Archive for Giugno, 2023

Democrazia e armi: la guerra e le nostre fragilità

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Angelo Panebianco

Nulla in modo più netto e più drammatico delle guerre è in grado di portare alla luce certe fragilità delle democrazie. Le democrazie moderne (quelle antiche erano un’altra cosa) vivono con molto più disagio dei regimi autocratici le guerre in cui sono coinvolte. Si capisce perché: la democrazia è un sistema costruito per risolvere pacificamente (attraverso elezioni e pubblici dibattiti) le dispute fra i suoi cittadini. Essendo l’antitesi della risoluzione pacifica dei conflitti, la guerra la mette in gravi difficoltà.

Da un lato, mentre la democrazia esige, nel suo funzionamento quotidiano, trasparenza , pubblicità degli atti compiuti dai governanti (perché solo la pubblicità, la trasparenza, consente agli elettori di giudicare il governo), la guerra, per sua natura, richiede, in molte decisioni, opacità, riservatezza, assenza di trasparenza: non è alla luce del sole che si possono fare piani di guerra né si possono sbandierare, se non per grandissime linee, i piani di sostegno militare a chi, come oggi gli ucraini, è impegnato a combattere. Dall’altro lato, se e quando una democrazia è coinvolta direttamente in una guerra che rappresenti per essa una minaccia esistenziale, deve rinunciare a certe libertà il cui godimento è o dovrebbe essere pacifico in tempo di pace. Durante la Seconda guerra mondiale le democrazie occidentali adottarono, come era inevitabile, forme di censura e di controllo della popolazione che, fortunatamente, finita l’emergenza bellica, poterono abbandonare.

Infine, la democrazia deve fare costantemente i conti con gli umori dell’opinione pubblica. Con il rischio di oscillazioni nella condotta internazionale dei suoi governi che, in caso di crisi bellica, possono compromettere o frustrarne gli obiettivi e lederne gli interessi.

A una ragione per così dire «strutturale» (legata alle caratteristiche della democrazia in generale) va aggiunta, nel caso dei Paesi europei, una ragione storica. Che è poi una felice circostanza: la lunga pace di cui le democrazie europee hanno goduto e che spiega lo stato di disorientamento delle loro opinioni pubbliche di fronte all’invasione russa dell’Ucraina, di fronte al ritorno della guerra nel cuore dell’Europa. È vero: c’era stato il precedente delle guerre jugoslave ma esse avevano coinvolto solo piccole potenze non in grado, a differenza della Russia, di minacciare una guerra generale.

Una spia evidente delle difficoltà delle democrazie europee di fronte alla guerra in Ucraina è data non tanto dalla continua richiesta di «soluzioni diplomatiche» che dovrebbero essere sponsorizzate da «terze parti» non coinvolte direttamente nel conflitto, quanto dal modo in cui si pretende che tali soluzioni diplomatiche vengano cercate: alla luce del sole, in modo trasparente, visibile a tutti.

Le opinioni pubbliche, o parti di esse, hanno bisogno di sentirsi dire che qualcuno sta facendo qualcosa. Naturalmente, di questo «qualcosa» che si sta facendo per porre termine al conflitto devono essere date al pubblico prove tangibili. Da qui la lunga serie, fin da quando è iniziata l’invasione russa, di tentativi di mediazione ben documentati e pubblicizzati dalle televisioni e dagli altri mezzi di comunicazione. Quale ne sia la funzione è chiaro: rassicurare il pubblico («stiamo cercando una soluzione diplomatica») . Ma, di sicuro, se un giorno soluzioni diplomatiche al conflitto emergeranno non saranno certo colloqui alla luce del sole che ne porranno le premesse. Saranno invece quei canali di comunicazione, informali e al riparo dalla pubblica curiosità, che (spesso se non sempre), durante le guerra, vengono attivati fra i nemici e fra i loro sponsor e principali alleati. La democrazia vorrebbe trasparenza persino nelle trattative e nelle negoziazioni condotte in parallelo ai combattimenti sul terreno. Ma si può scommettere che quando i rapporti di forza ( a loro volta decisi dall’andamento delle battaglie per la difesa o la riconquista dei territori) consentiranno di fare tacere le armi, le negoziazioni sotterranee — fra americani, russi e cinesi, fra ucraini e russi — daranno a quell’esito un contributo molto più importante delle conferenze stampa e di tutti gli altri atti pubblici e ampiamente pubblicizzati.

