Scontro di fuoco a Di martedì, il talc show condotto da Giovanni Floris su La7. Protagonista il rettore dell’Università per stranieri di Siena, Tomaso Montanari.
Come è noto il numero uno dell’ateneo toscano non ha accettato di
tenere le bandiere a mezz’asta per il lutto nazionale dedicato a Silvio
Berlusconi. Anche in questa occasione Montanari ha cercato di
distinguersi, ma nel modo sbagliato.
E così a Di Martedì si parla proprio di questa scelta. Mauro Mazza va all’attacco: “Questa è una scelta meschina, va assolutamente detto”. Parole pesantissime che hanno scaldato lo studio. A questo punto è intervenuto telefonicamente proprio Montanari che con un blitz durante la puntata ha ribadito la sua scelta: “Pronto? Ecco, buonasera, vorrei dire una cosa: l’università è autonoma e quindi abbiamo deciso così”. Mazza lo incalza: “Professore ha deciso lei o l’università”. La replica: “Io sono il capo di questa università e dunque ho deciso io”. Mazza lo gela: “Bene allora dica che ha deciso lei, tolga il ‘noi'”. Ma è Massimo Magliaro, ex vicedirettore del Tg1, a chiudere i giochi con una parola urlata in studio che difficilmente non è condivisibile: “Vergogna!, vergogna!”. Nulla da aggiungere se non che Montanari ha perso l’ennesima occasione per tacere.
C’è chi ha visto nel video pubblicato nei giorni scorsi direttamente dai canali del Cremlino un chiaro sintomo di gelo politico: il presidente Vladimir Putin e il ministro della Difesa, Sergej Shoigu,
sono assieme all’interno di un ospedale militare di Mosca in visita ai
soldati feriti in Ucraina ma, a guardare bene le immagini, i due si
ignorano. Non è detto però che ciò sia avvenuto di proposito, del resto
anche lo stesso Cremlino è ben consapevole dell’importanza di non far
trasparire all’esterno possibili screzi interni.
Ad ogni modo, fino a oggi Putin non ha espressamente preso le difese
del suo ministro della Difesa. Nemmeno dopo gli ultimi violenti attacchi
verbali da parte di Evgenji Prigozhin, il capo della Wagner che ha addirittura evocato una fucilazione per Shoigu e per il capo di stato maggiore, Valerji Gerasimov.
Nelle ultime ore ha lanciato ulteriori gravi accuse contro Mosca: “La
verità – ha detto Prigozhin sul proprio canale Telegram – è che il
ministero della Difesa ha provato a distruggerci”.
Il rifiuto di Prigozhin di firmare accordi con la Difesa
L’ultimo episodio detonatore di una tensione latente da mesi tra
Prigozhin e Shoigu, è dato dalla volontà del ministro di inquadrare
contractor, miliziani e mercenari nei ranghi della Difesa. Farli cioè
dipendere direttamente dal proprio ministero. Una mossa, secondo le
intenzioni rese note da Mosca, volta a unificare la cabina di regia per
le operazioni belliche in Ucraina. Per Prigozhin però
ci sarebbe altro in ballo. Secondo il fondatore e capo della Wagner, la
più importante compagnia di mercenari russa, il ministero vorrebbe
semplicemente riprendere il comando dopo che l’esercito regolare su più
fronti è andato in difficoltà ed è stato salvato solo dall’intervento
delle milizie.
Prigozhin non ha quindi gradito. Giudica la volontà di Shoigu in
chiave negativa, sia nei modi che nel merito. “La Wagner non firmerà
alcun contratto con Shoigu – ha dichiarato Prigozhin in un
audiomessaggio diffuso su Telegram – Il ministro della Difesa non è in
grado di controllare in modo appropriato le formazioni militari”.
Dunque, la sua compagnia continuerà a rimanere autonoma.
Mentre le forze ceceni di Kadyrov sabato hanno
firmato gli accordi inquadramento nella cabina di regia del ministero,
rispettando quindi l’ultimatum imposto da Shoigu, la Wagner è rimasta
fuori da ogni intesa. E martedì lo stesso Prigozhin ha ulteriormente
rincarato la dose: “Non è detto che la compagnia resti in Ucraina dopo
la presa di Bakhmut – ha dichiarato in un’altra nota – Come questione di trolling, posso dire che ci trasferiremo nel nord del Messico“. Una provocazione conclamata quest’ultima, ma indicativa dell’aria che si respira tra la compagnia e il ministero.
