Archive for Giugno, 2023

Visibilia, la società di Daniela Santanché: le riviste, la crisi, i debiti e la trattativa col Fisco

domenica, Giugno 25th, 2023

di Giuliana Ferraino

Milano Un pezzo dell’impero (decaduto), che sta inguaiando la ministra del Turismo e senatrice di FdI Daniele Santanchè, si trova a pochi passi dalla Basilica di Santa Maria delle Grazie e dal Cenacolo vinciano custodito nel suo refettorio, nel cuore chic di Milano (Cap 20123). Qui ha sede Visibilia Editore, un clone (con diversa ragione sociale e attività) della società originale Visibilia Pubblicità, fondata da Santanchè nel 2007, per raccogliere le inserzioni del Giornale, di Libero e del Riformista. raccolta poi venuta meno. L’editore Visibilia comincia a esserlo di fatto nel luglio 2013, quando compra la rivista Ville e Giardini da Mondadori. A cui seguono, nel marzo 2014, le acquisizioni di Pc Professionale e Ciak.

La società si ritrova quotata in Borsa sull’Aim Italia, oggi Euronewxt Growth Milan, con l’acquisizione, nell’agosto 2014, di Pms, che prende il nome dell’acquirente e riceve, con un conferimento, le sue attività. Nel 2015 Santanchè rileva due settimanali storici, Novella 2000 eVisto (fino al 2013 di Rcs), liquidati (con il licenziamento dei giornalisti), nel giro di un paio d’anni, insieme alla società Visibilia Magazine che li editava.

Il «dissesto patrimoniale» del gruppo, a cui sono riconducibili oggi cinque società con la radice Visibilia (incluse Visibilia Concessionaria, Visibilia Srl e Visibilia Editrice, che nascono con cessione di ramo di azienda e accollamento di debiti, per non far emergere il crac), sarebbe però in atto dall’inizio. Visibilia Editore Spa avrebbe messo a consuntivo «perdite significative, evidenziando risultati negativi già a livello di reddito operativo» fin dal 2014, secondo il consulente della Procura di Milano, Nicola Pecchiari, commercialista e docente della Bocconi, nell’ambito dell’indagine avviata nel novembre 2022 a carico della ministra e altre persone per falso in bilancio e bancarotta, dopo la denuncia degli azionisti di minoranza. In merito a Visibilia Srl, emerge che, oltre a «irregolarità estremamente significative», nell’«ultimo esercizio prima del conferimento nel 2019 a favore della neocostituita Visibilia Concessionaria Srl, il patrimonio netto rettificato… fosse già negativo per oltre 8,2 milioni» e 4 anni prima per 5,4 milioni. Eppure quel trasferimento consente «una plusvalenza di 2,971 milioni».

Santanchè, presidente di tutte le società fino al gennaio 2022, mentre ha ceduto le quote di maggioranza dopo la nomina nel governo Meloni, ora punterebbe a far cancellare l’ipotesi di reato di bancarotta, con la proposta all’Agenzia delle Entrate di versare 1,2 milioni in 10 anni per chiudere il contenzioso con il Fisco. Se la proposta sarà accolta, non senza qualche imbarazzo per il ministro leghista dell’Economia Giancarlo Giorgetti, il tribunale revocherà l’istanza di fallimento per Visibilia Srl, come è già avvenuto per Visibilia Editore e Visibilia Holding,che hanno ripianato i debiti, e come ha chiesto Visibilia Concessionaria.

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Nordio, Grillo, l’ironia (non) è sempre dissimulazione

domenica, Giugno 25th, 2023

di Aldo Grasso

Sorte dell’ironia. Il ministro Carlo Nordio fa una battuta sulle contraddittorietà della nostra tassazionee viene bollato come istigatore dell’evasione. Beppe Grillo parla di «brigate di cittadinanza» formate da pensionati e viene scambiato per un terrorista. A cosa è dovuto questo fraintendimento? Allo spirito dei tempi, al dilagante analfabetismo funzionale, ai sempre più preoccupanti problemi di comprensione del testo, ai danni della «disintermediazione digitale», all’odio che circola sui social? E dire che Twitter era una palestra di battute ironiche, ma basta leggere i commenti per franare nello sconforto.