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Bimba morta in auto, la dimenticanza del papà e il ritrovamento della madre

giovedì, Giugno 8th, 2023

Sarebbe stata dimenticata in auto dal papà, un carabiniere impiegato negli uffici della Direzione generale del Personale militare del ministero della Difesa, la bimba di un anno trovata senza vita oggi pomeriggio in un veicolo in via dei Fucilieri, in zona Cecchignola a Roma. Le indagini sono ancora in corso ma l’ipotesi più accreditata al momento – secondo l’agenzia Dire – sarebbe quella secondo cui l’uomo stamattina, andando a lavoro, si sarebbe recato direttamente in ufficio dimenticandosi di lasciare la figlioletta all’asilo aziendale, nella struttura adiacente. A ritrovare la piccola, infatti, è stata la madre recandosi al nido per riportarla a casa: le maestre le hanno detto che stamattina non era stata portata in asilo, così la donna si è avvicinata all’auto del marito, parcheggiata nelle vicinanze, e ha ritrovato la bimba priva di sensi all’interno. Al momento comunque gli inquirenti stanno ancora indagando per ricostruire la vicenda, con i genitori della piccola entrambi in stato di forte shock.

La piccola trovata morta potrebbe essere l’undicesima vittima in 25 anni della cosiddetta «Sindrome del bambino dimenticato» (‘Forgotten baby syndrome’). Una tragica Spoon River iniziata nel luglio 1998 a Catania, con la morte di Andrea, 2 anni, e proseguita poi nel tempo a Merate (Lecco), Teramo, Passignano sul Trasimeno (Perugia), Piacenza, Vicenza, Firenze, Arezzo, Pisa, San Piero a Grado (Pisa) e ancora Catania, nel settembre del 2019. Elena, Jacopo, Luca, Gioia, Tamara, Giorgia, età compresa tra gli 11 mesi e i due anni, vittime di ‘abbandoni’ involontari di mamme o papà andati al lavoro o tornati a casa convinti di averli invece portati all’asilo, dai nonni, dalla baby sitter. 

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I riformisti del Pd preparano il terremoto anti-Schlein: fronda di Bonaccini

giovedì, Giugno 8th, 2023

Una lunga riunione, molto partecipata. Ieri pomeriggio Stefano Bonaccini ha visto i parlamentari della sua area. Tanti i presenti da Lorenzo Guerini a Debora Serracchiani, Simona Malpezzi, Graziano Delrio, Piero Fassino, Valeria Valente, Matteo Orfini, Enzo Amendola. Un clima piuttosto effervescente, si racconta, anche a seguito dal caso Piero De Luca di martedì e le parole del neo vicecapogruppo Paolo Ciani sulla revisione della posizione Pd sull’Ucraina. Non sono mancati interventi critici nei confronti della segretaria Elly Schlein. Appunti di merito e di metodo. Ma, si riferisce, al di là di valutazioni più critiche il taglio della riunione «non è stato ostile, né fuoco amico né fronda» piuttosto una «critica costruttiva». 

E proprio per rendere più concreta questa azione ‘costruttiva’, nella riunione con Bonaccini si è concordato di strutturare l’area, andando anche oltre la mozione congressuale. Si è quindi ragionato di un appuntamento nelle prossime settimane per dare forma all’organizzazione dell’area e ragionare sul Pd, «mettere in campo idee». Del resto lo stesso Bonaccini, parlando in tv, ha insistito sulla necessità che il Pd tenga la barra dritta sulla vocazione maggioritaria «che non è fare da soli, ma avere una cultura di governo e bisogna averla anche stando all’opposizione costruendo un’alternativa in cui non solo si critica ma accanto si mette sempre anche la proposta».

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Oggi è la è la giornata degli Oceani, ma il mare è un grande ferito

giovedì, Giugno 8th, 2023

Nicola Lozito

Oggi è la è la giornata degli Oceani, ma il mare è un grande ferito

Com’è profondo il mare. Appena dieci giorni fa un team internazionale di scienziati ha annunciato di aver scoperto e catalogato cinquemila nuove specie sottomarine che vivono nei fondali dell’area di Clarion-Clipperton in mezzo al Pacifico. Spugne, pesci, alghe, anemoni e un’infinità di invertebrati dalle forme più strane. Cinquemila. Praticamente abbiamo scoperto un nuovo mondo. Peccato che a luglio la Seabed Authority, l’autorità internazionale che coordina le regole di sfruttamento dei fondali marini, dovrà rispondere alle tante richieste delle aziende che vogliono “arare” minerali e metalli dai fondali dalla zona Clarion-Clipperton, devastando con il cosiddetto deepsea mining uno dei pochissimi ecosistemi ancora vergini del Pianeta. Non un gran modo per festeggiare la giornata degli Oceani, che ricorre ogni 8 giugno per ricordarci non solo quanto il mare sia profondo, ma anche ferito.

