanno in Francia. Si può scegliere un Cancelliere, che convive con un due Camere essenziali a partire da quella che rappresenta i Länder, come si fa da decenni la Germania. Oppure si può votare direttamente un presidente del Consiglio, immaginando di rafforzare i suoi poteri molto più di quanto non è accaduto finora. Ognuno di questi sistemi ha caratteristiche radicalmente diverse, come insegnava Giovanni Sartori. Quale può adattarsi meglio a una realtà come quella italiana, a prescindere dagli equilibri politici di questa fase?

È questa la domanda cruciale alla quale dovrebbe rispondere Meloni. È chiaro, e non da oggi, che in Italia la macchina delle istituzioni gira a vuoto. Le coalizioni faticano, i governi traballano, il Parlamento è poco più che un votificio. Ci salvano solo gli organi di garanzia, Quirinale e Consulta. E qui le colpe sono bipartisan, visto che la sinistra, quanto a mancata volontà riformatrice e ri-costituente, non è meno responsabile della destra. Per questo è giusto pensare finalmente a una seria e buona riforma. Ma cos’è una riforma costituzionale “che garantisca stabilità e restituisca centralità alla sovranità popolare”? Che significa passare da una “democrazia interloquente” a una “democrazia decidente”? In queste vaghe parole della Presidente risuona solo l’eco di una certa “volontà di potenza” che fu già del Cavaliere.

Se guardiamo alla pratica, possiamo dire che la svolta presidenzialista è quanto meno inattuale. Parafrasando Groucho Marx: il presidenzialismo è morto (come dimostra il mezzo golpe a Capitol Hill degli sciamani di Trump), il semipresidenzialismo è quasi morto (come testimonia la vandea previdenziale che nelle piazze e nell’Assemblée Nationale sta schiantando Macron), e anche il cancellierato non si sente molto bene (come conferma l’intensità delle proteste sociali che anche nel Bundestag zavorrano Scholz). Se guardiamo alla teoria, ognuna delle ipotesi in campo può dare “stabilità”: presidenzialismo, semipresidenzialismo, premierato inglese, cancellierato tedesco. Ma intanto bisogna scegliere, perché “chi non distingue, pasticcia” (ancora Sartori). E poi quel risultato si raggiunge solo grazie a due presupposti irrinunciabili: un assetto costituzionale-istituzionale-elettorale coerente, un meccanismo di check and balance efficiente. Su questo, nulla sappiamo della Dottrina dell’italica fratellanza. Ed è un dramma. Perché trasformare in presidenziale una democrazia parlamentare, senza un adeguato bilanciamento dei poteri e un collaudato sistema elettorale, mette a repentaglio la stessa democrazia. Facciamo due esempi.

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Carlo III, il sovrano pensoso riuscirà ad essere popolare?

domenica, Maggio 7th, 2023

di Beppe Severgnini

L’hanno descritto apatico, distaccato, stanco. No: Carlo III era pensoso. Sotto la pioggia di Londra – il cielo inglese non perdona neppure i reali – è andato in scena uno spettacolo per il mondo e un esame di coscienza per la famiglia reale britannica: saremo ancora degni della corona, del ruolo, dei privilegi, della nostra storia? La domanda è questa. Carlo, uomo intelligente, lo sa.

Ciò che è accaduto alla famiglia reale negli ultimi trent’anni non è stato esemplare, e alcuni sudditi hanno iniziato a metterla in discussione. Non molti. Sono molti di più, e più insidiosi, coloro che stanno perdendo interesse nell’istituzione. L’anacronismo di una cerimonia come quella di ieri è stato cancellato dalla bellezza delle coreografie, dalla forza dei simboli, dalla potenza della musica, dalla dolcezza dei ricordi collettivi. Ma tutto questo, se i reali non meritano ciò che il popolo gli concede, non basterà.

Le monarchie raramente vengono cacciate: si eliminano da sole. Carlo ne è consapevole, e tutto lascia pensare che sarà un buon sovrano, attento e pratico. «To serve, not to be served». Per servire, non per essere servito. Queste parole, pronunciate dall’arcivescovo di Canterbury e ripetute dal re, sono la chiave del futuro. Se la monarchia servirà, resterà. Se si renderà irrilevante – un versione pomposa di Hollywood – verrà dismessa. Harry dovrebbe spiegarlo alla moglie Meghan, al ritorno in California.