Il nuovo attacco frontale del capo della Wagner contro Shoigu
Le ultime frasi di Prigozhin sono arrivate dopo un deciso attacco
verbale sferrato in un video del 5 giugno scorso. È qui che il
comandante dei mercenari russi ha esplicitamente parlato di fucilazione per Shoigu. Non solo per il ministro ma, come detto in precedenza, anche per il capo di stato maggiore Gerasimov.
Attacchi molto duri, difficilmente digeribili dalla leadership russa
in tempo di pace e maggior ragione adesso in tempo di guerra. L’accusa
principale per il ministro e per il capo di stato maggiore è data
dall’essere considerati incapaci e dal non voler portare a termine la
missione in Ucraina.
Non solo ma, sempre secondo Prigozhin, ci sarebbe stato un tentativo di vera e propria distruzione
della sua compagnia. “È avvenuto mentre combattevamo a Bakhmut – ha
rimarcato su Telegram – non stiamo parlando solo di qualche
interferenza, ma di una distruzione fisica e intenzionale. Da Mosca
hanno provato a chiuderci dentro la città e lasciarci senza armi”.
L’eterno duello tra la Wagner e la Difesa
Quello in corso in questi giorni non è certo l’unico confronto tra
Prigozhin e i comandi del ministero della Difesa e dell’esercito. Gli
scontri tra le due parti si sono acuiti durante il gravoso assedio di Bakhmut,
durato per mesi fino alla vittoria rivendicata dagli uomini della
Wagner. Prigozhin durante l’avanzata più volte si è rivolto contro
Shoigu e Gerasimov. Alla vigilia della festa del giorno della vittoria
del 9 maggio, il capo della Wagner ha visitato alcuni cimiteri militari dove sono stati sepolti i propri uomini caduti in Ucraina. Distese di tombe con le quali Prigozhin ha voluto sottolineare il tributo di sangue della Wagner, a fronte del poco sostegno, secondo la sua tesi, da parte del ministero della Difesa.
Pochi, pochissimi. Ma come al solito sguaiati e chiassosi. Un baccano
che potrebbe anche essere un trascurabile rumore di fondo, ma che viene
amplificato dal silenzio e dall’abbraccio, questa volta sì
maggioritario, degli italiani. La furia antiberlusconiana non si ferma
neanche davanti alla morte del fondatore del «core business» (come disse
il Cavaliere a Travaglio nella celeberrima puntata di Annozero passata
alla storia per la spazzolata) sul quale hanno campato lautamente gli
odiatori seriali di ogni risma.
Così, nel giorno della scomparsa
del leader di Forza Italia, mentre la maggioranza dei cittadini e dei
politici – di destra e di sinistra – rende omaggio a un uomo che ha
fatto la storia di almeno tre decadi del nostro Paese, una sparuta
pattuglia di irriducibili (senza dignità) continua ad attaccare il
Cavaliere anche ora che non può più difendersi.
E
il nuovo livello dello scontro – con sprezzo del possibile – è ancora
più infimo di quello che abbiamo conosciuto negli anni dell’odio più
velenoso. Non solo per le tempistiche degne del peggior sciacallaggio.
L’idea è che Silvio Berlusconi
non sia abbastanza un uomo di Stato da meritare i funerali di Stato e
il lutto nazionale. Silvio Berlusconi, l’uomo che ha seduto per più
giorni a palazzo Chigi nella storia della Repubblica italiana e il
politico che nel corso della sua carriera ha raccolto un bottino
ineguagliato di 240 milioni di preferenze. Ma evidentemente non è
abbastanza, non è sufficiente a giustificare una celebrazione non solo
doverosa, ma che costituisce solo un minimo risarcimento per le
persecuzioni e gli attacchi subiti dal fondatore del centrodestra.
Così,
gli ultimi giapponesi della sinistra anti Cav, cercano di mettere a
reddito anche i giorni del dolore per guadagnarsi uno strapuntino di
visibilità: giurano di non esporre la bandiera a mezz’asta fuori dagli
atenei universitari, si lamentano dei ricordi pubblici delle istituzioni
come se Berlusconi non ne fosse stato un rappresentante di prim’ordine
o, peggio ancora, sminuiscono o trasfigurano il ruolo politico che ha
avuto nella nostra storia recente. «Berlusconi catastrofe del Paese»,
«Egolatra pioniere dell’antipolitica», «La Repubblica del banana»
titolano i giornali progressisti, accodandosi, come diligenti
scolaretti, ai peggiori istinti della sinistra più violenta.