«Gli oceani sono un Far West: ancora oggi tutti possono farci qualsiasi cosa», spiega Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento della onlus Greenpeace. «Abbiamo bisogno di moratorie, come quella contro lo sfruttamento minerario dei fondali, e l’Italia è uno dei 36 membri del consiglio della Seabed authority che può fare la differenza. E abbiamo bisogno di accordi e leggi internazionali precise e rispettate».

In questo senso c’è una buona notizia che è arrivata proprio negli ultimi mesi: dopo decenni di trattative, la comunità internazionale a marzo è riuscita a d accordarsi per il Trattato dell’Alto mare. Entro il 2030 il 30% delle acque internazionali deve diventare area protetta. Il documento è pronto, ora va ratificato dai singoli Stati (e anche qui l’Italia può giocare un ruolo importante, magari ratificandolo prima degli altri Paesi europei). Proteggere gli oceani significa salvare la biodiversità e garantire il corretto funzionamento dei tanti servizi ecosistemici che il mare ci offre. Il mare assorbe calore, assorbe la CO₂ prodotta in questi secoli di sfruttamento indiscriminato delle fonti fossili e restituisce in atmosfera circa il 50% dell’ossigeno che respiriamo. Bisogna proteggere le acque anche dalla plastica e della microplastica, che soffoca letteralmente la vita. La produzione di plastica vergine per il 2060 sarà cresciuta del 300% rispetto a oggi, spinta dai nuovi affari delle aziende degli idrocarburi, che convertiranno le loro attività verso il petrolchimico.

«Oggi solo l’8% dei mari del mondo è area protetta, la strada è ancora lunga», continua Ungherese. «E non è una questione solo di numeri. Sentiamo parlare di zone protette, ma spesso si tratta di santuari di carta, tracciati solo sulle mappe. Tra mar Ligure e mar Tirreno si trova il Santuario dei Cetacei, per esempio, che dovrebbe essere difeso ma poco viene fatto».

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Elly Schlein, le faide della Papessa

giovedì, Giugno 8th, 2023

Concita De Gregorio

Puntuale e prevedibile come il colpo di scena in una trama costruita per noi dall’algoritmo, che tutto delle nostre attese sa e tutto maternamente asseconda, è dunque arrivato lo scontro finale fra la nuova segretaria del Pd e la famiglia De Luca. Era talmente scritto, quel che sarebbe successo, da risultare interessante solo nel dettaglio lessicale: quale formula di spregio avrebbe usato il Presidente, quale userà nella sua prossima diretta Facebook – mi par di ricordare che il suo giorno di monologo sia il venerdì. «Radical-chic senza chic» ha detto ma si vede che era di fretta, ha usato un pezzo di repertorio da cabaret della destra, tutti sappiamo che può fare di meglio. Aspettiamo con fiducia.