La figura solitaria del duca di Sussex non ha tolto festosità all’evento. Gli inglesi hanno un enorme talento per le cerimonie, bisogna dire (se lo trasferissero al governo, guiderebbero l’Europa e non l’avrebbero abbandonata). Lo spettacolo della Coronation è riuscito ad affascinare – a commuovere, perfino – un mondo in grande cambiamento. Nell’Occidente che mette continuamente in discussione sé stesso – passato, tradizioni, gerarchie, genere – la monarchia britannica appare immune.

Certo, è stata cauta nell’affrontare i tempi nuovi. La varietà di etnie presenti ieri nell’abbazia di Westminster – a cominciare dal primo ministro in carica – era impressionante e ammirevole. I personaggi controversi, come il principe Andrea, silenziosamente messi da parte. Dogmi e princîpi, avvolti in un’attenta bambagia verbale. Era bizzarro ascoltare Carlo che assumeva la guida della chiesa anglicana, e prometteva d’essere un buon protestante, quand’è noto il suo ecumenismo. «Sarò il difensore delle fedi», ha detto più volte. Quel plurale i suoi antenati non l’avrebbero usato.

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Giorgetti, la (nuova) linea sulle nomine: entro martedì bisogna decidere sul comandante della Guardia di Finanza

domenica, Maggio 7th, 2023

di Federico Fubini

Giorgetti, la (nuova) linea sulle nomine: entro martedì bisogna decidere sul comandante della Guardia di Finanza

E venne il giorno in cui Giancarlo Giorgetti tirò una riga. Si capirà presto se sia di color rosso cupo la riga del ministro dell’Economia, dunque invalicabile, o in qualche sfumatura di arancione. Ma per ora è lì e ha impedito al generale Andrea De Gennaro, comandante in seconda della Guardia di Finanza, di essere nominato al vertice del suo corpo venerdì. A questo punto il tempo non è molto, per il governo, per evitare una situazione piuttosto imbarazzante. Mercoledì prossimo il comandante generale uscente delle Fiamme Gialle, Giuseppe Zafarana, dev’essere nominato presidente dell’Eni. E poiché Zafarana non può presentarsi all’assemblea della società come figura di vertice di una forza ispettiva, il passaggio di poteri alla Guardia di Finanza è già fissato per dopodomani alle ore 17. Restano al governo una cinquantina di ore. Se per quel momento Giorgetti stesso, il ministro della Difesa Guido Crosetto e la premier Giorgia Meloni non si saranno messi d’accordo su un profilo, il numero due delle Fiamme Gialle De Gennaro diventerebbe comandante generale ad interim in attesa della sua stessa nomina o — circostanza per lui più spiacevole — di quella di un collega.

La linea

Ma, appunto, per ora la linea tirata da Giorgetti resta. Non è né un veto né l’espressione di una riserva sul profilo specifico di De Gennaro: non sarebbe nello stile del ministro né meritato da un alto ufficiale dalla carriera impeccabile. Il ministro tiene a far sapere che con Meloni sta lavorando in armonia. Ma De Gennaro per ora è in una short list — dovrebbe includere tre fra i quattro generali Fabrizio Carrarini, Fabrizio Cuneo, Francesco Greco e Umberto Sirico — che hanno presentato a Meloni i due ministri con diretti poteri in questa materia: Giorgetti stesso e Crosetto. Persone vicine al governo spiegano, in modo caritatevole, che il rinvio delle scelte si spiega solo con l’esigenza della premier di ascoltare tutti i candidati. Alcuni estranei alla Lega, il partito di Giorgetti, sostengono che il ministro dell’Economia un mese fa sarebbe stato d’accordo su De Gennaro, ma da allora avrebbe frenato. Nomine

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Forza Italia, nel discorso faticoso ma potente di Berlusconi l’eredità futura dei «santi laici»

domenica, Maggio 7th, 2023

di Paola Di Caro

Il leader cita il passato, gli ideologi del ’94. E per un giorno il partito appare unito. Un discorso potente, molto umano, perché parla forse per la prima volta a chi ci sarà anche dopo di lui

Forza Italia, nel discorso faticoso ma potente di Berlusconi l’eredità futura dei «santi laici»

La curiosità è diventata quasi morbosa quando alle 13, perfettamente puntuale come da programma, il leader fa in un video (registrato venerdì) la sua apparizione semi-divina al popolo azzurro. Al mondo che, in verità, l’aveva già considerato parte del passato, sopraffatto da una malattia durissima che spesso non lascia scampo a fisici più giovani e più forti.