Leonardo Sciascia nell’Affaire Moro (1978) scrive parole definitive: «Nulla è più difficile da capire, più indecifrabile, dell’ironia. E se si può impiccare un uomo muovendogli come accusa una sola sua frase avulsa da un contesto, a maggior ragione, più facilmente, lo si può impiccare muovendogli contro una sua frase ironica».

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Tra i 2 litiganti vince il terzo. Landini leader della sinistra

domenica, Giugno 25th, 2023

Laura Cesaretti

Che jella, povero Maurizio Landini: l’ex cuoco mercenario di Putin ha fatto partire il suo tentativo di golpe contro il dittatore russo proprio nel giorno della Grande Manifestazione della Cgil (stavolta il tema sono i taglia alla sanità) a Roma. Oscurando così, inevitabilmente, quella che il capo sindacale immaginava come una giornata di gloria, con sé medesimo – da pontefice massimo della sinistra – ad officiare il connubio di piazza tra partiti e partitini, leaderucci e leaderini, Schlein e Fratoianni e Conte, sotto il suo sguardo penetrante. E di certo non è un caso se stavolta Landini, sempre loquace nel tuonare davanti alle masse festanti la sua confusa quanto ultimativa analisi geopolitica (in sintesi: Putin non sarà proprio uno stinco di santo, ma l’Occidente che arma l’Ucraina permettendole di difendersi dall’invasore è infinitamente più perfido e guerrafondaio) ieri sul tema non ha aperto bocca. Non sapeva proprio che dire, come tutti i «pacifisti» anti-Kiev colti di sorpresa dal collasso totale del marcio sistema putiniano. Niente: Landini lancia spietati ultimatum al governo Meloni: «Siamo dalla parte giusta e non ci fermeremo». Questa giornata (in cui il mondo, in verità, guarda più a Prigozhin che a lui) «non è solo una testimonianza, ma l’inizio di una battaglia». Poi cerca di allargare il tiro, promettendo di tornare in piazza a settembre, dopo le sospirate ferie: «Lo diciamo con chiarezza: abbiamo sempre difeso la Costituzione sia con la destra di Berlusconi sia con il centro sinistra di Renzi e non permetteremo neanche a questo governo di poterla cambiare, per la democrazia ed il valore dell’antifascismo e della giustizia sociale». Mentre il capo Cgil annaspa per guadagnarsi almeno un titolo su giornali e tv, i segretari di partito accorsi al suo seguito in piazza se lo contendono: Conte (in incongrua camicia nera) gli salta al collo, ansioso di farsi benedire dal capo Cgil come potenziale carta vincente del centrosinistra: «La nostra presenza qui – asserisce – è testimonianza convinta di un percorso e di una battaglia politica che stiamo facendo da tempo». Quale, non è chiarissimo. Elly Schlein, forte di un legame preferenziale col capo sindacale (che del resto ha mandato le sue truppe di pensionati a votarla alle primarie) pure lo omaggia affettuosamente sotto il palco. Poi Elly corre anche ad abbracciare Conte, che tentava di dileguarsi dalla manifestazione senza farsi fotografare al suo fianco. Il boss della Cgil, però, ricorda ad entrambi che i voti non si contano ma si pesano, ed è lui (e non loro) ad avere il coltello dalla parte del manico: «Ci sono 12,5 milioni di persone che hanno votato questo Governo, ma ce ne sono 18 milioni che a votare non sono andati», mentre solo «15 milioni hanno votato altre forze politiche». E molti di quei non votanti, fa di conto, «sono nostri iscritti e nostri lavoratori». É lui insomma a rappresentarli, e non i due litiganti dell’opposizione parlamentare. I quali saranno pure alleati di necessità oggi in Molise, ma alle prossime europee dovranno contendersi ogni voto.