Per chi avesse per sua fortuna preso un sabbatico dal dibattito politico e fosse tornato dall’eremitaggio per l’appunto ieri giova ricordare qui di che si tratta. Nel grande classico “La faida a sinistra”, una serie che gareggia con “Beautiful” per longevità anche anagrafica dei protagonisti, in questa trentaquattresima stagione irrompe Elly Schlein, esotica fin dal nome. La famosa e tanto evocata papessa straniera: non era difatti, fino a poco fa, neppure iscritta al partito di cui si tratta e che ora sorprendentemente guida, il Partito democratico. Molto giovane rispetto alle consolidate star, di molte delle quali potrebbe essere nipote, Schlein vince le primarie contro il volere del partito. La elegge, cioè, non la nomenclatura dei titolati a perpetuare la propria specie (i dirigenti, gli iscritti ai circoli) ma il popolo dei gazebo: quei cittadini elettori stremati dalle reiterate promesse disilluse nei decenni dai protagonisti delle precedenti stagioni, rottamatori e ritornanti che pur in qualche caso governando addirittura il Paese non hanno di un millimetro spostato l’asticella del progresso comune – talvolta caso mai del proprio personale benessere. Quindi Schlein trionfa, alcuni fra i più scaltri tra i vecchi capicorrente – quasi tutti di rimpianta e indimenticata scuola democristiana – la vedono arrivare prima e le si mettono alle spalle nella speranza di essere poi ricompensati o comunque di dirigere, come sempre, la banda – nel senso della banda musicale. Schlein però sorride a tutti, prende volentieri imbarazzanti endorsement noti come leggendari abbracci mortali, non è che puoi vincere avendo proprio tutti contro, ma incassa e infine va da sé. Grande entusiasmo iniziale, successo nei sondaggi, primo mese di impennata di nuove iscrizioni, specie donne e giovani. Cinque stelle in difficoltà, il campo dell’opposizione del resto è quello: tutto secondo algoritmo. Nel secondo mese insorge qualche piccola criticità. Schlein è figlia, per formazione e anagrafe, della tradizione dei movimenti, del dibattito stremante e collegiale, del confronto in assemblea territoriale. Dal punto di vista del lessico padroneggia una serie di circonlocuzioni in uso appunto nei collettivi, frasi talmente generiche e larghe da contenere tutto e non dire niente. E’ quella che al convegno ascolti un’ora riempiendo il taccuino e poi non trovi il titolo. Di là, al governo, c’è una specie di erinni che va a Catania e dice delle tasse “pizzo di Stato”, molto male come principio democratico ma eccellente come messaggio sintetico: hanno capito benissimo tutti. Del resto: la destra fa la destra, non si sa di che sorprendersi, ci vorrebbe una sinistra in grado di fare la sinistra facendosi nel frattempo anche capire. Iniziano i mugugni, soprattutto dentro casa. Gli ex ministri e capigruppo sponsor della candidata non si sentono riconosciuti e mascherano il dispetto, si riuniscono carbonari in ristoranti del centro – a Roma purtroppo non ti puoi nascondere mai, non esistono come a Milano i privée. Poiché c’è bel tempo sei sempre in un tavolino in mezzo alla strada, ti vedono. Schlein va sui social a dire siamo qui per restare – in questa storia del resto tutti parlano sui social, la morte dei giornalismo e degli intermediari di senso è una circostanza assunta da tutti, unica unanimità, come evidenza. Giorgia ha i suoi “appunti”, Vincenzo De Luca i suoi monologhi sulle tv locali e su Facebook e anche Schlein parla direttamente agli elettori, ci mancherebbe. Fin dal principio alla nuova giovane speranza del popolo democratico (inteso come elettorato eternamente orfano, magnificamente ostinato nell’attesa) era noto che i problemi maggiori li avrebbe avuti in sede. Le correnti, i padri nobili, i distributori di candidature e postazioni: gli amici, insomma, di partito. Enrico Letta, immediato predecessore, pur democristianissimo ecumenico e assai ben intenzionato, non ce l’ha fatta: il Pd uccide chi provi a governarlo, per statuto drammaturgico. Ma Schlein è nuova, non è esattamente neppure venuta dal Pd, è anzi inizialmente stata espulsa, Occupy Pd, ricordate?: era una di quelle che lamentava la gerarchizzazione dei vertici, pur nella benevolenza di Romano Prodi. Nulla accade che non si possa spiegare con le vecchie categorie della ritorsione a rilascio lento. Ma insomma. Grandi Speranze. Ed ecco che arriva il momento De Luca. Ci siamo. Il grande crash annunciato.

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Post alluvione, lite Meloni-Salvini: la premier contro tutti

giovedì, Giugno 8th, 2023

Francesco Grignetti, Ilario Lombardo

ROMA. Una cosa sola hanno capito, sindaci e governatori, quando la larga riunione di Palazzo Chigi è finita: che per il post-alluvione Giorgia Meloni vuole procedere in splendida solitudine. Le decisioni verranno accentrate a Palazzo Chigi, tagliando fuori tutti, alleati e non, ministri e possibili commissari straordinari. La premier è stata accorta. I suoi toni, collaborativi e istituzionali. Ma il senso del discorso è chiaro. Annunciando l’istituzione a Roma di un Tavolo di consultazione permanente sotto la guida del ministro per la Protezione Civile, Nello Musumeci, che farà da «collettore» alle istanze degli enti locali, in pratica la ricostruzione resta in mano a lei. E infatti non solo mugugnano i sindaci delle città alluvionate, che da quelle parti sono quasi tutti del Pd, ma anche la Lega, presa in contropiede. A Matteo Salvini non resta che fare buon viso. Pensare che la sera prima, come rivelato dal sito Dagospia, il vicepremier leghista era a cena a Trastevere con il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. Ma mica lo avevano informato del colpo di scena.

La presenza di Meloni, inizialmente, era prevista solo per un rapido saluto. Avrebbe dovuto aprire il vertice con il governatore Stefano Bonaccini e con i sindaci romagnoli, riunione poi estesa ai territori alluvionati anche di Marche e Toscana, per poi lasciare Salvini e il sottosegretario Mantovano a condurre il confronto. E invece è rimasta, rendendo subito palese la sua volontà: fare a meno (per ora) di un commissario alla ricostruzione, evitare un infinito dibattito sul ruolo di Bonaccini, centralizzare a Palazzo Chigi il coordinamento sulle risorse e la pianificazione degli interventi, prendere tempo sull’erogazione delle risorse perché i soldi – questa è la verità che sembra emergere giorno dopo giorno – non sono abbastanza e non sono quelli inizialmente promessi. Meloni, infatti, è pronta a dare battaglia contro tutti, circondata dai suoi fedelissimi.

