Archive for Maggio, 2023

Il decreto Lavoro intrappola i rider: l’algoritmo delle app resta segreto

giovedì, Maggio 4th, 2023

PAOLO BARONi

Non solo il Decreto dignità, ma anche il Decreto Trasparenza emanato la scorsa estate dal ministro del Lavoro Andrea Orlando finisce nel mirino del governo. Anche questo rivisto profondamente, o se vogliamo smontato. Addirittura, segnala lo stesso Orlando, è stato cancellato il diritto dei rider e di chi in generale lavora per una piattaforma digitale di conoscere le regole dell’algoritmo che regola il loro lavoro. Un principio, che recependo la direttiva europea in materia di informazioni e obblighi di pubblicazione sui rapporti di lavoro, il governo precedente aveva voluto fissare in maniera chiara, stabilendo un diritto di accesso all’algoritmo a favore di chi lavora per una piattaforma. «Questo diritto oggi è stato cancellato dal governo che, dopo tante chiacchiere contro le multinazionali, si schiera dalla parte delle piattaforme digitali e contro i lavoratori» denuncia Orlando. «È una norma tremenda che ci fa tornare indietro anche rispetto alle sentenze sulla trasparenza algoritmica che abbiamo vinto nei confronti delle aziende del food delivery» commenta Tania Scacchetti della segreteria nazionale Cgil.

Da subito, la scorsa estate, il Decreto Trasparenza era stato oggetto di molte critiche da parte delle imprese che avevano lamentato l’eccessiva onerosità delle procedure. E a farsene portavoce, tra i primi, era stata proprio l’attuale ministro del Lavoro Marina Calderone, che all’epoca vestiva i panni di presidente dei Consulenti del lavoro ed aveva criticato senza mezzi termini l’operato di Orlando e l’obbligo per i datori a predisporre per ogni dipendente un «corposissimo documento cartaceo» anziché prevedere più semplici rimandi a norme e contratti. Che è quello a cui punta ora il governo col nuovo Decreto lavoro, puntando a «liberare il datore di lavoro da gravosi obblighi in materia di comunicazioni ai lavoratori», come recita la relazione tecnica al nuovo dl, e dall’altro a rendere disponibili in maniera «più immediata ed agevole possibile» le informazioni ai lavoratori. L’articolo 25 del Dl Lavoro definisce la lista delle informazioni che le imprese sono tenute a comunicare, come la durata del periodo di prova e dei congedi, l’importo iniziale della retribuzione alla programmazione dell’orario di lavoro, le regole sugli straordinari e tutti gli altri dettagli relativi dei singoli rapporti di lavoro. L’obbligo è assolto facendo semplicemente riferimento ai contratti ed ai regolamenti aziendali che possono anche essere pubblicati solamente sul web.

Il testo finale del Decreto lavoro non è ancora disponibile, ma stando alle ultime bozze, un secondo comma estende il dovere di informazione anche ai rider, ovvero ai tanti addetti alle consegne di cibo e bevande a domicilio che operano in Italia. La norma chiarisce che anche in questo campo il datore di lavoro è tenuto ad informare il lavoratore dell’utilizzo di sistemi decisionali e di monitoraggio integralmente automatizzati, a patto però che questi sistemi non siano protetti da segreto industriale o commerciale. Di qui la protesta di Orlando e della Cgil.

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Braccio di ferro sul decreto Rai, Lega contro FdI: “No agli editti”

giovedì, Maggio 4th, 2023

Francesco Olivo Michela Tamburrino

Il testo del decreto che con un effetto domino può cambiare il destino della Rai è pronto, «è qui sul tavolo», dicono da Palazzo Chigi. Ma il percorso che il provvedimento dovrà fare per arrivare al Consiglio dei ministri è pieno di ostacoli. Dai fedelissimi di Giorgia Meloni trapela ottimismo: «si risolve tutto oggi». La Lega però frena e allo stesso tempo tratta. Il Pd è pronto a dare battaglia: «Ci opporremo a una norma ad personam», ha detto Stefano Graziano, capogruppo Pd in Commissione Vigilanza. Fratelli d’Italia è convinta però che non ci sia più tempo, i palinsesti sono bloccati e quindi non resta altra strada che imporre per decreto la norma sul limite di età a 70 anni, oltre cui scatterebbe il pensionamento dei direttori delle fondazioni lirico-sinfoniche.