La morte di Silvio Berlusconi segna la fine di un’epoca. Il futuro di
Forza Italia è tutto da decifrare, mentre il passato è già oggetto di
analisi. Ospite del talk su La7 “diMartedì”, Corrado Augias, decano dei
giornalisti ed ex europarlamentare, ha ammesso che il Cavaliere era
innovativo e visionario: “Ha tolto il gesso e le giunture anchilosate
alla comunicazione politica ma al tempo stesso ha eliminato le forme che
stanno a una Repubblica come i riti a una chiesa”. Insomma, ha fatto
barcollare la democrazia. Secondo Augias c’è una somiglianza tra Silvio
Berlusconi e i successivi Donald Trump e Boris Johnson, così il
conduttore Giovanni Floris ha chiesto: “E a sinistra a chi
assomigliano?”, “Io non vorrei parlare della sinistra” ha risposto lo
scrittore dopo una breve pausa e un sospiro appena accennato. Poi ha
spiegato: “Non vorrei parlarne perché credo che la situazione sia molto
grave per la sinistra ed è un danno per il Paese non tanto per la
sinistra. La democrazia vive di equilibri, di contrasti civili, anche
aspri, forti, ma fondati su progetti e indirizzi”. Augias ha concluso
lapidario: “La sinistra in questo momento non è in grado di bilanciare
la destra”.
Quando pensi a una coppia solida, “granitica” ti vengono in
mente loro, Romano Prodi e Flavia Franzoni, 60 di amore, 54 di
matrimonio, sempre uno sguardo complice. E adesso che lei, ieri, se ne è
andata improvvisamente, mentre passeggiava con il marito, non riesci a
immaginare quel dolore, quell’assenza nella vita del “professore” come
lo chiamava lei. Una vita di studio e di impegno sociale che li ha visti
sempre uniti, appassionati, solidali. Anche lei insegnava, alla facoltà
di Scienze politiche dell’Università di Bologna: “Metodi e tecniche del
servizio sociale” . E quando si aprirono le porte di Palazzo Chigi
lei si adeguò al ruolo di first lady, ma a suo modo, con rigore e senza
mai prendersi la scena. Aveva un grande rispetto delle istituzioni,
capiva quale era il suo ruolo. Ma nonostante questo è stata sicuramente
fino alla fine la consigliera più ascoltata del marito. Un amore è
cominciato sui banchi dell’Università di Bologna quando lui insegnava e
lei studiava. «Eravamo vicini di casa» ha raccontato Prodi. «Ci siamo
conosciuti a Reggio e io facevo la corte a Flavia. Lei era bella, io
brutto, però dopo tre anni ce l’ho fatta e oggi siamo qui. Il trucco? La
manutenzione. Il segreto è la manutenzione degli affetti, necessaria,
perché nella vita ci sono sempre difficoltà e inconvenienti ma se c’è
affetto si supera tutto».
E per capire il segreto di questa lunga
storia d’amore basterebbe leggere il libro che hanno firmato in coppia:
“Insieme”, la parola che li ha accompagnati e identificati per tutti
questi anni in cui hanno fatto politica, ma in cui hanno sempre messo al
primo posto la famiglia, i due figli e poi i nipoti. Del marito Flavia
ha raccontato il lato privato: la sua capacità di chef la galanteria nel
ricordarsi gli anniversari e di presentarsi sempre con un mazzo di
rose, la voglia di esserci sempre per lei e per i ragazzi.
Sostiene Enrico Mentana che adesso, solo adesso, è finita la Seconda
Repubblica. Proprio oggi, con i funerali solenni di una persona che nel
bene e nel male l’ha tenuta insieme. «Viviamo in un’epoca in cui non ci
sono state figure di questo spessore mancate nel pieno dell’attualità –
dice il direttore del Tg La 7 -. Gli ultimi 30 anni in Italia
sono stati un referendum pro o contro Silvio Berlusconi. Ha inventato il
bipolarismo. Era al contempo, per i suoi pregi e i suoi difetti,
fortissimo e divisivo». E quindi, «credo debbano valere le parole del
presidente della Repubblica: se Sergio Mattarella gli tributa quella
descrizione, se è il primo a partecipare ai funerali insieme a capi di
Stato e di governo esteri, che senso hanno i distinguo?».
