Il problema della segretaria del Pd Elly Schlein oggi sembra il suo stesso partito, più che gli avversari
Chi ritiene che la segretaria del Pd, Elly Schlein,
sia ambigua ha ragione solo in parte. In realtà, in questi mesi ha
scelto. Ha riassorbito gli scissionisti di Pier Luigi Bersani, e cioè un
frammento di sinistra. Ha partecipato a manifestazioni col Movimento
Cinque Stelle, a costo di suscitare qualche domanda e sospetto sulla
scelta atlantista. E ha marcato le distanze da ciò che rimane del Terzo
Polo di Carlo Calenda e Matteo Renzi. Non è detto nemmeno che questa
deriva, completata con una presenza di piazza sempre più marcata, non le
dia quel primato delle opposizioni al quale anela per le Europee. Il
problema sarà su quale agenda, e dunque per farne che cosa. Ieri, forse
consapevole di essersi confusa un po’ troppo con le parole d’ordine
anti-Nato e «pacifiste» di Giuseppe Conte e con le proposte sgangherate
di Beppe Grillo sulle «brigate di cittadinanza», ha fatto una rapida
marcia indietro. Sull’Ucraina si è allineata al capo dello Stato Sergio
Mattarella, che non ha mai permesso equivoci sulla politica estera
italiana. E ha ribadito che su quel tema esiste «una distanza siderale»
tra Pd e grillismo. Precisazione doverosa, accompagnata dall’impegno
scontato a promuovere la pace come obiettivo finale; e da un invito al
resto delle minoranze a unirsi sui temi sociali, perché altrimenti la
destra di Giorgia Meloni vincerà a lungo.
Ma il problema della segretaria del Pd oggi sembra il suo stesso partito, più che gli avversari; e, sull’aggressione russa all’Ucraina, l’atteggiamento del M5S che aspetta solo di infilzarla di nuovo, accusandola di essere troppo filo-Usa. L’accerchiamento, dunque, è doppio: all’interno e all’esterno del Pd. Anche se essere accerchiata e poi ricevere due minuti di applausi dalla Direzione del proprio partito, come è accaduto ieri, può apparire una contraddizione. E in effetti lo è, sebbene non per un Pd abituato da tempo a bruciare leader fingendo di sostenerli; e con una nomenklatura che minaccia scissioni, si dice pronta a «prendere atto» di non avere spazi; ma poi esita a trarne le conseguenze, perché in realtà spazi di manovra e bacino elettorale sono ridotti.
Sudato, appassionato, grintoso, quasi rabbioso. Sabato Giuseppe Conte
ce l’ha messa tutta per tirarsi fuori dal cono d’ombra in cui era
finito all’indomani delle elezioni politiche. Solo che anche stavolta ci
ha pensato Beppe Grillo
a rubargli la scena. Il comico, in silenzio da troppo tempo, è salito
sul palco della manifestazione contro la precarietà e ha cominciato a
parlare di «passamontagna» e «brigate di cittadinanza». Il risultato è
che da due giorni non si parla d’altro. Grillo è diventato quasi un
intralcio per Conte. Travolto dalle polemiche, il Garante è costretto a
ingranare la retromarcia. Così prepara un video pacificatore.
«Fermatevi, era una boutade. È possibile che prendiate tutto sul serio?
Anche i giornali hanno esagerato un po’. Fermatevi», esordisce il
comico. Che poi ironizza: «Mi sono arrivate delle notizie drammatiche è
stato avvistato un idraulico di 70 anni che aggiustava 6 tombini di
notte con il passamontagna. È stato visto un albanese di 64 anni con
cazzuola che ha messo a posto 8 marciapiedi durante la notte con il
passamontagna». Il resto del filmato corre tutto sul filo del paradosso,
scandito dai refrain «fermatevi» e «finitela».
Diventa
un caso anche una riunione di Conte con i capigruppo di Camera e Senato
nella sede del Movimento a Roma. Presente anche Rocco Casalino. Alcune
indiscrezioni parlano di un briefing convocato per discutere delle
parole di Grillo. Dall’entourage dell’avvocato smentiscono con forza.
«Si è trattato di una riunione di routine sui lavori parlamentari, per
noi non c’è nessun caso-Grillo», dicono gli uomini dell’ex premier.
