dalla nostra inviata Letizia Tortello
KALAMATA. «Abbiamo chiesto aiuto dalle 12 (ora di pranzo,
ndr), perché il motore della barca si era fermato. Ma l’aiuto è arrivato
tardi, solo la sera, intorno alle 21,30. La Guardia costiera greca è
venuta a quell’ora, ma non ci ha aiutati subito. Aspettava». La
testimonianza di Hadi Mahmood Makieh a La Stampa è una ricostruzione che
non lascia spazio a dubbi. Se fosse confermata, riporterebbe la
responsabilità dell’affondamento del peschereccio naufragato mercoledì
al largo di Pilo con 600 morti sull’autorità marittima greca. Che prima
non sarebbe intervenuta, poi avrebbe messo in atto una manovra di traino
sbagliata e pericolosa, considerato l’elevato carico dell’imbarcazione,
che trasportava 750 migranti.
Hadi, siriano di Damasco, oggi è
assistito nel campo profughi di Malakasa, ad Atene. Racconta: «Il mare
era calmo. La Guardia costiera guardava. Dopo molto tempo, ha lanciato
un cavo dalla parte sinistra per cercare di tirare la nostra barca. Il
cavo è stato legato da un egiziano che era a bordo, ma l’abbiamo perso,
perché non era legato bene. A quel punto, è venuto uno della
guardiacoste e l’ha legato meglio». È salito a bordo? «Sì, è salito a
bordo per legare il cavo. Siamo stati trascinati dalla sinistra. La
barca si è capovolta, forse ha preso un’onda. Io sono finito in mare. Ho
nuotato quattro ore, prima di essere salvato. Quando mi hanno trovato,
sono svenuto».
Immaginiamo un peschereccio stracolmo di persone
che viene trascinato con una cima. La nave si inclina da una parte per
il peso. E questo quadrerebbe con i racconti di altri migranti, che
spiegano come si siano spostati in tanti per controbilanciare e
l’imbarcazione abbia iniziato ad oscillare. La Guardia costiera greca,
invece, negli scorsi giorni ha negato di aver lanciato alcuna cima. Poi,
ha cambiato idea, ma ha parlato di offerta di soccorsi rifiutata,
infine di soccorsi a tarda notte, anche se non ha mai ammesso di aver
trainato la barca in difficoltà.
La gioia dei vivi e la pena dei sospesi
Hadi,
dopo il disastro si è risvegliato all’ospedale di Kalamata. Si era
ferito ad una spalla. Sulla barca portava con sé un minore non
accompagnato, Yakoub Abdulwahed, di 13 anni, ma dice di averlo perso di
vista nella tragedia. «I bambini e le donne erano al piano meno due
della nave. Sotto di loro, c’erano solo i frigili». Lo zio di Yakoub,
Emad Abdulwahed, non si dà pace. Anche ieri ha continuato disperatamente
a cercare il nipote. Sembrano essere 8 i minorenni sopravvissuti,
nessuno dà i nomi. E dopo molte suppliche del famigliare, non c’è
neppure la conferma che i minorenni salvati abbiano già parlato con i
parenti che hanno fatto denuncia, il che eliminerebbe ogni speranza di
trovarlo vivo. Nel caos dei rimpalli e delle comunicazioni, Emad come
centinaia di famiglie è in attesa di una voce delle autorità greche, che
non arriva mai. «Vi faremo sapere, ci sono 250 richieste come la
vostra. Esamineremo», si è sentito dire.
Hadi, invece, i genitori
li ha incontrati e riabbracciati venerdì a Malakasa, tra le lacrime. Ci
spiega che stava nella parte anteriore del peschereccio, con altri
siriani. «Ho perso molti amici». Nessuno sa se siano tra i 78 cadaveri
rinvenuti o tra i quasi 600 affondati.
Le violenze durante il viaggio
Col
passare dei giorni, lo choc per lui si affievolisce. Ha ricominciato a
mangiare. Ricorda molte cose della traversata. «Al secondo giorno dalla
partenza dalla Libia, non ci davano più da mangiare e da bere. Molti
svenivano. Io stavo sul ponte». E ancora, «i trafficanti hanno sparato a
dieci persone che si stavano ribellando, li hanno uccisi tutti».
Conferma anche come siano passate barche ad aiutarli: «Due imbarcazioni
petrolifere ci hanno dato acqua». A bordo, a qualcuno era stato permesso
di tenere i cellulari, ma si sono presto scaricati. «Io l’avevo messo
in tasca, insieme al portafoglio dove avevo dei soldi. Quando mi sono
svegliato in ospedale, non l’ho più trovato».