Una misura che colpirebbe Stephane Lissner, classe 1953, il francese che oggi è sovrintendente e direttore artistico del Teatro di San Carlo di Napoli, un posto che, se lasciato libero, potrebbe essere ricoperto dall’attuale Amministratore delegato della Rai, Carlo Fuortes. A quel punto FdI potrebbe mettere le mani sulla tv di Stato. Ma la Lega non è convinta, un membro del governo raccontava ieri alla Camera i suoi dubbi: «Un decreto del genere a quattro giorni dal Concerto del Primo maggio può sembrare un editto bulgaro». Il Carroccio, oltre alla questione dell’opportunità politica, magari strumentale, teme una concentrazione eccessiva nelle mani di Meloni, che potrebbe ritrovarsi con un amministratore delegato, Roberto Sergio, e un direttore generale, Giampaolo Rossi, pronti a una staffetta l’anno prossimo. Ma la vera partita si sta giocando sui telegiornali: in particolare, al centro della trattativa c’è la nomina del direttore del Tg1 per la quale FdI vorrebbe indicare Gian Marco Chiocci, oggi alla guida dell’AdnKronos.

Ai piani alti di viale Mazzini si esibisce tranquillità e si rispediscono al mittente tutte le accuse di questi ultimi giorni, soprattutto riferite alla paralisi delle attività aziendali. Si assicura che il lavoro prosegue perché nulla è cambiato e i vertici restano tranquilli al loro posto. Anche Fuortes mostra assoluto aplomb e riferisce ai suoi interlocutori che non ha nessuna intenzione di andarsene, anche perché nessuno avrebbe avanzato questa richiesta. La realtà è più complicata, perché le pressioni per accettare la soluzione napoletana sono fortissime e su Fuortes continua a pendere la minaccia della procedura di licenziamento “interna”, attraverso un voto a maggioranza del Cda e un passaggio in Commissione di vigilanza. Un iter troppo macchinoso per essere messo in pratica in tempi rapidi. Quindi FdI insiste per far passare il decreto al cdm di oggi. Prendendosi il rischio non solo delle accuse delle opposizioni, ma anche quello molto concreto dei ricorsi di Lissner.

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Democrazie e autocrazie, gli esiti imprevisti

giovedì, Maggio 4th, 2023

di Angelo Panebianco

Il braccio di ferro in Ucraina spinge a sottovalutare l’importanza delle leadership

Nell’attesa, forse vana, dello scacco matto (una irresistibile controffensiva ucraina, una ripresa in grande stile dell’avanzata russa), constatiamo almeno che il conflitto in Ucraina ha due caratteristiche. La prima è di essere una «guerra costituente»: dai suoi esiti, plausibilmente, dipenderanno in larga misura l’ordine (chi vi eserciterà l’egemonia?) che si instaurerà nel continente europeo nei prossimi anni nonché, più in generale, gli equilibri globali (una vittoria o, per lo meno, una non-sconfitta russa, avvantaggerebbe l’alleanza cino-russa anche in Asia e in tanti altri luoghi). La seconda caratteristica è di essere un test sugli atteggiamenti degli europei: a causa della guerra, europei filo e anti-occidentali sono in grado di riconoscersi e di contarsi. Possiamo ora «pesare», mettere sui due piatti della bilancia, rispettivamente, le preferenze per l’ordine occidentale, i suoi principi, le sue regole, e le preferenze per l’ordine autocratico, i suoi principi, le sue regole. E stabilire quale dei due piatti sia più pesante dell’altro. Due opposte tesi si confrontano e lo fanno da molto prima che iniziasse l’invasione russa dell’Ucraina.