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Meloni congela il Mes e lo rinvia a settembre. Poi difende Santanché e sui migranti spera nel Consiglio europeo

domenica, Giugno 25th, 2023

Adalberto Signore

Dopo otto mesi esatti di navigazione tutto sommato tranquilla, Giorgia Meloni inizia a temere l’effetto-imbuto. Con un’estate che per il governo rischia di essere più calda del previsto se davvero dovessero incastrarsi nel modo peggiore alcuni dei principali dossier all’orizzonte. Due, ben noti, sono la questione migranti e il Mes. Sul primo fronte, Palazzo Chigi ripone grandi speranze in vista del Consiglio Ue in programma a Bruxelles giovedì e venerdì (che come quarto punto in agenda ha proprio il capitolo «migrazione»). Ma anche con la consapevolezza che a ieri – dato del Viminale – gli sbarchi in Italia sono più che raddoppiati rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso (tra il 1 gennaio e il 23 giugno sono stati 59.767, contro i 25.795 del 2022) e che statisticamente i mesi di picco degli arrivi sono luglio, agosto e settembre. Sul secondo fronte, invece, Meloni deve gestire l’accelerazione imposta dalla lettera del Mef e dalla pdl in discussione alla Camera. Ma sopratutto il sotterraneo braccio di ferro con Bruxelles, dove i vertici dell’Ue – francesi e tedeschi in particolare – sono stanchi del continuo tergiversare italiano su un via libera che non può non arrivare. La riforma del Meccanismo europeo di stabilità è stata infatti ratificata da tutti i venti Paesi dell’eurozona tranne l’Italia (che sta paralizzando gli altri). Rinvii che sono dovuti a due ragioni. La prima è che Meloni è sempre stata contraria ed è naturale che per lei non sia facile cedere pubblicamente all’ineluttabile. La seconda è che Matteo Salvini – contrario anche lui – non vede l’ora di poter scaricare sulla premier l’inevitabile dietrofront. Tutte questioni che a Palazzo Berlaymont interessano meno che zero. E dove non gradiscono che il Mes sia usato come merce di scambio nella trattativa sulla riforma del Patto di stabilità. Non è un caso che ad oggi l’Italia non abbia ancora visto la terza rata del Pnrr, 19 miliardi che aspettiamo dal 30 aprile.

A queste due partite, però, da qualche giorno se ne è sovrapposta una terza, con la bufera che ha colpito la ministra del Turismo Daniela Santanché. Un fronte interno delicatissimo, perché dovesse arrivare un atto formale della magistratura la situazione diventerebbe di difficile gestione per un partito come Fdi, che sulla legalità ha sempre avuto un approccio di grande rigore. Un quadro complessivo, insomma, che rischia di farsi complicato. Non è un caso, forse, che la premier – ieri in Austria per l’Europa Forum Wachau – scelga di puntare il dito contro «alcune ricostruzioni un po’ surreali all’indomani della scomparsa di Silvio Berlusconi» che ipotizzavano scenari di «governi tecnici». Un messaggio che ha più destinatari e tra questi anche Salvini. E il cui senso è chiaro: dopo questo esecutivo c’è solo il ritorno alle urne. Un punto su cui Meloni ha la forza dei numeri in Parlamento, dove senza i voti di Fdi non c’è governo che tenga.

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“Pericoloso se la Wagner batte Putin”

domenica, Giugno 25th, 2023

Francesco Curridori

Evgenij Prigozhin, capo delle truppe dei mercenari ella Wagner, dopo aver conquistato Rostov, ha tenuto tutta la Russia col fiato sospeso finché la mediazione del presidente bielorusso Alexandar Lukashenko lo ha indotto a fermarsi a 200 km da Mosca per evitare “un bagno di sangue”. Un dietrofront che ha sorpreso tutti, ma che non chiude totalmente la crisi scoppiata tra il presidente russo, Vladimir Putin, e il suo ex fedelissimo, Evgenij Prigozhin, uno degli eroi della campagna russa in Siria. Abbiamo raggiunto telefonicamente Carlo Jean, ex generale di Corpo d’Armata e presidente del Centro Studi di Geopolitica Economica, che ci ha rilasciato questa intervista per capire quanto le mosse di Prigozhin siano da valutare come un bluff oppure un pericolo solo rimandato.

Le truppe della Wagner hanno preso Rostov. Perché è così cruciale e strategica quella città?

“Rostov è sede del comando della Regione Militare responsabile delle operazioni in Ucraina.Inoltre, è nodo di comunicazione. E’ base logistica essenziale di tutte le forze russe del Sud-est”.

Evgenij Prigozhin sarebbe potuto arrivare velocemente a Mosca?

“Le comunicazioni tra Rostov e Mosca, via Voronez, sono molto facili e lunghe solo 500 km”.