Lui non lo nega, quello che è stato quasi un abbraccio con la morte: «Eccomi, sono qui per voi. Per la prima volta dopo un mese, con camicia e giacca», esordisce toccandosi quella che negli anni è quasi diventata una divisa blu notte, con spilletta di Forza Italia a spezzare lo scuro. Un abito che spesso lo ha fasciato fin troppo, che ora sembra quasi stargli largo, che ospita un corpo sofferente il cui viso sempre sorridente — anche quando lo sforzo lo fa sembrare una smorfia — non nasconde dolore.

Berlusconi truccato pesantemente, ma stavolta per rispetto altrui più che per vanità, parla con voce affaticata e accorata, a tratti flebile. Due volte — in lunghi venti minuti — si ferma per bere acqua da un bicchiere alla sua destra, poggiato accanto a tre evidenziatori e due penne, mentre a sinistra campeggiano due suoi libri, «Discorsi per la democrazia» e «L’Italia che ho in mente». Una volta sbuffa. Ogni tanto inciampa in una parola, quasi masticandola.

Ma il suo è un discorso potente, molto umano, perché parla forse per la prima volta a chi ci sarà anche dopo di lui. Sia chiaro, lui ha tutte le intenzioni di restare, a lungo. Quando racconta il momento più duro — la notte in cui si sveglia al San Raffaele e chiede «che ci faccio qui, come mai sono qui, per cosa sto combattendo qui?» e «la mia Marta che mi vegliava mi risponde “sei qui perché hai lavorato tanto, forse troppo, ti stai impegnando molto per salvare la nostra democrazia e la nostra libertà”» — Silvio Berlusconi disegna già di sé quello che vorrebbe passasse ai posteri. Un uomo che ha sfidato tutto e tutti, il «comunismo» il suo primo «nemico», per salvare «l’Italia, il Paese che amo».

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Il centrodestra apre il dialogo sulle riforme: banco di prova per la sinistra

sabato, Maggio 6th, 2023

Santi Bailor

Presidenzialismo e autonomia, sono due parole chiave delle riforme istituzionali proposte dal centrodestra agli italiani nel programma elettorale del 2022 e su cui il governo Meloni oggi procede con tenacia e ragionevolezza. La tenacia di credere in una modernizzazione del Paese e la ragionevolezza di parlarne con le opposizioni seppure sinora – da quelle parti – siano arrivate soprattutto critiche. E appunto nell’ottica della ragionevolezza e del confronto la presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha deciso di convocare per martedì prossimo le opposizioni e cominciare un primo giro di dialogo su quale presidenzialismo adottare e pure sullo strumento da preferire per realizzarlo.

“Facciamo insieme le riforme”. Meloni si prepara al primo faccia a faccia con Schlein

“Facciamo insieme le riforme”. Meloni si prepara al primo faccia a faccia con Schlein

L’apertura del centrodestra ai suoi oppositori, oltreché una scelta politica di responsabilità e coesione nazionale, è anche l’occasione per le sinistre e per il Partito democratico di finirla coi continui tormentoni su una destra pericolosa (che non esiste) e di guardare finalmente alla realtà, lasciando il Novecento alla storia e badando al presente.

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Per una nuova comunicazione della scienza

sabato, Maggio 6th, 2023

Gianni Canova e Marco Montorsi |

Caro direttore, il mondo dell’informazione «disintermediata» è un mondo nel quale è venuta meno la tradizionale articolazione del principio di autorità. Non c’è pulpito che non sia stato messo in crisi dall’incalzare di una comunicazione «bottom up», in un contesto in cui i mezzi di comunicazione di massa sono attraversati da una rivoluzione permanente e chiunque può generare contenuti nuovi. Anche se è forte la tentazione di sfiorare le corde del rimpianto, bisogna sapere che ci sono opportunità straordinarie: se qualcuno ha qualcosa da dire, se ha competenze e la capacità di comunicarle in modo semplice ed efficace (che non è un dono innato ma il frutto di un sapiente allenamento), oggi può cercare un pubblico con relativa facilità. Ma ci sono anche pericoli altrettanto straordinari. Questo è tanto più vero quanto più ci avviciniamo a temi e questioni d’immediato interesse della persona. La salute, per esempio.