Per la prima tesi, la decadenza occidentale è inevitabile. Secondo questo orientamento, il declino della potenza del Paese-leader dell’Occidente, gli Stati Uniti, non potrà essere arrestato. Il punto essenziale, soprattutto, per chi la pensa così, è che gli occidentali, o larga parte di essi, non credono più nel valore della propria civiltà. Non sono disposti a difenderla. Come ha detto una volta Putin, il tempo della società liberale è ormai finito. Il futuro appartiene alle autocrazie. Democrazia liberale e società aperta non lo controllano più. Sono i residui di una civiltà vecchia, morente. Xi Jinping ha espresso spesso idee simili. Gli autocrati di Pechino e di Mosca non dubitano della loro superiorità, del fatto che sconfiggeranno l’Occidente e se ne spartiranno le spoglie. È una tesi diffusa anche qui da noi, benché alcuni di coloro che la condividono se ne rallegrino e altri se ne dolgano.

La seconda tesi è quella di chi continua a scommettere sulla forza e la vitalità delle democrazie occidentali. Nonostante i tanti acciacchi e al netto di tutti gli errori, le democrazie hanno un insieme di «virtù» che mancano alle autocrazie. Diffondono libertà, benessere, diritti di cittadinanza. Offrono a chi ne fa parte un modo di vita migliore di quello che sono in grado di offrire le autocrazie. Inoltre, anche se possono sembrare fragili (e aperte alle influenze maligne delle autocrazie), e divise, spesso ferocemente divise, al loro interno, sono in grado di mobilitare risorse umane e materiali, suscitare energie, che solo le società libere possiedono. Persino il confronto con la temibilissima Cina, nel lungo periodo, secondo i sostenitori di questa tesi, dovrebbe risolversi a nostro vantaggio. Democrazia e capitalismo di mercato sconfiggeranno autocrazia e capitalismo politico, controllato e guidato dallo Stato (nel caso della Cina, dal partito-Stato). Anche perché, per quanto l’immagine delle democrazie occidentali possa essere oggi appannata, i «beni» di cui dispongono, il loro stile di vita, restano i più attraenti, corrispondono alle aspirazioni di tante persone che vivono sotto cieli autocratici in ogni angolo del mondo.

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Fed, tassi Usa più alti dello 0,25%: superano il 5%, non succedeva dal 2007

giovedì, Maggio 4th, 2023

di Giuliana Ferraino

I tassi di interesse negli Stati Uniti superano il 5%. Confermando le attese del mercato, la Federal Reserve ha aumentato il costo del denaro dello 0,25%. Si tratta del decimo rialzo consecutivo, che ha portato i Feds funds, cioè i tassi di riferimento, all’intervallo del 5-5,25%, il livello più alto dalla metà del 2007.

Potrebbe essere l’ultimo intervento della banca centrale americana. «Il sostegno al nuovo ritocco è stato molto forte, ci stiamo avvicinando, ma forse ci siamo», ha affermato il presidente della Fed, Jerome Powell, nella consueta conferenza stampa dopo l’annuncio delle decisioni di politica monetaria. Ma sarà «una valutazione continua, riunione per riunione», insiste. Perché il Fomc, il comitato di politica monetaria della Fed «ha deciso un rialzo, ma non ha discusso su una pausa», precisa. Sottolineando, però, il «cambiamento significativo» nella guidance, cioè le linee guida dell’azione della banca centrale. La Fed ha rimosso dalla sua precedente dichiarazione la frase che diceva che potrebbero essere necessari «alcuni ulteriori» rialzi dei tassi. L’ha sostituita con la frase che dice che prenderà in considerazione una serie di fattori per «determinare la misura» in cui potrebbero essere «appropriati futuri rialzi». Da ora in poi, perciò, pe riportare l’inflazione al target del 2%, «il Comitato terrà conto della stretta cumulativa della politica monetaria, dei ritardi con cui la politica monetaria influisce sull’attività economica e sull’inflazione e degli sviluppi economici e finanziari». la decisione

Bce, giovedì previsto un nuovo rialzo: i tassi in area euro verso il 3,75%

di Marco Sabella

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Attentato a Putin, uno sfregio all’immagine dello zar intoccabile. I «duri» chiedono vendetta

giovedì, Maggio 4th, 2023

di Marco Imarisio

In crisi l’immagine di potenza che i russi proiettano sul Cremlino. Medvedev indica «l’unica opzione possibile: eliminare fisicamente Volodymyr Zelensky»

Attentato a Putin, uno sfregio all’immagine dello zar intoccabile. I «duri» chiedono vendetta

Come nel 1942. Quando caddero per l’ultima volta le bombe su Mosca, il nemico era alle porte e il piccolo padre Stalin era chiuso in un bunker. Da ieri pomeriggio i media di Stato ripetono questo mantra all’unisono. Non lo fanno per disfattismo, ma per risvegliare paure ancestrali nel loro vasto pubblico, quello della Russia più profonda.