Siamo veramente all’inizio di una guerra civile tra le truppe della Wagner e l’esercito dell’Armata Rossa? E il presidente russo Vladimir Putin potrebbe perderla?

“A parer mio no. ci potrebbe essere guerra civile se il corpo degli ufficiali russi si divide tra i sostenitori di Progozhin e i fedeli al Ministro Shoigu. L’esercito regolare e le truppe del ministero dell’Interno possono facilmente schiacciare le compagnie militari private tipo Wagner e quelle costituite dai vari oligarchi”.

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I segnali di cedimento

domenica, Giugno 25th, 2023

Irina Scherbakova

Gli eventi si susseguono a una velocità sconcertante. Da tempo tutti assistevano a una escalation del conflitto tra Yevgeny Prigozhin e i vertici dell’esercito russo e si meravigliavano di come Putin potesse tollerare una situazione del genere. Ma non dimentichiamo che la Wagner comandata da Prigozhin è stata chiamata in causa quando l’esercito ucraino ha portato a termine con successo un’offensiva e sono iniziati gli scontri per la conquista di Bakhmut. Prigozhin, allora, ha ricevuto carta bianca per reclutare mercenari nelle colonie penali. La presa di Bakhmut è costata un numero enorme di vittime e Prigozhin ha addossato la colpa ai comandanti corrotti dell’esercito. Putin sperava di gestire queste forze rimanendo al di sopra della mischia. Ma ha fatto male i suoi conti.

Prigozhin ha continuato a lanciare attacchi contro i vertici dell’esercito e il ministro della difesa, elargendo insulti a destra e a manca. In risposta alla richiesta di sottomettersi all’esercito, Prigozhin ha fatto il passo più lungo della gamba e ha mandato un ultimatum. E ha dimostrato tutta la serietà delle sue intenzioni occupando Rostov sul Don e avvicinandosi a Voronezh. Anche se Lukashenko è riuscito a convincere Prigozhin a interrompere la «marcia della giustizia» verso Mosca resta comunque una testimonianza di un sistema di governo che inizia a cedere. È una crisi interna profonda che dimostra la debolezza del regime putiniano.

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Russia, 24 ore sull’orlo della guerra civile: poi la trattativa segreta, e Prigozhin lascia Rostov tra gli applausi

domenica, Giugno 25th, 2023

di Fabrizio Dragosei

Storia del colpo di stato sfiorato. Le forze della Wagner sono arrivate a poche ore di autostrada da Mosca, poi la mediazione di Lukashenko ha bloccato tutto. Il capo dei ribelli andrà in Bielorussia, i soldati coinvolti non saranno processati. Ma l’immagine dello zar è cambiata per sempre

Russia, 24 ore sull’orlo della guerra civile: poi  la trattativa segreta, e Prigozhin lascia Rostov tra gli applausi
Un gruppo di miliziani del gruppo Wagner in un edificio di Rostov sul Don (Afp)

Pace fatta all’ultimo momento, «per evitare uno spargimento di sangue», anche se non sono ancora del tutto chiari i termini dell’intesa alla quale ha dato una copertura «internazionale» il presidente bielorusso Lukashenko, forse per salvare la faccia a Vladimir Putin. Ieri mattina infatti, quando i miliziani di Evgenij Prigozhin avevano iniziato la loro marcia su Mosca, il capo del Cremlino era intervenuto con parole durissime in diretta televisiva nazionale, bollandoli come traditori, terroristi e ricattatori. Difficile quindi poche ore dopo far digerire al popolo russo, nonostante la sua ormai comprovata bocca buona per le cose raccontate sull’Ucraina, che si era trovata un’intesa.

Le ultime notizie sulla rivolta di Prigozhin, e la guerra in Ucraina

La Wagner non minaccia più il cuore del potere con la sua colonna che era giunta fino a 200 chilometri dalla capitale. Prigozhin abbandona la partita, secondo il portavoce di Putin, e si trasferisce in Bielorussia. I miliziani che erano con lui non saranno perseguiti penalmente mentre gli altri potranno firmare un contratto con la Difesa per unirsi alle truppe ufficiali. I mercenari avrebbero lasciato Rostov tra gli applausi. Non è ancora chiaro quale sarà il destino dei due odiati nemici di Prigozhin, il ministro della Difesa Shoigu e il capo di stato maggiore Gerasimov. Lui ne aveva chiesto, come minimo, l’allontanamento (ma in altre dichiarazioni anche l’arresto, la fucilazione…) e i suoi dicono che abbia ottenuto questo risultato. Invece il Cremlino sostiene che eventuali riorganizzazioni alla Difesa non sono state discusse con il capo della Wagner. Ieri sera però circolava la voce di un avvicendamento. Al posto di Shoigu andrebbe Diumin, attuale governatore di Tula.