Respinta anche la voce secondo cui il video riparatorio di Grillo sia
stato ispirato da un pressing di Conte. «Non si sono sentiti, è stato
Beppe che ha deciso di intervenire», la precisazione. Eppure la
sensazione è quella di un nervosismo palpabile tra i contiani. Anche
perché non è la prima volta che una provocazione di Grillo finisce per
danneggiare il leader del M5s. I due staff non si parlano, infatti lo
stesso Conte non si aspettava affatto un discorso così dirompente del
fondatore dal palco della manifestazione romana di sabato. «Beppe ci ha
rovinato la festa», sospira un deputato grillino. E nel gruppone in
Parlamento c’è chi sospetta che Grillo abbia messo in difficoltà Conte
di proposito, in preparazione di una nuova svolta ortodossa del M5s.
Magari dopo le europee, forse con una nuova leadership. E si fanno
sempre i nomi di Virginia Raggi e Chiara Appendino.
La grande forza di Elly Schlein – ormai lo hanno capito sia i giornalisti che tentano di cavarle qualche risposta non impalpabilmente fumosa che i critici interni al Pd – è la padronanza professionale della tecnica del “muro di gomma”
Ascolta ora: “Schlein è già in crisi: “Ora vi chiedo lealtà”. E la minoranza sbotta: “5 Stelle irricevibili””
La grande forza di Elly Schlein – ormai lo
hanno capito sia i giornalisti che tentano di cavarle qualche risposta
non impalpabilmente fumosa che i critici interni al Pd – è la padronanza
professionale della tecnica del «muro di gomma».
Lo si è visto
nella Direzione Pd che si è tenuta ieri, preceduta da mille scontri e
polemiche dopo il penoso scivolone che ha portato il Pd a omaggiare,
leader in testa, la recente manifestazione – a metà tra Mosca e Caracas –
del Movimento Cinque Stelle. E finita a tarallucci e vino con un voto
sul nulla (un vago ordine del giorno sulle «7 priorità del Pd») dopo un
lungo braccio di ferro con la minoranza che, per la prima volta, ha
rifiutato di votare la relazione del segretario.
Alla
Direzione, rinviata più volte, Schlein arrivava fiaccata dalla pessima
prova elettorale degli ultimi ballottaggi e dalla bufera interna per
essersi accodata in piazza al populismo sguaiato di Grillo, Conte &
Co. Col corredo di alcuni clamorosi abbandoni dell’ultim’ora: prima l’ex
candidato alla guida della regione Lazio, Alessio D’Amato («Errore
politico grave andare a quella manifestazione») poi quello di Concetta
Chimisso, vice-segretaria Pd del Molise, dove si vota domenica e dove il
Pd si è fatto imporre il candidato governatore dai grillini. Come ha
aggirato l’ostacolo? Con la consueta tecnica: un profluvio di
chiacchiere prolisse sulle «sette grandi questioni» su cui il Pd deve
impegnarsi alla pugna in una «estate militante»: dal Pnrr alla sanità
pubblica, dal «diritto alla casa» alle tasse, dal «cambio del modello di
sviluppo» tramite «nuovo piano industriale» che verrà svelato «a
settembre» al lavoro per tutti fino al «primo grande confronto
sull’università guidato da Alfredo D’Attorre» (e scusate se è poco).
Una
volta stremata la platea, Schlein spiega di non aver sbagliato niente:
andare a baciare la pantofola a Conte e Grillo era sacrosanto, perchè
«il centrodestra si presenta sempre unito e noi dobbiamo fare lo
stesso». Le polemiche? Tutte strumentali: chi tra voi mi critica, dice
in pratica Elly, fa il gioco di Giorgia Meloni
e della destra, che «manovra le leve dell’informazione per trascinarci
allo scontro interno». Certo, «i ballottaggi sono stati una sconfitta»,
ammette. Ma «secondo i sondaggi ho già fatto guadagnare al Pd due
milioni di voti: 20mila voti al giorno». Certo hanno l’handicap di
essere voti virtuali perchè poi, quando è ora di votare, quei 20mila non
pare si presentino alle urne, ma sono sottigliezze. Elly è convinta di
poter raggiungere «il traguardo che ci siamo posti: restituire alle
forze progressiste la guida del paese».