La relazione fra medico e paziente, ispirata per lungo tempo a un modello unilaterale , si è profondamente modificata negli ultimi anni richiedendo al personale sanitario di utilizzare – e a volte apprendere – un nuovo modello comunicativo, più interattivo ma comunque sempre improntato a superare una netta asimmetria informativa. Nel momento in cui va in crisi il principio di autorità medesimo, però, i depositari di conoscenze altamente specializzate non necessariamente fanno storia a sé. Il medico è sollecitato a comunicare non solo col paziente, ma in generale con l’opinione pubblica, a condividere con essa informazioni e conoscenza. E tuttavia, nel momento in cui apre un account social, uno vale uno: anche lui, a prescindere dal suo bagaglio di conoscenze tecniche e specialistiche.

L’esperienza della pandemia non va dimenticata. È stata, sul piano della comunicazione, un’esperienza contraddittoria. La presenza pervasiva dei social porta con sé il rischio di informazioni non filtrate e non selezionate, «fake news», che se possiamo riportare alla categoria del pittoresco quando si tratta di terrapiattismo o cospirazioni rettiliane, diventano problemi sociali quando riguardano, per esempio, terapie non vagliate scientificamente o «sperimentazioni» proposte senza che abbiano avuto riscontro sperimentale, empirico, regolatorio. Dall’altra, l’emergenza sanitaria ha reso mediaticamente spendibile, per una volta, scienze che nel nostro Paese sono tradizionalmente ai margini dei grandi circuiti dell’informazione, come ad esempio infettivologia, immunologia ed epidemiologia. Proprio per questo tali circuiti sono privi del vocabolario necessario per discuterne in modo ponderato e finiscono per fare la cosa più semplice, economica e pericolosa: farne materiale da talk show. Riducendo cioè le conoscenze specifiche dell’esperto, del clinico, dello scienziato al livello di opinione non supportata da dati. Quando l’opinione pubblica ha cercato visioni autorevoli, in un momento di grande tensione e pericolo, quell’autorità è stata di nuovo minata alla radice.

Sono queste le ragioni che hanno portato i nostri atenei e noi per primi a ragionare su una collaborazione sul terreno della comunicazione della scienza e della medicina. I saperi scientifici sono un serbatoio di conoscenze ineludibile per capire l’oggi e costruire il domani. La partecipazione di medici e scienziati al dibattito pubblico è necessaria, anche se non siamo sotto scacco di una malattia emergente, ma richiede conoscenze delle logiche dei media e consapevolezza dell’impatto che le dichiarazioni pubbliche possono avere. I professionisti dell’informazione e comunicazione debbono, simmetricamente, conoscere e frequentare il metodo scientifico, anche per imparare a non ridurre l’informazione scientifica a istogrammi e infografiche, a numeri la cui potenza retorica supera oggi quella di qualsiasi parola ma rischia di produrre più fraintendimenti che informazione. A non scambiare, insomma, la scienza (che è un metodo) per l’idolatria del dato decontestualizzato.

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Quando l’America non fa più paura sono gli europei a rischiare tutto

sabato, Maggio 6th, 2023

Lucio Caracciolo

L’Italia ha un problema: l’America non fa più paura ai suoi nemici. A prima vista, problema americano. Lo è certo. Però è soprattutto affare nostro e di tutti i satelliti dell’informale impero a stelle e strisce configurato in Europa dalla Nato. Perché Russia e Cina non sembrano così pazze da attaccare frontalmente gli Stati Uniti – almeno per ora. Ma gli anelli più esposti della catena strategica a guida americana non sono al sicuro. È il caso dell’Ucraina oggi, potrebbe esserlo di Taiwan domani.