I sindaci capiscono subito che il nodo principale, su chi sarà il commissario alla ricostruzione, in quali tempi sarà scelto, e con quali risorse, non verrà minimamente affrontato. È palpabile il fastidio della premier ogni volta che qualcuno tenterà di introdurre il tema. Sbuffa, si mostra spazientita, nervosa. E c’è di più. C’è l’impressione che il governo sia tentato di non nominare alcun commissario. Per i leghisti suona come una novità. L’idea di aggirare il problema del commissario tornerà anche nelle parole del sottosegretario Mantovano, il quale, raggiunto dai giornalisti, la spiega così: «Siamo tutti responsabili in questa fase. Non c’è bisogno di un garante. Ci sono differenti istituzioni, centrali e territoriali».

I sindaci, specie quelli romagnoli, però non sono affatto convinti di una soluzione del genere. E hanno un sospetto: che Meloni voglia prendere tempo, allungare il più possibile l’attesa, perché l’amara realtà del bilancio fa emergere che le risorse sono pochissime. Secondo l’analisi degli amministratori, a disposizione dell’esecutivo c’è meno di 1 miliardo, e cioè meno della metà dei 2,2 miliardi promessi nel decreto per la ricostruzione.

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Papa Francesco operato per tre ore: si sveglia e scherza con il chirurgo

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Gian Guido Vecchi

L’intervento all’addome dopo quello di due anni fa. E chiede: «Quando facciamo il terzo?»

Papa Francesco operato per tre ore: si sveglia e scherza con il chirurgo

CITTÀ DEL VATICANO Lui stesso aveva spiegato di temere l’anestesia, che due anni fa gli ha dato fastidio, e per questo aveva poi rifiutato di operarsi al ginocchio. Ma stavolta il Papa non ha potuto dire di no.

 I dolori ricorrenti «da alcuni mesi» e sempre più intensi, «una sindrome subocclusiva intestinale dolorosa ingravescente», il pericolo di un’occlusione intestinale. I quaranta minuti di «controlli» al Gemelli, martedì mattina, erano gli ultimi esami prima dell’intervento. E quando Francesco si è svegliato, dopo tre ore di operazione in anestesia generale, ha trovato pure la forza di scherzare con il chirurgo Sergio Alfieri: «Quando facciamo la terza?». È stato il professore che lo ha operato, poco dopo le sette e mezzo di ieri sera, a scandire le parole più attese: «Anzitutto il Santo Padre sta bene, è vigile e cosciente. Mi ha già preso in giro».

Papa Francesco, arrivato al Gemelli alle 11.20, è stato operato ieri pomeriggio all’addome, «un intervento di laparotomia e plastica della parete addominale con protesi» per la rimozione di un «laparocele incarcerato», ovvero un’ernia che si era formata sulla cicatrice dell’intervento precedente, a luglio del 2021, quando l’équipe guidata dallo stesso Alfieri gli asportò un tratto di colon («ho 33 centimetri di intestino in meno») per una stenosi diverticolare.

Non un intervento molto complesso, di per sé. Ma una faccenda delicata, per un uomo di 86 anni che il 29 marzo scorso aveva già dovuto ricoverarsi tre giorni per problemi respiratori, una «infezione» poi diagnosticata ufficialmente come «bronchite su base infettiva» che in realtà, ha spiegato poi il Papa, era «una polmonite acuta e forte, nella parte bassa dei polmoni».
Si dice che dopo l’udienza del mattino sorridesse sereno, «sono scherzi della vecchiaia». Ma alcune persone vicine a Bergoglio, ieri, tradivano una certa apprensione. Che si è sciolta quando la Santa Sede ha comunicato, alle 18,28, che l’operazione si era conclusa «senza complicazioni», con il paziente già rientrato in camera, e più ancora quando il professor Alfieri, un’ora più tardi, ha spiegato che Francesco sta bene e «tornerà a fare una vita normale»: la stenosi del 2021 «era per una patologia benigna da cui è completamente guarito», niente tumori, e «non sono state riscontrate altre patologie».

L’operazione era stata «programmata» dall’équipe, nel senso che si sapeva di doverla fare. L’intervento è stato deciso martedì dopo una Tac, «ma non è stata una decisione di emergenza», ha detto Alfieri: «Poi sapete che decide il Papa, e lui stesso ha deciso in prima persona di organizzare l’operazione oggi in base anche alla sua agenda». Tra l’altro, «il Santo Padre non ha mai avuto un problema con l’anestesia generale», ha aggiunto: «Chiaramente a nessuno fa piacere essere addormentati perché perdiamo la coscienza, ma non c’è stato nessun problema anestesiologico né due anni fa né oggi». Per un’operazione del genere, la degenza dura di solito «dai cinque ai sette giorni», ma in questo caso «trattandosi del Papa, un signore di 86 anni», verranno adottate «tutte le cautele possibili», considera il chirurgo: «Dateci qualche giorno».