Nelle ultime settimane molti conduttori e ospiti dei più importanti talk show di propaganda avevano evocato lo spauracchio di un attacco su Mosca. Lo aveva fatto Vladimir Solovyov, che il 27 aprile aveva detto di essere «preoccupatissimo» per l’incolumità personale del suo grande amico Vladimir Putin.

Due giorni dopo, Igor Korotchenko, analista militare di fiducia del Cremlino, aveva avvertito della possibilità di attacchi terroristici ucraini contro la Federazione russa «nei prossimi giorni», motivandola con una specie di eresia. Il fatto che i servizi segreti inglesi e americani stiano trasmettendo al governo di Kiev informazioni preziose sullo stato del sistema di difesa aerea di Mosca dimostra «come i nostri principali nemici di oggi non abbiano più paura di noi». Forse non si tratta di un vero attentato. Ma è senz’altro qualcosa di peggio. È l’attacco a un simbolo, a una immagine di potenza che costituisce il segreto neppure troppo nascosto del legame tra Putin e il suo popolo.

Alcuni storici sostengono che il fallimento di Mikhail Gorbaciov e del suo progetto di riforme è cominciato nel 1987 con il volo di Mathias Rust sulla Piazza Rossa, quando il suo piccolo aereo da turismo bucò una difesa dei cieli sopra il Cremlino che si credeva impenetrabile, causando per altro licenziamento a catena ai vertici dell’esercito. Quel giorno, molti russi capirono che l’uomo della perestrojka non era un vero Zar, non era una guida infallibile, perché non era in grado di proteggere il proprio giardino di casa.

«L’unico vero problema che pone un evento del genere è che non esiste una replica realistica», spiega al telefono Sergey Markov, il super falco che dal 2011 al 2019 è stato l’addetto alle missioni estere più complicate per conto del Cremlino. «Non sappiamo dov’è Zelensky e sicuramente da oggi lo nasconderanno ancora meglio. Colpire Kiev significherebbe distruggere una città russa, colpire Washington farebbe cominciare la Terza guerra mondiale, e usare il nucleare ci isolerebbe ancora di più. Uno a zero per i nostri avversari, chiunque essi siano hanno fatto un bel colpo di immagine». Dunque, è lesa maestà. Poco importa che Putin fosse altrove, nella sua residenza di Novo-Ogaryovo, vicina alla quale ha fatto da poco costruire una ferrovia privata più che segreta, perché il Cremlino sa come custodire i veri segreti. È per lui che hanno suonato i droni sul Cremlino, beffandosi del mito della sua intoccabilità. Il dispositivo di sicurezza che lo circonda coinvolgendo oltre cinquecento che si dedicano solo a lui, è fonte continua di fascinazioni e iperboli che si autoalimentano. Come i sosia pronti all’uso che verrebbero utilizzati in certe situazioni particolari, gli invisibili schermi antiproiettili sempre disposti dietro alle sue spalle, gli ombrelli da difesa rinforzati in kevlar in dotazione ai suoi angeli custodi, fino ai treni personali corazzati, agli imponenti cortei di auto che bloccano il centro di Mosca con compiaciuta enfasi quando il Capo va in ufficio.

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La caccia ai diamanti russi: ora si vuole tracciare il tesoro del Cremlino

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Lorenzo Vita

I diamanti russi rappresentano uno dei “buchi neri” delle sanzioni occidentali. Da tempo diversi governi del blocco euro-atlantico e i maggiori sostenitori di Kiev nel mondo chiedono che il mercato delle pietre preziose russe venga inserito pienamente nell’alveo dei provvedimenti contro il Cremlino. Il motivo è la quantità di denaro mossa dalla produzione e vendita di diamanti grezzi e lavorati: un volume che per la Russia significa almeno 4 miliardi di euro ogni anno derivante dalla loro esportazione.