Nel primo caso, l’America ha stabilito di non voler fare esplicitamente la guerra alla Russia. Però il sostegno decisivo a Kiev assomiglia molto a quel che ha detto di non volere. Nel secondo, alleati e amici asiatici di Washington – tutti clienti economici della Cina – sono sempre meno certi della disponibilità americana a ingaggiare uno scontro fuori tutto con Pechino pur di difenderli. E si regolano di conseguenza. Armandosi. Per dirla con un alto ufficiale della Marina giapponese: ieri era il tempo dei delfini, oggi degli squali.

Se come afferma il generale John R. Allen, uno dei più influenti strateghi americani, la deterrenza americana “non sta funzionando”, chi ci garantisce in caso di aggressione? Perché è un fatto, scrive Allen nel prossimo volume di Limes (“Il bluff globale” in uscita il 13 maggio), che «i nostri avversari, principalmente Russia e Cina, non sembrano intimiditi né dalla prospettiva di subire una rappresaglia né dal rischio di non raggiungere i loro obiettivi, sicché entrambi hanno preso l’iniziativa nei nostri confronti».

Ucraina – Russia, le news sulla guerra di oggi 6 maggio

A forza di tracciare “linee rosse” con l’inchiostro simpatico, cui infatti nessuno fa caso, Washington ha messo in questione il crisma essenziale di qualsiasi potenza: la sua credibilità. Crisi anticipata nel 2004 da Sam Huntington, celebre teorico dello “scontro di civiltà”, intitolando “Who are we?” un suo saggio sulle faglie etniche e culturali dell’America. Ma se ti chiedi chi sei, se dubiti di te stesso, come fai a pensare che chi ti osserva, amico o nemico, non dubiti di te? Se poi al rompighiaccio Huntington seguono vent’anni di americanissima letteratura dell’orrore sul declino a stelle e strisce, l’impressione che il Numero Uno sia sfidabile diventa senso comune.

E’ avviata una transizione egemonica in cui i dogmi del “mondo basato sulle regole”, ovvero della globalizzazione promossa dalla “superpotenza unica”, non sono più applicabili. O lo sono a spese dell’America. Tesi affermata dalla stessa amministrazione Biden. Il consigliere per la Sicurezza nazionale, Jake Sullivan, l’ha stabilito il 27 aprile. Finita l’epoca in cui a Washington si giurava che “l’integrazione economica avrebbe reso le nazioni più responsabili e aperte e l’ordine globale più pacifico e cooperativo. Non è andata così”. Si delineano nuove ricette geoeconomiche – tra cui forti dosi di capitalismo di Stato – e insieme una revisione strategica che impone agli Usa di limitare l’esorbitante impegno nel mondo per dedicarsi a lenire le ferite di casa. Quella che tre anni fa Sullivan già aveva battezzato “geopolitica per la classe media”. Non-geopolitica, in chiaro.

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Lollobrigida: «Rai commissariata? Nessuno al governo sta costringendo Fuortes ad andarsene»

sabato, Maggio 6th, 2023

di Monica Guerzoni

Il ministro: credo che la legge gli consenta di restare

Lollobrigida: «Rai commissariata? Nessuno al governo sta costringendo Fuortes ad andarsene»

«Nessun retroscena, questo governo è assolutamente trasparente».

In assoluta trasparenza, ministro Lollobrigida, come finirà lo scontro tra Fratelli d’Italia e Lega sulle nomine?
«Non ho registrato alcuno scontro, alcuna tensione tra noi e la Lega. Anzi, in Cdm si respirava un clima di grande serenità, abbiamo approvato tutto quello che c’era all’ordine del giorno».

Il rinvio delle nomine al vertice di Fiamme gialle e Polizia non è la conferma del braccio di ferro che Meloni e Mantovano hanno ingaggiato con Giorgetti e Crosetto?
«Non mi risulta che all’ordine del giorno ci fosse qualcosa che non è stato approvato».

La Lega ha esultato per aver stoppato il «blitz» di Meloni. Non le risultano nemmeno i contrasti con Crosetto?
«Non mi risulta alcun blitz e non ci sono stati rinvii. Ho visto in Cdm sia Guido e Giancarlo che Giorgia e Alfredo e non ho percepito alcuna tensione. Se prima c’è stato un confronto su temi fondamentali, si è concluso in maniera molto positiva, molto serena. Non c’è nulla che possa minare il rapporto franco, leale e di profondo rispetto tra Meloni e Crosetto, anche dovuto a una comprovata amicizia. E credo di poter dire lo stesso di Giorgetti».