Berlusconi, i funerali di Stato oggi a Milano. DIRETTA Il lutto nazionale non aveva mai riguardato la morte di un ex premier. Le Camere resteranno chiuse quasi una settimana. Come fosse un re. «Lo dico da persona che non lo ha mai votato, ma non si può disconoscere chi per 9 anni è stato presidente del Consiglio in quattro diversi governi, dopo aver regolarmente vinto le elezioni, a differenza di Renzi, Letta, Gentiloni, Conte. È chiaro che è divisivo per questo motivo». E per quei “tanti difetti”. «L’antiberlusconismo è stato il grande male della sinistra italiana. Si parla tanto di egemonia culturale, e invece c’è stata una sorta di sudditanza davanti a un fenomeno mai capito davvero». Pier Ferdinando Casini ha detto che oltre a essere stato capace di aggregare la destra, Berlusconi è stato l’unico capace di unire la sinistra: contro di lui. «Il campo che è stato il grande protagonista della seconda metà del ‘900, dal 1994 in poi ha saputo descriversi solo come “diverso da Berlusconi”. Un chiaro segnale della sua crisi». Una sindrome di cui il centrosinistra soffre ancora oggi? «Penso che tante forze della sinistra, tanti muscoli della sinistra, siano stati persi in questa battaglia piuttosto che nel cercare contenuti su cui farsi votare. Sono passati 9 mesi dal 25 settembre: non sanno ancora spiegare perché hanno perso. Perché non hanno più una presenza sovrastante nelle periferie cui dicono di tenere. Perché non sono più tra gli operai e governano le città solo attraverso l’egemonia nei centri storici». Non è che il centrosinistra abbia vissuto di solo anti-berlusconismo, però. Anzi, ci è sceso a patti, ci ha governato insieme. «Perché sennò non governava. Il vero problema del Pd è che dopo non aver vinto le elezioni del 2013 ha guidato tre diversi governi, Letta, Renzi, Gentiloni. E quando gli è capitato di stare all’opposizione durante il Conte uno, un anno e due mesi, sembrava – anche quello – un lutto nazionale». Elly Schlein andrà al funerale, Giuseppe Conte no. «Se ci va il presidente della Repubblica bisogna spiegare perché uno non ci va. Mi pare sia come sulle armi all’Ucraina, un gioco di posizionamenti». Ma del centrodestra cosa sarà? Forza Italia era Berlusconi. «Forza Italia ha lo stesso problema della sinistra, ma al contrario. È vissuta di berlusconismo. Non è mai esistito un partito monarchico senza la monarchia. Il gaullismo senza De Gaulle ha resistito, ma poi ha desistito. Il franchismo senza Franco ha fatto lo stesso». Insomma, sparirà. «Quando un partito nasce su una figura forte non gli può sopravvivere. È quasi una legge, a meno che non trovi un’altra figura fortissima». Ne vede all’orizzonte? «No. Non sarà un caso che Berlusconi non abbia mai trovato un delfino». Forse non lo ha mai voluto. «Il suo partito era fondato sul culto laico della sua persona. Un culto scanzonato eh, lui era il primo a renderlo tale, ma come dicono gli inglesi: right or wrong my leader. Nel bene e nel male, non si può pensare diventi improvvisamente il partito di un altro».
Rifiutando la formula «Ursula», Berlusconi ha offerto una prospettiva alla destra che verrà dopo di lui
La versione ufficiale degli ultimi trent’anni, già consegnata a provvisori libri di storia, divide l’esperienza politica berlusconiana in due parti. La prima, la
«fase lunga», va dal 1993, quando Silvio Berlusconi si pronunciò a
favore di Gianfranco Fini sindaco di Roma, al 2011, allorché l’allora
presidente del Consiglio fu costretto a cedere a Mario Monti la guida
del governo. Nel corso dei diciotto anni Berlusconi è stato più
volte a Palazzo Chigi: la «fase lunga» è considerata anche per questo
un’epoca eroica, combattiva, vitale, creativa. La
«fase breve», durata poco più di dieci anni (2011-2023), è invece
tenuta nel conto di un lento, agonizzante declino, assai poco
significativo. Credo che, con l’andare del tempo, questo giudizio
andrà rivisto e l’esperienza politica di Berlusconi dovrà essere
riconsiderata proprio alla luce della stagione più recente. Non
foss’altro per il fatto che nel corso della «fase breve» l’uomo ha
saputo affrontare la prova più difficile della sua esistenza: la
condanna del 2013 e la resurrezione (da tutti ritenuta impensabile) che
lo ha riportato, pochi mesi prima di morire, tra i banchi di Palazzo
Madama.