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Mario Draghi, il discorso al Mit: «L’Ucraina deve vincere la guerra o sarà la fine dell’Ue»

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Enrico Marro

A lui il premio Miriam Pozen: l’inflazione è più resiliente del previsto

Mario Draghi, il discorso al Mit: «L’Ucraina deve vincere la guerra o sarà la fine dell’Ue»

Nel primo viaggio negli Stati Uniti dopo la fine del suo governo (ottobre 2022) Mario Draghi ha lanciato un messaggio e un appello. Il messaggio è che l’inflazione potrebbe durare più a lungo di quanto si pensi, anche se alla fine l’azione congiunta delle banche centrali e dei governi riuscirà a riportare sotto controllo la dinamica dei prezzi. L’appello è a progredire nell’allargamento dell’Unione europea, integrando in essa l’Ucraina e rafforzando la politica comune di difesa, facendo entrare la stessa Ucraina nella Nato. Draghi ha parlato ieri al Mit, il Massachusetts Institute of Technology, dove ha ricevuto il premio Miriam Pozen e ha tenuto una Lecture che, come lui stesso ha premesso, «attinge alle mie esperienze come banchiere centrale (alla guida della Bce dal 2011 al 2019, ndr) e presidente del Consiglio».

Studente al Mit

Al Mit, Draghi fu studente neli primi anni Settanta. «C’erano la guerra dello Yom Kippur, choc petroliferi, inflazione fuori controllo, crisi del sistema monetario internazionale e naturalmente la Guerra fredda – ha ricordato -. Siamo stati capaci di superare quelle sfide, così come ora io confido che saremo capaci di fare lo stesso in futuro».

Cambio di paradigma

La guerra in Ucraina e il ritorno dell’inflazione, assieme alle tensioni con la Cina, hanno determinato un «cambio di paradigma» che ha «spostato silenziosamente la geopolitica globale dalla competizione al conflitto». Con conseguenze durature che potrebbero manifestarsi in un «più basso tasso di crescita potenziale, che richiederà politiche che portino a disavanzi di bilancio e tassi di interesse più alti», avverte Draghi. La globalizzazione, che si pensava «inarrestabile», è in crisi. «Mentre eravamo impegnati a celebrare la fine della storia, la storia preparava il suo ritorno». Eppure, secondo Draghi, i segnali che arrivavano dalla Russia erano chiari e da molto tempo, prima in Cecenia, poi in Georgia e in Crimea. Il tutto mentre nel mondo occidentale l’elezione di Donald Trump e la Brexit mostravano la «disaffezione» verso un modello economico e sociale percepito come «iniquo e privo di tutele». Pandemia e guerra hanno accelerato questi trend, riportando in primo piano il ruolo del governo nell’economia.

Ucraina nella Nato

La «brutale invasione dell’Ucraina» non è, sottolinea Draghi, «un imprevedibile atto di follia», ma un nuovo passo «premeditato» della «strategia delirante» di Putin per restaurare il passato imperiale della Russia. Per questo, secondo l’ex premier, «non c’è alternativa per gli Stati Uniti, l’Europa e i suoi alleati che assicurare che l’Ucraina vinca questa guerra. Accettare una vittoria russa infliggerebbe un colpo fatale all’Ue». Draghi ritiene che la Ue debba «accogliere al suo interno l’Ucraina e i Paesi balcanici» e che si debba essere «pronti a iniziare un viaggio con l’Ucraina che porti alla sua adesione alla Nato».

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Bibbiano, Claudio Foti assolto: «Mi chiamavano boss e lupo, ora vorrei incontrare la ragazza dell’inchiesta affidi»

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Margherita Grassi

Lo psicoterapeuta e fondatore di Hansel&Gretel: «Smontato tutto il castello di  pregiudizi. Dovrò avere pazienza, perché ci saranno residui non so per quanto tempo ancora. Sono felice, riconosciute giustizia e verità»

Claudio Foti, a sinistra, all’uscita del tribunale di Reggio Emilia
Claudio Foti in tribunale a Reggio Emilia

«Boss degli affidi, lupo di Bibbiano. Mi chiamavano così, ma si rende conto? Nella rete ci sono sacche di ignoranza, odio e stupidità e si possono costruire identità negative a partire dal niente». Claudio Foti è un fiume in piena. È come se volesse buttare fuori tutti i non detti di quattro anni, passati dalla deflagrazione dell’inchiesta sui presunti affidi illeciti in val d’Enza (giugno 2019), alla condanna in primo grado a 4 anni (novembre 2021) fino all’assoluzione piena in Appello. Lo psicoterapeuta era accusato di abuso d’ufficio e di lesioni per aver «provocato depressione» a una 17enne tramite «domande suggestive». La procura generale di Bologna valuterà i margini per un ricorso in Cassazione una volta lette le motivazioni. «Cos’è che fa sì che quel disturbo sia riconducibile proprio a ciò che lo psicoterapeuta ha fatto? Quando non si è in grado dimostrarlo, il nesso causale non esiste, ma c’è la presunzione di imporre un colpevole», dice il suo avvocato Luca Bauccio.