Mentre in Italia – forse – finiva un’era, il mondo tira
avanti imperterrito. Ieri, a Pechino, il Segretario di Stato americano
ha incontrato Xi Jinping. Snodo diplomatico chiave negli equilibri
mondiali. Non ci aspettava un granché, né un granché c’è stato. Non era
un negoziato, non era un vertice, non erano in gioco guerra e pace. La
visita di Antony Blinken in Cina era semplicemente il banco di prova
della capacità, o meno, delle due maggiori potenze mondiali di gestire
competizione e rivalità fra di loro. Non è emerso nulla di conclusivo se
non la reciproca volontà di provarci. La strada imboccata potrebbe
condurre a un incontro fra Xi Jinping e Joe Biden entro la fine
dell’anno. Quella di ieri è stata diplomazia per creare le condizioni
per altra diplomazia. Non un risultato da poco vista la posta in gioco.
Cina
e Stati Uniti sono apertamente in concorrenza per la supremazia
internazionale – politica, economica, tecnologica, ideologica. Entrambi
lo riconoscono. Questa gara può finire in due modi: con un “vinca il
migliore” senza esclusione di colpi ma pacifico; in un conflitto,
inevitabilmente mondiale. Il primo richiede che i due contendenti si
diano le regole del gioco – e le osservino. E il primo passo consisteva
nel mettere le carte in tavola. È quanto ha fatto Blinken a Pechino, non
solo e non tanto nell’incontro con Xi durato una quarantina di minuti,
ma in quelli con il suo omologo, il Ministro degli Esteri Qin Gang, e
con il predecessore di Qi Gang, Wang Yi, oggi a capo della Commissione
affari esteri del Partito comunista cinese (tre ore). Entrambe le parti
non hanno lesinato rimostranze. Buon punto partenza per continuare il
dialogo. Pechino e Washington si trovavano infatti agli antipodi su una
lunga lista: Taiwan; guerra russo-ucraina; diritti umani; Tibet,
Sinkiang, Hong Kong; competizione tecnologica; crescente rivalità
militare nel Pacifico. Meglio dirselo.
La Cina risente del
contenimento americano esercitato attraverso una rete di cooperazioni
politico-militari dal Quad (Usa, India, Giappone, Australia) all’Aukus
(Usa, Uk, Australia) e collaborazioni bilaterali, da ultimo con le
Filippine. Teme le conseguenze sulla propria economia dei controlli
all’esportazione americani – e in prospettiva europei – sull’alta
tecnologia. Washington vuole tenere a bada l’espansionismo cinese e le
pretese territoriali su arcipelaghi (talvolta scogli su cui costruire
basi militari) del Mar cinese meridionale e orientale che, oltre a
urtarsi contro il diritto internazionale marittimo e/o scontrarsi con
altri Paesi, dal Giappone al Vietnam, darebbero a Pechino il controllo
di acque attraverso cui passa più della metà del commercio mondiale. Sul
piano economico e tecnologico non sono soltanto gli americani ma anche
l’Unione europea e il G7 ad aver adottato la strategia di minimizzazione
del rischio (“de-risking”) per allentare la dipendenza dalla Cina che,
ad esempio, ha praticamente il monopolio di minerali rari come il litio,
essenziali per la transizione energetica.
Queste divergenze
fermentano tutte da tempo ma ormai lievitano, con una Cina sempre più
assertiva, militarmente in crescita, tornata col XX Congresso al primato
leninista della politica sull’economia, e Stati Uniti oscillanti fra
unilateralismo protezionista dell’America first di Donald Trump alla
politica delle alleanze di Joe Biden – entrambe percepite a Pechino come
due versioni di un’identica matrice anticinese. Si sovrappone la sempre
più marcata dimensione ideologica dello scontro fra autocrazie e
democrazie. Assicurandosi il terzo mandato con una scoperta vena di
culto della personalità, Xi Jinping ha abbandonato ogni apparenza di
sistema guidato da regole collegiali e, chissà, di possibili
convergenze. Non nasconde la convinzione che Stati Uniti, e intero
Occidente, siano in definitivo declino e, di conseguenza, il futuro
appartenga alla Cina, in rivincita sulle umiliazioni subite nell’era
coloniale.
Negli stessi minuti in cui la segretaria del Pd Elly Schlein
interviene in Direzione nazionale, da Milano il sindaco Beppe Sala la
sprona a «essere chiara su come la si pensa», perché se c’è una cosa che
l’elettorato non perdona «è il fatto di cercare di tenere il piede in
due scarpe». In quest’intervista pubblica che inaugura la tre giorni del
Forum della partecipazione, Sala ragiona sul centrosinistra – «bisogna
rendere questo Paese contendibile» -, difende l’abolizione dell’abuso
d’ufficio – «il Pd avrebbe dovuto ascoltare un po’ di più i sindaci» -,
affronta temi sensibili come la gestazione per altri.