Fino a questo momento, come ha ricordato un articolo de il Post, l’Unione europea non ha saputo trovare la quadra sulle sanzioni ai diamanti russi in particolare per il veto del Belgio. Anversa, infatti, è uno dei maggiori hub mondiali di questo settore, e questo implica che il mercato dei diamanti rappresenta per il Paese un pilastro della propria economia. Colpire l’importazione di diamanti russi significherebbe quindi andare a incidere in modo significativo su un elemento portante dell’economia locale e, in assenza di contrappesi, rischiando di minare un segmento molto rilevante del mercato di Anversa.

Il pressing di Kiev su Ue e G7

Dall’inizio della guerra in Ucraina, non solo Kiev ma anche molte cancellerie europee hanno premuto sul Belgio affinché bloccasse completamente questo commercio con cui la Russia, attraverso la società Alrosa, incassa miliardi direttamente da quel blocco occidentale che supporta le forze ucraine. Il Belgio, dall’inizio dell’invasione, ha limitato l’import di queste pietre dalla Federazione russa – quasi tutte dalla lontana Jacuzia – ma, allo stesso tempo, ha evitato di far sì che nei vari pacchetti delle sanzioni fosse incluso l’intero mercato dei diamanti. Una scelta che è stata condannata soprattutto se messa in parallelo con i provvedimenti assunti invece contro il gas e il petrolio di Mosca e che è stata anche negata dal governo belga.

Ora, come riporta un articolo di Politico, si starebbe muovendo direttamente il G7. Il gruppo dei “grandi”, infatti, che rappresenta Paesi che condannano la decisione russa dell’invasione dell’Ucraina e che hanno già accelerato su vari tipi di sanzioni, sta cercando di arrivare a una soluzione per un divieto internazionale di questi diamanti. L’idea è che possa essere proposto un piano già nel vertice che si terrà in Giappone il 19 maggio che prevede soprattutto il tracciamento delle gemme onde evitare che queste arrivino comunque nei mercati occidentali eludendo le sanzioni.

Al momento, spiegano gli esperti, basta che i diamanti siano lavorati e rietichettati in altre parti per far sì che questi non siano sanzionabili. Ma il G7 starebbe cercando di evitare questa elusione utilizzando dei dispositivi della Spacecode per identificare la provenienza del diamante a prescindere dalla semplice etichetta.

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Corruzione: 12 arresti a Ostia, coinvolti funzionari pubblici e imprenditori

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Edoardo Izzo

Funzionari pubblici corrotti da imprenditori e liberi professionisti sul territorio di Ostia. Sono 12 le persone arrestate – 2 in carcere e 10 agli arresti domiciliari – dagli agenti della polizia locale di Roma Capitale che hanno eseguito un’ordinanza che dispone la misura cautelare. Le ordinanze sono state disposte dal gip di Roma a seguito di articolata attività investigativa coordinata dal pool per i reati contro la Pubblica Amministrazione della procura della Repubblica della Capitale.

Le indagini hanno messo in luce numerosi episodi di corruzione che hanno coinvolto funzionari pubblici, liberi professionisti ed imprenditori. Gli indagati dovranno difendersi da numerose accuse, fondate su indagini condotte sia in maniera tradizionale sul territorio di Ostia sia tramite l’ausilio di intercettazioni, telefoniche e ambientali.

Oltre all’esecuzione delle misure cautelari, oltre 100 agenti della polizia locale stanno ancora eseguendo numerose perquisizioni e sequestri.

LA STAMPA

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L’abolizione del reddito lascia i poveri indifesi

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Chiara Saraceno

Il taglio del cuneo fiscale, che da provvisorio forse diventerà strutturale, in parte risponde alle difficoltà dei lavoratori poveri che in questi mesi di alta inflazione si sono ulteriormente impoveriti. Una cosa senza dubbio positiva, che tuttavia lascia intatte alcune delle cause che, insieme ai bassi salari, danno luogo al lavoro povero: il part time involontario, cresciuto a dismisura negli ultimi anni sia tra le donne sia tra gli uomini, ed il precariato. Anzi, il decreto lavoro approvato dal Consiglio dei Ministri con grande spolverio il primo maggio per certi versi le rafforza e allarga, con la parziale liberalizzazione delle possibilità di rinnovo dei contratti a tempo determinato e l’estensione dell’uso dei voucher proprio nei settori – agricoltura e turismo – in cui già ora c’è una forte concentrazione di lavoro povero e con scarse tutele. Ricordo che chi lavora “a voucher” non ha diritto a indennità di malattia, di maternità, di disoccupazione. Forse non avrà diritto neppure al taglio del cuneo fiscale, non apparendo come lavoratore/lavoratrice. E rischierà, se questo è l’unico reddito di cui dispone, di ricadere tra i poveri bisognosi di assistenza.