Foti, che sensazione prevale in lei?
«Sollievo, soddisfazione, gioia. C’è stato un riconoscimento di giustizia e verità. Al contempo, la reiterazione dei comportamenti di ingiustizia e di manipolazione della verità quasi mi danno la sensazione che non sia ancora vero».

Quindi è sorpreso della sua assoluzione?
«L’essere umano ha bisogno di adattarsi anche alle situazioni più terribili, ma l’effetto è anche una sensazione di non piena consapevolezza. Ma è accaduto ciò che è assolutamente giusto, ciò che in una comunità civile ci si attende. I giudici in maniera più serena, approfondita e indipendente hanno valutato la mole di documenti e argomentazioni e hanno avuto il coraggio di ascoltare le ragioni del diritto andando contro una montagna di pregiudizi. Ma le videoregistrazioni le volete vedere o no?». LEGGI ANCHE

Si riferisce alle videoregistrazioni delle terapie con la ragazza in questione. Cambierebbe qualcosa nel suo modo di procedere? Cos’è che stabilisce cosa sia giusto e sbagliato in questo campo?
«Non c’è stato nulla che possa, sul piano dei fatti, legittimare le accuse. Ho fatto una terapia corretta, gentile, empatica, rispettosa del paziente e delle procedure. Dovrò avere pazienza, perché ci saranno residui non so per quanto tempo ancora. Credo che il giudice non abbia il diritto di entrare di soppiatto nella stanza della psicoterapia: è la comunità scientifica a doverne discutere, a meno che non si intravedano comportamenti di minaccia, violenza o grave scorrettezza deontologica».

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Intervista a Olaf Scholz: «Sui migranti l’Italia non può essere lasciata sola. La stabilità fiscale va difesa»

giovedì, Giugno 8th, 2023

di Paolo Valentino

Parla il cancelliere tedesco, che l’8 giugno sarà ricevuto a Roma da Meloni e Mattarella. «Non lasciamo Roma sola sui migranti, ma serve un approccio responsabile» Sull’Ucraina: «Kiev nell’Ue quando soddisferà i criteri»

Intervista a Olaf Scholz: «Sui migranti l’Italia non può essere lasciata sola. La stabilità fiscale va difesa»

DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
BERLINO — «Ovviamente ci sono problematiche e sfide cui Italia e Germania guardano da prospettive diverse. Certamente parleremo anche di come approfondire ulteriormente i nostri rapporti», dice Olaf Scholz nell’intervista esclusiva al nostro giornale, la prima a un media italiano da quando è alla guida del governo tedesco. Il cancelliere federale arriva oggi a Roma, dove incontrerà il presidente del Consiglio Giorgia Meloni e il Capo dello Stato, Sergio Mattarella. Scholz ricambia così la visita che la nostra premier fece in febbraio a Berlino. Siamo in grado di anticipare che il clou dei colloqui romani tra i due leader sarà l’annuncio della fine dei lavori di preparazione del Piano di azione italo-tedesco, che verrà poi firmato in autunno nel vertice intergovernativo tra Italia e Germania, ospitato dai tedeschi, del quale parliamo qui accanto.

Signor cancelliere, dopo la fine del governo presieduto da Mario Draghi, gli elettori italiani hanno votato per una coalizione di centrodestra, con alla guida Giorgia Meloni. L’impressione è che dopo la stretta collaborazione e la piena identità di vedute registrate con Draghi, culminate nella vostra visita a tre con Emmanuel Macron a Kiev, ci sia stato un raffreddamento nei rapporti tra Roma e Berlino. Come giudica lo stato attuale delle relazioni bilaterali? E questa visita può essere letta come la ripresa di un dialogo?
«Le relazioni tra Italia e Germania sono strette, basate sulla fiducia e molto solide. E questo vale non solo per i nostri Paesi e le nostre società, ma anche per la cooperazione con il governo italiano. Dopo la visita inaugurale della presidente del Consiglio Meloni a Berlino qualche mese fa, sono ora io a recarmi a Roma per colloqui politici con lei e con il presidente della Repubblica Mattarella. Lavoriamo bene insieme a livello dell’Unione europea, nell’ambito della Nato e del G-7».