Torniamo al 2011. Nel momento in cui consegnò a Monti i propri voti di maggioranza, Berlusconi probabilmente si rese conto che stava abdicando.
Al
di là delle apparenze, la scelta del 2011 era assai diversa da quella
per altri versi analoga del 1995 (con Lamberto Dini). All’epoca, anche
per le intemperanze della Lega di Umberto Bossi, Berlusconi poteva
mettere nel conto di essere sconfitto da Romano Prodi, di dover compiere
— come disse — una traversata del deserto, per poi, però, ripresentarsi ai nastri di partenza e vincere una seconda volta. Cosa che avvenne nel 2001: centrodestra contro centrosinistra in condizioni simili (più o meno) a quelle del 1994.
Dieci anni dopo, nel 2011, tutto era cambiato.
Berlusconi si arrendeva a una pressione europea e si rassegnava ad
entrare, intruppato con la sinistra, in una maggioranza di sostegno al
governo presieduto da Monti. Stavolta, a differenza del ’95, era chiaro
che a Palazzo Chigi non sarebbe tornato mai più. Dopo le elezioni del
2013 — nelle quali si affacciò trionfante il M5S — l’uomo di Arcore, pur
rinfrancato da un esito non deludente,
si sentì praticamente obbligato a donare i propri voti per la rielezione
di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, rassegnandosi poi a
tornare, da gregario, in una maggioranza a guida Pd. E fu il
governo di Enrico Letta. Trascorsero poche settimane e venne la condanna
di cui si è detto: uno scatto d’ira lo indusse a uscire da quella
maggioranza (ma i «suoi» ministri restarono con Letta). Qualche tempo
dopo acconsentì alla trattativa con Matteo Renzi per la riforma delle
istituzioni. Andata in frantumi, quella riforma, per l’elezione non
concordata al colle di Sergio Mattarella (2015).
Oltre a Mattarella, a Milano Meloni,
Salvini e Tajani. Poi Bossi, Orbán e gli ex premier Draghi e Monti.
L’ex ministra: era divisivo. Renzi: lei parla solo male di altri
Giuseppe Conte non andrà ai funerali di Berlusconi. È una decisione di quelle che creano un certo scalpore. Primo, perché a disertare una cerimonia di Stato è un ex premier. Secondo, perché il leader del M5S era in maggioranza con Berlusconi ai tempi del governo Draghi. Governo che i due, insieme a Salvini, fecero poi saltare.
Elly Schlein, invece, non seguirà l’esempio del suo futuribile alleato.
Dopo ore di tira e molla al Nazareno, che qualcuno nel Pd ha paragonato
al «mi si nota di più se vengo o se non vengo per niente» di Nanni
Moretti in Ecce Bombo, alla fine una decisione è stata presa. Schlein oggi andrà ai funerali.
Con la segretaria i capigruppo dem Chiara Braga e Francesco Boccia.
Prenderà parte alla cerimonia pure il segretario del Pd lombardo Vinicio Peluffo. Anche l’ex leader ds Fassino parteciperà alla cerimonia. E, se riuscirà a spostare un impegno all’estero fissato in precedenza, sarà presente pure Enrico Letta. Non hanno avuto esitazione alcuna a decidere di andare Renzi e Calenda, per una volta concordi.
Dunque,
Pd e Terzo polo non portano la battaglia politica contro il
centrodestra fino alle estreme conseguenze e di fronte alla morte del
leader di Forza Italia si fermano. Non così Conte. E come l’ex premier anche i rosso-verdi Fratoianni e Bonelli. I due hanno annunciato che diserteranno quell’appuntamento. Assente anche Bersani. Le opposizioni, quindi, non sono unite anche in questa occasione. Nel centrosinistra fa discutere la sospensione di una settimana delle votazioni di Camera e Senato, mentre divide e scatena polemiche la decisione di indire il lutto nazionale. Rosy Bindi, protagonista
di più di una polemica con Berlusconi è dura: «Il lutto nazionale per
una persona divisiva come Berlusconi non è una scelta opportuna. Ha segnato l’Italia in negativo e invece siamo nella fase della santificazione. Questo non va bene». Caustica la replica di Renzi:
«Rosy è una donna che ha visibilità quando parla male di qualcun altro.