Chi sarà il nuovo comandante della Guardia di finanza tra De Gennaro, Buratti, Lopez, Sirico?
«Non so se da qualche parte se ne sia discusso, so che giovedì a Palazzo Chigi c’è stata la visita del generale libico Haftar, incontro fondamentale per la gestione del problema immigrazione».

Il Pd prepara le barricate per stoppare la norma «ad personam» contro l’ad della Rai, Carlo Fuortes.
«Il ministro Sangiuliano ha rimosso una criticità che provocava una disparità di trattamento tra sovrintendenti italiani e stranieri. Non capisco la strana connessione che viene fatta con Fuortes e il San Carlo».

Non è vero che il decreto è stato pensato per silurare Fuortes, liberando per lui il teatro San Carlo di Napoli?
«No, aspetti. Fuortes, che è persona autorevole, può decidere se accettare o meno l’opportunità di guidare il San Carlo, nel caso si presentasse. È una sua valutazione. La malignità è nella testa di chi mette in connessione questa possibilità con il decreto sui soprintendenti».

Ma scusi, se è così Fuortes può decidere di restarsene un altro anno in Rai?
«A me risulta che nessuno lo abbia costretto ad andarsene e credo che la legge gli consenta di restare. Nessuno ha fatto una norma per commissariare la Rai, non c’è una azione diretta del governo».

Vuol dire che la lottizzazione o «melonizzazione» della Rai può attendere?
«Fuortes in teoria ha ancora un anno in Rai. È una persona in gamba e se volesse andare in un altro posto credo sia libero di farlo. Se invece si dovesse arrivare a una ricomposizione del cda, si farà con le regole e gli equilibri garantiti a ogni governo. Lo sa qual è l’unico atto grave mai rilevato in Rai?».

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Covid, stop all’emergenza. L’Oms: 20 milioni di morti

sabato, Maggio 6th, 2023

di Margherita De Bac

L’annuncio di Ghebreyesus dopo oltre tre anni di pandemia: «Resta il rischio di nuove varianti, non  abbassare la guardia».  Schillaci ricorda le quasi 190 mila vittime italiane: «In loro memoria dobbiamo potenziare l’assistenza»

Covid, stop all’emergenza.  L’Oms: 20 milioni di morti

 Da ieri, venerdì 5 maggio 2023, il Sars-CoV-2, virus micidiale che per 3 anni abbondanti ha messo a soqquadro il mondo, è un virus qualunque, come tanti. Senza trionfalismi, il capo dell’Organizzazione mondiale della sanità, l’Oms, ha annunciato la fine dell’emergenza pandemica.

Molto più di una dichiarazione formale alla quale in Italia e nel resto dei Paesi occidentali eravamo preparati considerato il diffuso declino dei casi. Significa che decadono le cosiddette international health regulations, le restrizioni dettate dalla massima autorità sanitaria globale, considerate vincolanti. Entriamo in una fase endemica. Il coronavirus responsabile del Covid non è sparito, ma non terrorizza più perché col passare del tempo ha perso aggressività di pari passo con i progressi della ricerca che ha approntato i vaccini.

L’emergenza fu dichiarata il 30 gennaio del 2020, sulla base di quello che stava accadendo in Cina, dove la situazione molto probabilmente era molto più grave di quella che il governo di Pechino faceva intendere. Da allora circa 20 milioni di morti (tanti ne ha stimati ieri l’Oms, a fronte dei 7 milioni riportati), l’economia mondiale a terra.