In Direzione Pd, Schlein si deve difendere dalla minoranza che le rimprovera di essere andata in piazza coi Cinque stelle… «Più o meno si va ovunque, non crocifiggerei Elly perché ci è andata, dopo tanti pensamenti».
Allora qual è il problema? «In
una chat di sindaci del Pd, uno ha scritto: se si guarda alla
piattaforma programmatica di quella giornata dei Cinque stelle, si
trovano almeno sette punti su cui il Pd ha votato in maniera opposta.
Posto che non si vince se non si compone il campo del centrosinistra,
con il M5S bisogna parlare. Ma bisogna essere chiari su come la si
pensa, poi si vedrà se c’è la forza di stare insieme».
Elly Schlein ha promesso fin dall’elezione che avrebbe tenuto una linea chiara. «In
quella piazza c’erano sette punti su cui il Pd ha votato contro: allora
vai e porti la tua opinione, o vai e implicitamente appoggi? Conoscendo
Elly Schlein, non penso sia andata implicitamente ad appoggiare, ma
bisogna che sia chiaro».
Come ha interpretato la frase sulle brigate col passamontagna di Beppe Grillo? «Grillo
lo conosco bene, anche se adesso ci sentiamo poco. Fa cose che a volte
sono discutibili: questa lo è. Conoscendolo, so che va derubricata a
provocazione. Ma in momenti così delicati, in cui già non si capisce più
dove sta la differenza tra realtà e fake news, non va bene aggiungere
l’entropia di un dibattito inutile».
Sui diritti si può cercare una convergenza tra opposizioni? «Anche
su questo, il tema è dire come la pensiamo. La gente non ti perdona il
fatto di cercare di tenere il piede in due scarpe. Ci sono temi che sono
etici: non è etico il tema di inviare o non inviare armi all’Ucraina?
Ma quando decidi, non puoi poi esitare».
È cominciata la
discussione sulla legge voluta dalla maggioranza per rendere la
Gestazione per altri reato universale. Cosa ne pensa? «Il
mio mondo, il mondo di sinistra, su questo è diviso, capisco che ci sia
una sensibilità cattolica, però io dico: bisogna affrontarlo. E farei
una provocazione…».
Dica. «Abbiamo visto
Giorgia Meloni ricevere e abbracciare Elon Musk, che ha un figlio avuto
con la Gpa. Allora se sei ricco, etero, potente, magari di destra, ti è
permesso, mentre se sei totalmente diverso, ti faccio la guerra. Eh,
mettiamoci d’accordo…».
Lei ha dovuto interrompere la trascrizione dei figli delle coppie omogenitoriali. A che punto siamo? «Io
capisco che tutto nasca da una sentenza della Corte costituzionale, una
ratio c’è, ma siccome è una materia così frammentata e in evoluzione,
credo che se ne debba occupare il Parlamento».
Lo stop alle trascrizioni è burocrazia o ideologia? «Hanno
preso una sentenza della Corte costituzionale che gli veniva buona. Ma
ci sono anche sindaci dall’altra parte, come quello di Treviso, che
hanno trascritto: perché è il sindaco che ha di fronte i volti, sente le
storie, la fatica di quelle coppie».
A proposito di
sindaci, che impressione le hanno fattogli attacchi del ministro
Musumeci e del viceministro Bignami ai suoi colleghi delle città
alluvionate? «Io non ho capito perché Bonaccini abbia
lasciato correre l’idea che lui potesse essere il commissario. Nel
momento in cui vedi che la proposta non ha le gambe, lì si dice: va
bene, non io ma ditemi chi. Può darsi che il commissario non debba
essere Bonaccini, ma dicano chi è. Per quanto riguarda le dichiarazioni
di questi giorni, sono penose».
I sindaci, anche del
centrosinistra, sono in gran parte d’accordo con l’abolizione del reato
d’abuso d’ufficio, il Pd nazionale dice che andava rivisto ma non
abolito. Lei cosa ne pensa? «Ne ho parlato con i vertici
del Pd: guardate che l’abuso d’ufficio è stato già rivisto, e anche
tanto. Ma ancora i numeri dicono che condanne più patteggiamenti sono il
3 per cento dei processi avviati. Viene spontaneo dire: è una legge che
non ha senso. C’è un 3 per cento di condanne e un 100 per cento di
danno d’immagine. Credo che anche il Pd avrebbe dovuto ascoltare un po’
di più i sindaci su questo».