Un’assistenza di cui tuttavia il decreto stringe fortemente le maglie. Il Reddito e pensione di cittadinanza verranno infatti sostituite da due misure distinte, che dividono nettamente in due i poveri non, contrariamente a quanto vuole la narrazione governativa, tra occupabili e non occupabili, ma tra persone che vivono in famiglie senza minorenni o anziani ultrasessantenni o disabili, o non lo sono esse stesse, e famiglie che invece hanno al proprio interno queste figure. Le seconde avranno diritto all’assistenza – definita Assegno di inclusione – grosso modo alle stesse condizioni del RdC per quanto riguarda i requisiti economici (quindi mantenendo gli stessi errori di disegno segnalati dal comitato scientifico da me presieduto per quanto riguarda la necessità di rispettare, oltre al requisito Isee, tutti e tre i requisiti relativi a reddito, risparmio e proprietà immobiliare). Ma con un sostanziale peggioramento, perché i figli adulti maggiorenni non vengono tenuti in considerazione né per valutare l’adeguatezza dei requisiti né per definire l’ammontare del sostegno. In questo modo molte famiglie con minorenni verranno escluse perché superano le soglie stabilite, tanto più che anche il peso dei minorenni, già svantaggioso nella scala di equivalenza RdC, viene ulteriormente ridotto. L’unico miglioramento, imposto da una procedura d’infrazione europea, riguarda l’abbassamento del requisito di residenza da dieci a cinque anni. Positiva è l’attribuzione ai servizi sociali comunali, e non ad un algoritmo, della valutazione multidimensionale della situazione della famiglia e dei singoli componenti, sulla base della quale decidere se i componenti adulti vadano inviati ai centri per l’impiego e siano tenuti agli obblighi connessi, o invece debbano essere presi in carico dai servizi sociali. Peccato che non vengano previste risorse aggiuntive da destinare ai comuni per questa nuova mole di lavoro loro assegnata.

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Il pacifismo arcaico: ancorato al passato, il movimento non si è evoluto

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Domenico Quirico

Combattere contro la guerra. Perché il male è il male, l’idiozia è l’idiozia, il massacro è il massacro. Questo è il pacifismo. La sua virtuosa perennità si radica proprio nel ritenere che nessuna ragione al mondo consente di farsi spettatori passivi, propagandisti o peggio ancora complici della guerra e dei suoi riferibili orrori. Era così ai tempi della battaglia di Romain Rolland e di un altro pugno di uomini celebri e oscuri che si batterono, invano, nel 1914 contro l’inutile strage della Grande Guerra. La gloriosa battaglia dei pacifisti per fermare l’inutile strage in Ucraina (e un’altra guerra mondiale), più di un secolo dopo, appare altrettanto tragicamente destinata alla sconfitta, il doloroso spasimo a vuoto di una impotenza. Con la differenza che oggi non si vedono in giro, al loro fianco, neppure gli intellettuali capaci di resistere almeno con un po’ di ossificata letteratura ai fanatismi e agli interessi, che provino vergogna di invadere perfino la pace; e ricordino che, se bisogna battersi poiché non si può fare diversamente, allora, non bisogna darvisi del tutto, a quella necessità, e pensare al mondo del dopo. Ecco: il gigantesco, devastante tradimento dei chierici.

Una premessa per chiarire. Per pacifisti intendo coloro che invocano una conclusione senza vinti né vincitori, non certo quelli che si camuffano dietro la parola pace per dar dignità a disfattismi ripugnanti o invitano a diserzioni, aperte o larvate, rispetto alle responsabilità del Prepotente del Cremlino.