Il potere

Nata come rivolta contro l’incompetenza e la corruzione degli alti vertici militari, quella di Prigozhin si era trasformata in una ribellione contro lo stesso potere russo e contro il presidente. Almeno cinquemila mercenari avevano lasciato Rostov sul Don dopo averne preso il controllo e avevano percorso 800 chilometri verso Mosca senza incontrare alcuna resistenza. Il centro della capitale era stato nel frattempo parzialmente blindato mentre molti, tra i quali tutti gli oligarchi, si erano affrettati a partire. Da ex fedelissimo esecutore degli ordini di Putin, Prigozhin si era trasformato nei racconti delle autorità in un bandito. Uno spauracchio per convincere gli altri Paesi (se mai ce ne fosse stato bisogno) a tenersi fuori della disputa.

Tutto era cominciato venerdì mattina, con una intervista molto più dura e sincera delle solite, rilasciata da Prigozhin. Non solo un attacco a Shoigu che avrebbe voluto iniziare l’Operazione militare speciale in Ucraina «per ottenere il bastone di maresciallo» e mettere sul petto la «seconda stella d’oro di eroe della Russia». Il capo della Wagner aveva affondato il colpo contro l’intera leadership.

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Il mondo brucia, la politica vaga nei suoi labirinti

domenica, Giugno 25th, 2023

MASSIMO GIANNINI

La Russia è sull’orlo della guerra civile. Il mondo ha paura della guerra atomica. L’Italietta si perde nella sua solita guerricciola per bande. L’Aventino della maggioranza non si era mai visto. Nella Roma antica la secessio plebis nacque come forma di protesta dei derelitti contro l’arroganza dei patrizi padroni della Res Publica. Nella Roma fascista del Ventennio l’astensione permanente dai lavori d’aula fu la reazione politica di 123 deputati alla scomparsa di Giacomo Matteotti, sequestrato il 10 giugno 1924 e assassinato dagli squadristi del Duce. Nella Roma meloniana di oggi la diserzione dal Parlamento sembra l’unica, paradossale non-risposta che le tre destre al potere sono in grado di dare sui temi più inutilmente divisivi della fase. Hanno l’aritmetica, che tra Camera e Senato li blinderebbe contro qualunque pericolo di ribaltone. Ma non hanno la politica, che gli consentirebbe di liquidare in un amen la banale ratifica del Mes, se solo non fossero prigionieri di quella “ideologia che ci uccide”. Una frase che rimane scolpita nello scambio di messaggi tra gli alti e appassiti papaveri della Lega. E che marchia, nel fuoco di una grottesca “battaglia identitaria”, il corpaccione di una maggioranza in fuga. Da se stessa e dall’interesse nazionale, dal buon senso e dalla responsabilità. Tanto più in un momento in cui le sorti del pianeta sono appese al destino di Putin, il Tiranno assediato che minaccia la bomba nucleare tattica.

Il vero “stigma” – per usare la formula cara alla presidente del Consiglio – non è votare sì a una riforma di questo Fondo Salva-Stati. Che tutti i partner europei hanno già votato tranne noi.

Che non ci obbliga a nulla, non ci nuoce e ci conviene, come ripete il governatore di Bankitalia Ignazio Visco e come scrive il capo di gabinetto del Tesoro Stefano Varone. Ma tant’è: se proprio la destra Fratello-Leghista volesse comunque far finta di salvare quel po’ di faccia eurofobica che ancora gli è rimasta, basterebbe raccogliere il giusto suggerimento di Mario Monti: insieme alla legge che ratifica il Mes, approvate un ordine del giorno che impegna il governo a non usarlo mai, se non previo voto parlamentare a maggioranza qualificata. E invece non ce la fanno. Neanche ad accettare questa semplice clausola di salvaguardia. Piuttosto scappano. Dalle Commissioni parlamentari, dal Consiglio dei ministri, dalla realtà, dalla verità. La Sorella d’Italia si dilegua per imprecisati “impegni personali”. I senatori azzurri danno buca, forse il cane gli ha mangiato i compiti. Salvini urla, Nordio vaneggia, Giorgetti latita, Santanchè periclita. Insomma, e con tutto il rispetto: Silvio è morto, Forza Italia è morta e anche Giorgia non si sente tanto bene.