In questo Paese è ricorrente la discussione sulla cd.
«giustizia ad orologeria», il cui senso sta nell’attribuzione ai
magistrati che conducono indagini ed emettono sentenze di finalità
estranee ai loro doveri costituzionali. Meno frequente è quella sulle
«leggi ad orologeria», che pure abbiamo conosciuto. Basti ricordare la
stagione delle leggi ad personam, tra cui la riforma «epocale» sul
«giusto processo» (poi finita su un binario morto) che l’allora
presidente del Consiglio Berlusconi ed il ministro della Giustizia
Alfano presentarono alla stampa, nel marzo 2011, usando una vignetta con
due immagini: la prima raffigurava la dea della giustizia con bilancia a
piatti disallineati e la seconda con piatti perfettamente allo stesso
livello, cioè lo stato «pre» e «post» riforma. Un noto vignettista,
però, per spiegare quale sarebbe stata la situazione futura, disegnò la
bilancia con un piatto solo, mentre un ladro fuggiva con il secondo.
Forse questa vignetta potrebbe essere oggi aggiornata: se il Ddl di
riforma della giustizia passasse, il ladro ben potrebbe esservi
raffigurato mentre fugge con entrambi i piatti della bilancia.
Sì,
proprio così, perché questa riforma nuoce a tutti i cittadini,
coinvolti o meno in un processo, e giova solo ai responsabili di molti
reati, soprattutto quelli dei cosiddetti «colletti bianchi» o a chi non
accetta alcuna forma di controllo sul proprio agire.
È bene
partire dalle affermazioni del ministro della Giustizia secondo cui
l’Associazione Magistrati non potrebbe interloquire durante l’iter di
gestazione delle leggi, così come le sentenze non definitive non
potrebbero essere criticate dai politici: novità assoluta perché, al di
là del legittimo diritto di critica, negare quello di interlocuzione dei
magistrati sulle leggi in tema di giustizia – che non tocca affatto
solo al Csm – è del tutto illogico ed è conforme solo al principio del
potere unitario che tutto decide!
Passando ad esaminare i
contenuti più importanti del Ddl in questione, la prima proposta di
modifica riguarda la abrogazione del reato di abuso d’ufficio (art. 323
c.p.). A sostegno della scelta, pare, si siano schierati molti sindaci
che lamentano la genericità delle prescrizioni vigenti che li esporrebbe
a rischi di incriminazione e processi. Il che sarebbe confermato
dall’alto numero di processi aperti per tale reato a fronte di
successive poche condanne. A tale ultimo proposito, basterebbe ricordare
che le legge prevede l’iscrizione di un procedimento per qualsiasi
notizia di reato pervenga all’Autorità Giudiziaria. Il che è
obbligatorio senza determinare effetti pregiudizievoli per la persona
iscritta, anche quando la notizia è infondata e si deve poi provvedere
alla archiviazione. Ma, a parte questo, potrà essere forse condivisibile
uno sforzo per meglio tipizzare gli abusi penalmente sanzionabili, ma
non può essere accettabile far cadere qualsiasi tipo di controllo
giudiziario per sindaci ed altri amministratori pubblici, così da
lasciarli liberi, ad esempio, in nome di discrezionalità senza limiti,
di operare scelte favorevoli a persone a loro vicine o a società alla
cui gestione sono interessati. Cosa si potrebbe dire, in tali casi, a
cittadini meritevoli ed onesti o ad imprenditori corretti
rispettivamente aspiranti ad un lavoro pubblico o ad una licenza? Molti
altri esempi sarebbero possibili per dimostrare la possibile ulteriori
crisi del buon andamento e dell’imparzialità della P.A., conseguenze
prevedibili del principio in estensione del «meno controlli per tutti»,
già manifestatosi con l’intenzione di limitare l’efficacia dei controlli
della giustizia amministrativa su alcune scelte del Governo. E tra
l’altro, come è stato già rilevato, non si possono ignorare
raccomandazioni e risoluzioni sovranazionali che la Costituzione ci
impone di rispettare e che ci impongono – salvo la scelta di arrecare un
vulnus all’Ue – di non abolire tout court quel reato che, come hanno
ricordato magistrati esperti come Melillo e Ceccarelli, è previsto in
tutti gli Stati membri dell’Unione e in molti altri Paesi, al pari del
reato di traffico di influenze illecite, che punisce il mediatore tra
interessi di un corruttore e di un pubblico ufficiale corruttibile, e
per il quale si prevede, rispetto al testo vigente, una restrizione
dell’ambito di punibilità.