Ieri, durante la conferenza stampa nella sede di Ginevra, il capo dell’Oms Tedros Ghebreyesus non ha però suonato la fanfara: «È con grande speranza che pronuncio la parola fine. Tuttavia il Covid-19 non è finito come minaccia per la salute globale. Mentre parliamo migliaia di persone stanno lottando per la vita nelle unità di terapia intensiva. E altri milioni continuano a convivere con gli effetti debilitanti della malattia. Questo virus è qui per restare, permane il rischio di nuove varianti». Poi un’autocritica («Promettiamo ai nostri figli che non faremo mai più gli stessi errori») e un monito: «La cosa peggiore che si potrebbe fare è abbassare la guardia». Tedros Ghebreyesus ha così fatto suo il parere del comitato di esperti Oms sull’emergenza, favorevole a maggioranza ad apporre la parola fine.

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Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi rimangono mesi di vita: ho deciso di sposarmi»

sabato, Maggio 6th, 2023

di Aldo Cazzullo

La scrittrice parla della malattia, un tumore al rene: «Ho comprato una casa con dieci letti dove la mia famiglia queer può vivere insieme». La scelta: «Posso sopportare il dolore, non di non essere presente a me stessa. Ho trascurato i controlli per il Covid. Chi mi vuol bene sa cosa deve fare. Sono sempre stata vicina a Marco Cappato»

Michela Murgia: «Ho un tumore al quarto stadio, mi rimangono mesi di vita: ho deciso di sposarmi»
Michela Murgia, 50 anni

Michela Murgia, il suo nuovo, splendido libro, «Tre ciotole», si apre con la diagnosi di un male incurabile. C’è qualcosa di autobiografico?
«È pedissequo. È il racconto di quello che mi sta succedendo. Diagnosi compresa».

Lei scrive: «Carcinoma renale al quarto stadio». Non ci sono speranze?
«Dal quarto stadio non si torna indietro».

Il personaggio del suo libro però non vuol sentir parlare di «lotta» contro il male. Perché?
«Perché non mi riconosco nel registro bellico. Mi sto curando con un’immunoterapia a base di biofarmaci. Non attacca la malattia; stimola la risposta del sistema immunitario. L’obiettivo non è sradicare il male, è tardi, ma guadagnare tempo. Mesi, forse molti».

Cosa intende per registro bellico?
«Parole come lotta, guerra, trincea… Il cancro è una malattia molto gentile. Può crescere per anni senza farsene accorgere. In particolare sul rene, un organo che ha tanto spazio attorno».

Non può operarsi?
«Non avrebbe senso. Le metastasi sono già ai polmoni, alle ossa, al cervello».

Michela, lei sta dicendo una cosa terribile con una serenità che mi impressiona.
«Il cancro non è una cosa che ho; è una cosa che sono. Me l’ha spiegato bene il medico che mi segue, un genio. Gli organismi monocellulari non hanno neoplasie; ma non scrivono romanzi, non imparano le lingue, non studiano il coreano. Il cancro è un complice della mia complessità, non un nemico da distruggere. Non posso e non voglio fare guerra al mio corpo, a me stessa. Il tumore è uno dei prezzi che puoi pagare per essere speciale. Non lo chiamerei mai il maledetto, o l’alieno».

L’alieno lo chiamava Oriana Fallaci.
«Ognuno reagisce alla sua maniera e io rispetto tutti. Ma definirlo così sarebbe come sentirsi posseduta da un demone. E allora non servirebbe una cura, ma un esorcismo. Meglio accettare che quello che mi sta succedendo faccia parte di me. La guerra presuppone sconfitti e vincitori; io conosco già la fine della storia, ma non mi sento una perdente. La guerra vera è quella in Ucraina. Non posso avere Putin e Zelensky dentro di me. Non avrei mai trovato le energie per scrivere questo libro in tre mesi».

La morte non le pare un’ingiustizia?
«No. Ho cinquant’anni, ma ho vissuto dieci vite. Ho fatto cose che la stragrande maggioranza delle persone non fa in una vita intera. Cose che non sapevo neppure di desiderare. Ho ricordi preziosi».

Una delle sue altre vite la conosciamo: operatrice in un call center. Ne ha tratto un libro, «Il mondo deve sapere», che ha ispirato il film di Virzì con Sabrina Ferilli «Tutta la vita davanti». Le altre vite quali sono?
«Ho consegnato cartelle esattoriali. Ho insegnato per sei anni religione. Ho diretto il reparto amministrativo di una centrale termoelettrica. Ho portato piatti in tavola. Ho venduto multiproprietà. Ho fatto la portiera notturna in un hotel…».

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