L’opposizione, che si sveglia sempre troppo tardi dalla pennichella pomeridiana e grida spesso troppo presto alla crisi di governo, è quasi altrettanto patetica. I due poveri cristi Schlein e Conte si sono fermati a Campobasso. La campagna elettorale di Roberto Gravina è senz’altro più agevole e meno rischiosa del corteo romano #BastaVitePrecarie, con Grillo&Ovadia incorporati. Il “Patto del crodino”, siglato al Bar Otter con foto di rito auspicabilmente più propizia di quella di Vasto, è sicuramente un piccolo passo per l’uomo ma un grande passo per l’umanità. Ma ai più sfugge che questo Aventino della maggioranza, benché non preluda ad alcun Papeete Bis, rivela che una crepa aperta nel muro di Arcore dopo la scomparsa del Cavaliere c’è. E su quella crepa bisognerebbe indagare, per fare quello che nessuno tra le nomenklature di palazzo ha fatto dopo il 25 settembre: cioè ragionare su cosa è successo in Italia, cosa è mutato negli umori profondi del Paese e soprattutto cosa può ancora cambiare nel prossimo futuro.

Al leader dei due schieramenti suggerirei la lettura di una mappa preziosa, elaborata da Itanes e appena pubblicata dal Mulino (“Svolta a destra? Cosa ci dice il voto del 2022”). Una miniera di numeri e di informazioni, che ridimensiona molte delle frettolose certezze acquisite in questi primi nove mesi di governo e smonta buona parte della narrazione mediatica e conformistica sulla nuova “egemonia culturale” dettata dalle urne. Che la destra abbia vinto con “indiscutibile nettezza”, e che Fratelli d’Italia sia “di gran lunga il primo partito della nazione” è evidente. Come lo è il fatto che quello di Meloni sia il primo “governo nato direttamente dal voto” del 25 settembre 2022, al contrario di quanto era accaduto nel 2018 e nel 2013. Quello che invece sottovalutiamo, ma che i dati e i flussi invece confermano, è che il successo delle tre destre non stato affatto determinato da un aumento dei voti, ma solo “dal funzionamento della legge elettorale e della traduzione dei consensi in seggi”.

Meloni, per vincere e conquistare la premiership, ha beneficiato di due fattori essenziali. Il primo è l’implosione dei Cinque Stelle, che hanno dimezzato i loro voti, si sono presentati da soli alle urne e così hanno regalato i seggi uninominali alle destre. Il secondo è il “drammatico incremento dell’astensione”, ingrassata essenzialmente dagli elettori in fuga dal Movimento e solo in minima parte “tornati a casa”, a destra e a sinistra. Il boom della Fiamma nasce da qui. La crescita del partito meloniano è stata “eccezionale sia in termini percentuali (oltre 20 punti) sia di voti assoluti (quasi 6 milioni di voti in più)”, ha sicuramente spostato il baricentro dell’alleanza, ma non è affatto il prodotto “di un rafforzamento complessivo della coalizione”, perché tutto quello che ha guadagnato Fdi lo ha perso la Lega. Dunque, numeri alla mano, lo sfondamento a destra “ha riguardato più il verdetto uscito dalle urne, amplificato dalle regola e dal mancato accordo tra gli oppositori, che non effettivi cambiamenti di posizione e di orientamento nell’elettorato”. Detta altrimenti: la massa degli italiani non si è “spostata a destra”, non c’è stato alcun “riallineamento dell’elettorato profondo e di lungo periodo”, non si può parlare di “trasformazione strutturale degli equilibri politici generali”.