PADOVA. Trentatré famiglie, e chissà quante altre ce ne saranno, che
rischiano di venire cancellate da un atto giudiziario. I documenti
stanno venendo notificati in questi giorni ad altrettante coppie di
donne omosessuali di Padova. Contengono la richiesta della Procura,
indirizzata al Tribunale, di rettifica dell’atto di nascita dei loro
figli: eliminando il nome delle madri non biologiche, indicate come
“secondo genitore”, e rettificando i cognomi dei bambini, togliendo
quello della seconda mamma. Per una delle coppie il tribunale ha già
fissato la data dell’udienza per la discussione del ricorso: sarà il 14
novembre.
«Per nostra figlia rischia di essere un trauma, in
una fase delicata dello sviluppo. Non avrà più un fratello e una mamma»
dice la madre biologica della bambina. La donna ha 40 anni, come la
moglie; si sono sposate all’estero. La loro bambina ha quasi sei anni,
l’anno prossimo frequenterà la prima elementare. Ha un fratellino,
figlio della mamma non biologica. Dal 14 novembre, potrebbe non averlo
più. Dopo la richiesta, inviata ad aprile dalla Procura di Padova al
Comune, su impulso del ministro dell’Interno Piantedosi, di ricevere
tutti gli atti di nascita relativi ai bambini con due mamme, è arrivata
la risposta del pm: la richiesta di rettifica di tutti i 33 documenti.
Ed è una richiesta che amplia il raggio di quanto avvenuto a Milano,
dove già quattro atti di nascita erano stati impugnati. Tutti
successivi, però, alla pronuncia della Cassazione, che dal 30 dicembre
scorso proibisce la trascrizione per i bambini con genitori gay.
La
Procura di Padova invece è andata oltre, impugnando tutti gli atti dal
2017. Nel ricorso viene citata «la costante giurisprudenza della Corte
di Cassazione in materia», e, richiamando i compiti di vigilanza sullo
stato civile attribuiti dal legislatore alla Procura della Repubblica,
viene ritenuta «illegittima l’indicazione nell’atto di nascita in
questione del nominativo» della mamma non biologica «quale secondo
genitore». Se il tribunale dovesse accogliere la richiesta della
Procura, dall’oggi al domani questi 33 bambini si ritroveranno
formalmente orfani di uno dei loro genitori. Dall’oggi al domani, 33
mamme non saranno più nulla, per la legge italiana. Non potranno andare a
prendere i figli a scuola, portarli dal medico, firmare le
giustificazioni sul libretto scolastico. Il rapporto più solido spazzato
via da un atto giudiziario.
Domani al via l’esame che segna il
ritorno alla normalità, tranne che nelle zone alluvionate. Le tre prove,
i voti e i consigli dei nostri esperti
Si sono costituite ieri le 14 mila commissioni per l’esame di Stato che comincerà domani, mercoledì 21 alle 8:30 con la prova di italiano. Quest’anno la maturità torna ad essere l’esame completo, con tre prove,
di cui due scritti preparati dal ministero e l’orale. Si chiude così la
fase di emergenza dovuta al Covid quando si è sperimentato l’esame
light. Entro metà luglio, ci saranno i risultati, che come sempre sono
in centesimi. Le commissioni d’esame sono miste, tre membri interni, tre professori da altre scuole più il presidente.
Gli studenti e le studentesse che quest’anno si cimentano con l’esame
sono 536 mila. La maturità compie 100 anni, anche se nel tempo la
struttura è cambiata molte volte e persino il nome è diventato, dal
1998, Esame di Stato.
Per essere ammessi all’esame gli studenti hanno dovuto sostenere le prove Invalsi:
il risultato però non conta. Devono invece aver avuto negli scrutini la
sufficienza in tutte le materie e aver frequentato almeno due terzi
delle lezioni durante l’anno. Una curiosità: per chi prende la lode è
previsto un premio in denaro, che nel tempo però ha perso molto valore:
erano 1000 euro nel 2007, sono scesi a 73 euro nel 2022. Nel frattempo
le lodi si sono svalutate anche in numeri assoluti: erano circa 3.073
nel 2007 (pari allo 0,7 per cento), sono state la cifra record di 16.510
l’anno scorso (il 3,4 per cento).