Uno dei temi sui quali Germania e Italia appaiono in disaccordo è la politica industriale. La Germania è il Paese dell’Ue che elargisce più aiuti di Stato ai settori d’avanguardia, come i semi-conduttori e il clean tech. Quanto è sostenibile un’Europa dove ogni Paese finanzia da sé gli investimenti industriali?
«A mio avviso, le decisioni del governo tedesco rientrano nel quadro di ciò che altri Paesi dell’Ue fanno per la competitività della loro industria. Insieme ci preoccupiamo di rendere l’economia dei nostri Paesi in grado di affrontare il futuro, in condizioni di neutralità climatica e digitalizzazione. Questa grande ristrutturazione del nostro settore industriale comporta uno sforzo massiccio da parte di tutti gli attori, compreso lo Stato. In tal modo faremo sì che l’Ue rimanga competitiva.

Siamo d’accordo sulla necessità di rendere la legislazione europea sugli aiuti statali ancora più agile e flessibile nel tempo, in modo che gli investitori sappiano fin da subito quali aiuti possono aspettarsi. Dobbiamo anche rafforzare le condizioni quadro per gli investimenti in Europa nel suo complesso. Per esempio, occorrono procedure amministrative e di approvazione accelerate, quando si tratta di tecnologie chiave per la trasformazione. La presidente della Commissione europea ha formulato in merito proposte importanti, che vanno nella giusta direzione. Tutti i Paesi europei devono affrontare queste sfide per essere in grado di approfittare della crescita futura».

Sulla riforma del patto di Stabilità e crescita, il suo ministro delle Finanze ha espresso una posizione negativa sulla proposta della Commissione, basata sui cosiddetti percorsi differenziati di rientro. La Germania vuole ancora regole di bilancio severe e identiche per tutti?
«Il governo tedesco ha avanzato fin dall’inizio proposte costruttive e ha reagito in modo differenziato alle considerazioni della Commissione europea. L’importante è che tutti i cittadini abbiano la certezza che il loro Stato continuerà a essere in grado di agire e a mostrare solidarietà anche in tempi di crisi. Ciò richiede stabilità fiscale, regole chiare rispettate e un quadro comune trasparente. Non si tratta di condurre espressamente singoli Stati in una crisi di austerità, ed è per questo che da ministro delle Finanze ho contribuito a proporre il fondo di ricostruzione affinché l’intera Europa possa superare la crisi. Ora nei colloqui con i partner comunitari, si tratta di garantire la crescita, la sostenibilità del debito e gli investimenti, in modo che la trasformazione delle nostre economie nazionali abbia successo».

Anche in tema di migrazioni, ci sono divergenze tra Italia e Germania. In particolare, Roma è contraria alla recente proposta tedesca di creare degli hot spot ai confini esterni dell’Unione, cioè anche in Grecia e Italia, per la prima gestione degli arrivi. Cosa dirà alla presidente del Consiglio Meloni su questo tema? Ci possono essere punti di convergenza e quali sono?
«Innanzitutto, Italia, Grecia e gli altri Paesi mediterranei affrontano una sfida enorme, poiché il numero dei rifugiati che arrivano ai loro confini è in aumento. Non possiamo lasciare l’Italia e gli altri Paesi da soli, ma dobbiamo adottare un approccio di solidarietà e responsabilità. La Germania da parte sua è particolarmente colpita dall’immigrazione secondaria: lo scorso anno non solo più di un milione di donne e uomini provenienti dall’Ucraina sono fuggiti nella Repubblica Federale, ma anche 230 mila rifugiati provenienti da altri Paesi sono venuti da noi, nonostante non abbiamo un confine esterno dell’Ue. Pertanto, abbiamo bisogno di una distribuzione solidale di responsabilità e competenza fra gli Stati membri dell’Ue nonché del rispetto degli standard per chi richiede protezione nelle procedure di asilo e di integrazione negli Stati dell’Ue. Il mio governo è fortemente impegnato in una riforma del Sistema europeo comune d’asilo (Ceas, ndr) e a nostro avviso ciò richiede ulteriori sforzi a livello comunitario per rendere più efficaci il controllo e la protezione delle frontiere esterne, in modo umano e nel rispetto delle regole vigenti. Sulla forma esatta delle proposte, intense discussioni sono in corso a Bruxelles e anche la Germania vi contribuisce. Inoltre, proponiamo di lavorare con i Paesi d’origine e quelli di transito per ridurre in modo sostenibile gli arrivi irregolari e consentire invece vie d’accesso legali. Questo non è in contraddizione con la posizione dell’Italia».

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