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Prigozhin, il mercenario sanguinario assetato di potere che ha osato tradire lo Zar

domenica, Giugno 25th, 2023

Domenico Quirico

Evgenij Prigozhin durante l’avanzata della Wagner a Bakhmut

Grossolano nei gusti, nelle abitudini, nel linguaggio, nella persona, perfino nel lavoro di padrone di una compagnia di ventura, manesco come un facchino, schiamazzone insolente: ecco in poche parole il ritratto del ribelle di Rostov, Prigozhin. Solo a guardarlo latrare, con l’elmetto di traverso e il grasso che sfonda il giubbotto antiproiettile, mentre annuncia la marcia su Mosca «per liberare il popolo», proprio lui, dopo averne fatte di tutte le tinte, ti mette il cuore a traverso. Sentirlo parlar di libertà è bestemmia che dovrebbe annichilirlo, visto che nei suoi attacchi all’élite militare «con i figli al sole delle Maldive» pigliava caldane per la legge marziale e la guerra totale: «Bisogna vivere qualche anno sul modello della Corea del Nord… bisogna fucilare duecento persone come ha fatto Stalin» proponeva questa specie di Farinacci putiniano, di suocera del regime. Una lettura che dovrebbe suggerir prudenza a coloro che a occidente cominciano già a trovarlo simpatico perché risolverebbe il problema Putin.

Con violenze brutali, commettendo i peggiori abusi e spregevoli soperchierie, spremendo da un capo all’altro del Medio Oriente e dell’Africa la sua carne da mortai, frustata, macellata e dimenticata era diventato troppo ricco per essere punito. Finora. Ha infinite volte nell’anno e mezzo di guerra sfiorato il reato di lesa maestà. Chissà: il conquistatore di Bakhmut si è accorto che l’impunità stava per finire. La sua ascesa, le sue accuse che cadevano nel vuoto torricelliano, le sue ambizioni politiche (ha cercato di metter le mani sul partito nazionalista Rodina) gli hanno procurato rancori feroci e pressoché universali, nell’esercito, in una parte consistente dell’Fsb, i servizi di sicurezza, tra i mandarini della burocrazia accaparratrice putiniana. Uno sguaiato parvenu nella galleria dei ritratti dei cortigiani di uno zar invecchiato, tra mammalucchi obbedienti e servitori muti. La sua rozzezza nazionalista e antisistema gli assicurava certe simpatie nel popolino; «Evgenij Viktorovich viene a salvarci» gridavano gli abitanti di un villaggio bombardato dagli ucraini vicino alla frontiera. Ma troppo poco per avere carte buone da giocare nella successione a Putin. Prigozhin si è accorto di esser isolato, che in una autocrazia equivale alla condanna a morte. E ha giocato la carta più rischiosa, il tradimento. Perché, sia detto di passaggio, in una cosa Putin ha ragione, Prigozhin è un traditore. Questo ex bandito (è stato nove anni in prigione ai tempi dell’Unione Sovietica) deve tutto al presidente: ricchezza potere immunità. Il problema del tradimento non è tradire, atto in sé assai facile, ma tradire bene.

Il fattore tempo è il cappio che si stringe attorno al collo di tutti i ribelli, da sempre. Perché gli incerti, i doppiogiochisti, quelli che vorrebbero approfittare del cambio di regime e della confusione ma… all’inizio stanno in guardia, si defilano: negli alti comandi, nei ministeri e nei circoli che contano. Nelle ville di Rubliovka, la zona di Mosca dove vive l’élite, queste sono ore febbrili. Si discute affannosamente sul che fare, ci si prepara a dormire in luoghi segreti (non si sa mai i vecchi metodi della Ceka, i cappotti di cuoio, il bussare all’alba…), si danno disposizioni ai piloti degli aerei privati di tenersi pronti al decollo. Si fanno partire i figli per posti sicuri: «Te l’avevo detto quando è scoppiata la guerra» gemono le signore. I conti nei Paesi amici, Azerbaigian, Turchia, ricevono un’ondata di improvvisi bonifici. È tutta una questione di tempo. Ora è il momento in cui è sufficiente tacere. Ma prima o poi bisognerà pronunciare un inequivocabile sì a uno dei due contendenti. Il dubbio fa bollire i comandi militari, le caserme, al fronte, nei ministeri, nei grattacieli dei colossi del gas e del petrolio. Poi decideranno cosa conviene fare. In una telefonata troppo anticipata a un numero sbagliato passa la linea tra esser domani ministro o carcerato.