La normalità
Anche se si torna alla normalità, l’esame terrà conto dei tre anni e rotti di emergenza sanitaria nei quali gli studenti sono stati per lo più in Dad. Dopo il tema torna la temutissima seconda prova ministeriale (l’anno scorso era stata predisposta dalle singole scuole perché non tutti erano riusciti a svolgere l’intero programma). Al classico sarà di nuovo latino (e non greco, più temuto dagli studenti) e allo scientifico niente fisica, solo matematica. Idem al linguistico: solo inglese. All’orale le domande dovranno limitarsi al programma effettivamente svolto in classe. Nelle zone alluvionate dell’Emilia Romagna, il governo ha deciso che non si faranno gli scritti. Gli studenti hanno lanciato una petizione per chiedere un esame uguale agli altri: «Non vogliamo agevolazioni».
La prova di italiano
Domani alle otto e trenta si scopriranno le tracce del tema di Maturità 2023.
I maturandi avranno sei ore per tentare di comporre un elaborato che
deve contemporaneamente tenere conto delle (tante) richieste contenute
in ciascuna traccia e cercare di essere, se non proprio originale,
almeno personale. In tutto le tracce sono sette. Due per la tipologia A,
il tema letterario: in genere una di prosa e l’altra di poesia.Tre per
la tipologia B, il tema argomentativo: qui si può spaziare dall’arte
all’economia. Due per la tipologia C, il tema di attualità che, a
dispetto del nome, spesso contiene un raffronto fra passato e presente:
un modo per reintrodurre la storia nel tema di Maturità dopo che la
commissione Serianni ha eliminato la traccia vera e propria di storia
che nessuno o quasi faceva più.
Il presidente del partito e governatore emiliano: «No ad approcci minoritari». Guerini: «L’Ucraina è una questione dirimente»
No, il redde rationem non c’è stato.
Nessuno lo voleva, del resto. La minoranza è convinta di poter
guadagnare spazio negoziale dalle difficoltà di Schlein, perciò niente scontro diretto. Ma è la prima volta nella storia del Pd che chi è alla guida solo da pochi mesi riceve tante critiche in Direzione. Non era mai successo prima. Nemmeno con il pur divisivo
Matteo Renzi
.
C’è chi usa il tono soft, come Stefano Bonaccini, e chi, per esempio Lorenzo Guerini,
è più duro. Così alla fine per non rimandare all’esterno l’immagine di
un partito spaccato Schlein, dopo una trattativa convulsa, accetta di
non metter ai voti la sua relazione («Non te la possiamo votare», gli
spiega l’area Bonaccini) ma solo i sette punti su cui la segretaria
intende mobilitare il Pd, in modo da avere il si di tutti o quasi.
Erano anni che le Direzioni si chiudevano con il voto sulla relazione del segretario.
Dunque il malcontento c’è e si vede. Come dimostrano le fuoriuscite di
alcuni. Clamorose, o silenziose, come quella dell’ex segretaria dei
pensionati della Cgil Carla Cantone,
deputata nell scorsa legislatura. Sullo sfondo, la decisione dei
sostenitori del «governatore» dell’Emilia-Romagna di indire una
«convention» il 22 e 23 luglio, forse a Cesena, per strutturare l’area.
Non la nascita di un «correntone» (sarà invitata anche la segretaria,
per dimostrare che non c’è nessun intento ostile) ma poco ci manca.
Rilievi e critiche sembrano però rimbalzare su un muro di gomma: Schlein
ha tutta l’intenzione di andare avanti secondo i suoi piani.
Bonaccini è tra i primi a parlare:
«Io non credo che con il congresso di febbraio abbiamo archiviato la
vocazione maggioritaria perché se fosse così avremmo archiviato il Pd.
Non è con approcci minoritari che mandiamo all’opposizione la destra». E
ancora: «Alla segretaria dico che se gestione unitaria deve essere si
discuta di più e meglio di quanto fatto finora, perché un grande
partito, che è altra cosa da un movimento, solo così si tiene fuori da
logiche correntizie». È d’accordo col partecipare a manifestazioni di
altri «ma noi dobbiamo essere la forza trainante, mai metterci a
rimorchio».