Intendo non cenacoli pacifisti da salotto o da editoriale. O che vogliono lucrare qualche preferenza elettorale distinguendosi dal coro degli schierati, dei senza dubbi, dei devoti alle pressioni padronali della atlantica superpotenza. Intendo i non iscritti a niente, umili cittadini, famiglie, gli antichi uomini di buona volontà; come coloro, per esempio, che da 57 sabati, da quando è iniziata la guerra, si ritrovano nel centro di Torino per un raduno di testimonianza. Ebbene: il numero non supera mai la cinquantina, l’attenzione che i passanti dedicano loro, in particolare i giovani, è distratta, indifferente, infastidita.

Come nel 1914, con il riscaldarsi degli animi, chi è contro la guerra è solo, svillaneggiato dai fanatici della vittoria, accusato di essere filo putiniano, un codardo o peggio ancora al redditizio servizio delle autocrazie criminali. Perché la pace non riempie le piazze? La risposta è nell’esser rimasto, il suo partito, virtuosamente arcaico, santamente immobile, di ispirazione religiosa o laica che sia: in fondo pre-moderno nella convinzione che l’essere pacifisti è un dovere morale quanto essere buoni, un perbenismo malinconico. Incapace nemmeno di svincolarsi dal marchio che risale alla prima Guerra fredda, quando il pacifista spesso scendeva in piazza solo a comando, a senso unico, per i sovietici e contro l’imperialismo. Di non aver, come Putin, assimilato la lezione del Muro e dell’89.

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Meloni, fase due: controllo totale per la rincorsa alle Europee 2024

mercoledì, Maggio 3rd, 2023

Lucia Annunziata

Dalle parti di Palazzo Chigi circola l’opinione che dal Primo maggio, data superata con molta più facilità di quanto qualcuno immaginasse, sia partita la fase due del governo. Credibile che il primo periodo, quello degli aggiustamenti, e dell’ambientazione, sia finito. Ma per quel che riguarda la fase, si parla qui del Governo Meloni 2, o del Governo Giorgia 2? Risposta facile. Il governo è impigliato da settimane in una guerra di silenzi, musi lunghi e piccole disfunzioni – se la maggioranza è andata sotto sul Def, in mezzo alla sorpresa della maggioranza stessa, forse in quella famiglia, intorno all’immenso tavolo tondo del Cdm, non ci si dice proprio tutto. Viceversa, il premier va fortissimo, e il Primo maggio ha sicuramente lanciato la fase due del suo progetto personale. La secondarietà del Cdm, come si è notato, ratificata nel video della regale e solitaria camminata della presidente del Consiglio fra quadri di madonne e salottini Luigi XVI, mentre parla in prima persona degli obiettivi raggiunti dal governo «sono così orgogliosa di questo», «sono così soddisfatta di quello».

Il “progetto Giorgia 2” è quello di un piccolo governo nel governo, un asciutto nucleo di competenti, fedelissimi servitori dello stato che risponde al Premier direttamente. Non è facile capire quando sia nata questa idea, ma è facile ricostruirne la prima “messa a terra”.

Prima Tappa. Da queste pagine ne abbiamo segnalato l’avvio, in aprile, con le nomine delle “Big 5”, le partecipate Eni, Enel, Poste, Leonardo e Terna, chieste tutte dal premier. Alla fine Chigi ha dovuto cedere su alcuni dei nomi (Enel in particolare) ma il presidente del Consiglio ha ottenuto la fidelizzazione dei vertici di 5 aziende il cui valore in borsa è di 141 miliardi (più o meno), con un immenso patrimonio di esperienze, personale, contatti e influenza, nonché tecniche e canali per riuscire a “mettere a terra” il Pnrr.

Che è poi il cuore del progetto. L’idea di un inner government ruota intorno proprio all’attuazione del Pnrr, cassaforte unica dei fondi Ue, il sacro Graal della ripresa italiana. Solo queste aziende hanno nei fatti la forza per gestire compito così delicato e complesso. Il cui successo lancerebbe il presidente del Consiglio a livelli di potere che nessuno – a cominciare dai suoi alleati – potrebbe più sfidare.

Seconda tappa. Il presidente Meloni ha formalmente incassato il 20 aprile l’approvazione da parte del Parlamento del decreto legge (del 16 febbraio) sulla governance del Pnrr. Il 26 aprile un Dpcm ha reso operativa la nuova governance. È il secondo passaggio rilevante.

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