Figura singolare quella del padrone della Wagner, esercito privato dell’età della globalizzazione di tutto, anche e soprattutto della violenza. Lo abbiamo sottovalutato questo strano oligarca quando lo definivamo “il Cuoco del Cremlino” perché, tra l’altro, dall’amico Putin aveva in concessione (miliardaria) l’organizzazione a corte di banchetti, ricevimenti e festini per le Loro Eccellenze. E la refezione di innumerevoli scuole, ospedali, caserme.

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Russia a rischio disintegrazione. E l’Occidente teme il pericolo nucleare

domenica, Giugno 25th, 2023

Lucio Caracciolo

L’insurrezione armata del Gruppo Wagner contro il potere russo, provvisoriamente sedata quando le truppe di Prigozhin erano a duecento chilometri da Mosca, può segnare una svolta nella guerra d’Ucraina. Proprio mentre la fin troppo annunciata campagna d’estate delle truppe di Kiev sembrava impantanarsi sulla linea del fronte, il colpo di mano organizzato da Evgenij Prigozhin ha rovesciato il tavolo. Comunque finisca l’avventura dei wagneriani, il vertice russo ne esce squalificato. È in corso un rimescolamento nei rapporti di forza fra le fazioni del sistema putiniano. Crepe profonde minano la piramide del potere, fino a minacciarne il crollo.

Non aver saputo prevenire un tentativo di golpe annunciato da mesi svela la fragilità delle strutture militari e di sicurezza russe. E potrebbe inaugurare una guerra civile dagli effetti imponderabili. Fino alla disintegrazione della Federazione Russa. Scenario sul quale a Kiev, ma anche a Varsavia e in altre capitali atlantiche, si lavora alacremente. Senza peraltro disporre di un piano qualsiasi per gestirne le conseguenze, a partire dall’eventuale perdita di controllo dello Stato sull’arsenale nucleare russo, che conta seimila testate.

La marcia su Mosca di Prigozhin, sospesa in extremis, è il culmine di un piano concepito da molti mesi. Al quale hanno dato mano ufficiali delle Forze armate e dell’intelligence, oligarchi disperati per la perdita delle loro fortune custodite in Occidente, esponenti della cerchia intima putiniana, ultrà nazionalisti. Nell’apparente atonia del capo. Il quale sembrava davvero sorpreso, ieri mattina, dalle notizie provenienti da Rostov, centro strategico caduto in mano alle milizie wagneriane. Senza il controllo di quella città, la logistica che tiene in piedi lo schieramento russo sul fronte del Donbas e dintorni entra in crisi.

Nei prossimi giorni avremo un quadro meno confuso delle forze in campo, in quella mischia che lo stesso Putin ha assimilato all’alba della guerra civile scoppiata nel 1917 a seguito del golpe bolscevico. Capiremo meglio se l’iniziativa di Prigozhin è di pura fabbricazione interna o se ha goduto di sostegni esterni, non solo ucraini. Quanto agli americani, se si rallegrano per il caos in campo nemico e per il sollievo che ne traggono gli ucraini, allo stesso tempo ne temono le conseguenze. La Russia in mano a un criminale comune, o contesa fra banditi vari, è un pericolo per tutti. C’è il rischio che troppe mani si aggirino attorno al bottone nucleare teoricamente affidato a Putin. Inoltre, non rallegra Washington l’estensione del conflitto che vorrebbero spegnere dignitosamente entro l’anno. Per tacere della penetrazione della Cina nello spazio russo, già visibile. Per gli Stati Uniti è quello il Nemico vero, l’unico in grado di minacciare il vacillante primato americano.

Il piano di Prigozhin è tutto scritto nei recenti messaggi affidati a Telegram. L’ultimo, datato 24 maggio, stroncava il senso dell’«operazione militare speciale». Altro che smilitarizzazione, «siamo noi che abbiamo armato l’Ucraina» scatenando il soccorso atlantico. Quanto alla «denazificazione», secondo il capo della Wagner oggi gli ucraini, semisconosciuti prima del 24 febbraio 2022, sembrano elevati al rango di antichi greci o romani. Il fallimento è da attribuire in primo luogo all’incapacità del ministro della Difesa Shoigu e del capo di Stato maggiore delle Forze armate, Gerasimov. Già pronti i sostituti, indicati per nome da Prigozhin: i generali Mizintsev e Surovikin.

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