Poi tocca ad Alessandro Alfieri, che non risparmia critiche alla segretaria. Quindi Gianni Cuperlo si
rivolge così alla leader: «Abbiamo una scalata da fare in montagna,
meglio farla in cordata e non credere che chi è dietro è zavorra». Ed è Giorgio Goria introdurre il tema della giustizia:
prende gli applausi quando cita Enzo Tortora. E continua: «Di fronte a
proposte che non sono perfette ma che segnano un cambiamento, non ci
possiamo fermare solo a un riflesso dettato dal nostro essere
all’opposizione». Insomma, Gori invita il Pd a discutere nel «merito» il
ddl Nordio e non a dire un no pregiudiziale all’abolizione dell’abuso
d’ufficio. Interviene anche Matteo Orfini: «La segretaria si fidi del Pd, che è un partito complicato e plurale e quindi va gestito con la fatica della direzione politica». Duro il discorso di Pina Picierno. Per la vice presidente del Parlamento europeo «partecipare alla manifestazione del M5S è stato un errore».
Allarme nell’Atlantico. Il biglietto costa 250 mila dollari
Per alcuni è un sogno poter vedere il
Titanic con i propri occhi. Scoperto nel 1985 sul fondo oceanico, il
relitto del transatlantico più grande della sua epoca che affondò nel
1912 dopo lo scontro con un iceberg portando con sé 1.500 anime continua
a colpire l’immaginazione collettiva, al punto da diventare meta
turistica. Ma un piccolo sommergibile chiamato Titan,
usato per portare i turisti sul sito, a 3.800 metri di profondità e a
circa 640 chilometri di distanza dall’isola canadese di Terranova, è scomparso ieri nei pressi del relitto.
A bordo
La capienza del Titan è di cinque persone. A bordo l’imprenditore ed esploratore britannico Hamish Harding, che aveva scritto sui social di essere in «compagnia di un paio
di leggendari esploratori che si sono immersi per vedere il Titanic
trenta volte dagli anni Ottanta ad oggi». Secondo Sky News sarebbero
l’esperto esploratore
francese Paul-Henry Nargeolet e il fondatore e amministratore delegato
della compagnia che ha organizzato la spedizione, Stockton Rush.
La missione — la terza di
quest’anno — era stata organizzata dalla compagnia privata OceanGate
Expeditions, che chiede 250mila dollari a persona. Normalmente ci sono tre ospiti paganti oltre al pilota e a un «esperto».
«Sto provando a realizzare un sogno. Qualcuno sogna di comprare una
Ferrari, altri una casa, io volevo andare a vedere il Titanic. E i sogni
non hanno prezzo», ha detto Renata Rocas, una banchiera che fece
quest’esperienza la scorsa estate. «Abbiamo clienti appassionati del
Titanic, li chiamiamo Titaniacs —
ha detto l’amministratore delegato della società Stockton Russ, che ha
paragonato queste spedizioni al nascente turismo spaziale —: c’è gente
che ipoteca la casa per fare il viaggio». La visita prevede la partenza
in nave da St. John’s, la capitale della provincia di Terranova e
Labrador, in Canada, fino al punto in cui avviene l’immersione. Sul sito
web della compagnia vengono pubblicizzati viaggi di otto giorni
descritti come «un’occasione per scoprire qualcosa di veramente
straordinario». Questa spedizione era giunta sul luogo domenica mattina, stando a un post su Facebook di Harding.
I contatti sono stati persi domenica sera. L’autonomia di ossigeno
disponibile è di 96 ore, ieri poco dopo l’inizio delle ricerche ne erano
passate circa 32. Harding aveva aggiunto che sarebbe stata l’unica
spedizione dell’anno a causa delle condizioni meteorologiche.
La liberatoria
Per salire a bordo bisogna firmare una liberatoria, come racconta il giornalista David Pogue, ospitato un anno fa per un servizio su Cbs News. «Non dirò bugie: ero un po’ nervoso, soprattutto a causa delle scartoffie da firmare: “Questo natante — c’era scritto — non è stato approvato o certificato da nessun organismo di regolamentazione e potrebbe provocare lesioni fisiche, traumi emotivi o la morte”». Nel suo caso, per due volte i tentativi di raggiungere il fondale erano falliti, prima di riuscirci e le comunicazioni con la superficie si erano interrotte per un paio d’ore.