Solitamente di Berlusconi, talvolta di me». Ma sulla stessa linea di
Bindi si attestano Riccardo Ricciardi dei 5 stelle e Fratoianni.
Accusa il primo: «Fa impressione una caserma della Guardia di Finanza
con la bandiera a mezz’asta per uno condannato per frode fiscale».
«Scelta eccessiva», la definisce Fratoianni, che chiede: «Quanti giorni
di lutto avrebbe dovuto fare il Paese quando uccisero Falcone e
Borsellino?». Tomaso Montanari, rettore dell’Università per stranieri di
Siena, annuncia che nell’ateneo non ci saranno bandiere a mezz’asta.
Se fossi chiamato a tenere un
discorso ai funerali di Stato, cosa che per fortuna dello Stato non
avverrà, e mi venisse chiesto un aneddoto — uno solo — in grado di
illustrare l’essenza dell’uomo, credo che ignorerei le tv, la politica,
il sesso e gli affari, e mi concentrerei su una monetina. Una monetina da cento lire, come quella che, nella primavera del 1990, dagli spalti dello stadio di Bergamo planò sulla testa del centrocampista Alemao, consentendo al Napoli di vincere la partita a tavolino e di precedere il Milan in classifica.
Berlusconi non se ne fece mai una ragione. Dapprima ordinò una perizia, nientemeno che all’università di Stoccarda, dalla quale risultò che
la parabola compiuta dalla monetina per scavalcare la recinzione che
separava il campo dalle gradinate ne aveva ridotto sensibilmente la
velocità, rendendola più innocua di un petalo di rosa. «Ma
essendo come san Tommaso» si infervorava nelle convention, «ho voluto
sperimentare anche di persona. Ho mandato mio figlio (in realtà il
maggiordomo) al primo piano di Arcore e gli ho ordinato di tirarmi una
monetina sulla testa. Poiché non ho sentito nulla, l’ho pregato di
salire al secondo e di tirarmela da lì: ho avvertito un dolore risibile.
Solo quando sono stato colpito dal terzo piano mi è venuto un
bernoccolo guaribile in tre giorni».
Era dunque questo, Berlusconi? Un uomo che per avere ragione adorava presentarsi come vittima, al punto da arrivare ad infliggersi il martirio da solo?
Dopo avere letto i giornali di ieri, compresi quelli stranieri che
quasi all’unanimità lo dipingono ingiustamente come un fenomeno da
baraccone, mi sono accorto che ognuno di noi ha il suo Berlusconi,
apparentemente incompatibile con quello degli altri. Come se ci fosse impossibile accettare che nella stessa persona possano coesistere il nostro pregiudizio e il suo contrario.
Marchionne, che era un po’
italiano e un po’ no, non si capacitava che l’uomo capace di accoglierlo
a Palazzo Chigi dicendo «sai perché i cannibali piangono mentre gli
esploratori bianchi cuociono in pentola? Per intenerirli» riuscisse a
conciliare lo spiritaccio da animatore di villaggio-vacanze con il senso
del business. Quando Marchionne disse
che non aveva tempo da perdere con le storielle, avendo molto da
lavorare, l’altro gli rispose che quello per lui era il lavoro: condire
gli affari di barzellette e di barzellette gli affari. Berlusconi era davvero tante cose, in contemporanea. Il
playboy vanesio del bunga-bunga, ma anche il classico italiano medio
che la sera costringeva le sue ospiti di palazzo Grazioli a sedersi
davanti a uno schermo per sorbirsi il rito a tutti noi
tragicamente noto del Filmino delle Vacanze, che per lui erano i viaggi
di Stato all’estero: Silvio con Bush, Silvio con Putin e Silvio con
Silvio, il suo preferito.
Momenti di commozione profonda tra i cinque eredi. Il ricordo sulle pagine del Corriere: «Grazie per l’amore. Vivrai sempre dentro di noi»
Nella cappella di villa San Martino, ad Arcore, la famiglia s’era ritrovata il 5 febbraio del 2008, per la messa funebre di Rosa Bossi Berlusconi, deceduta due giorni prima, a 97 anni. E poi ancora l’anno dopo, nel febbraio 2009, per un altro lutto, il decesso di Maria Antonietta,
Etta, la secondogenita di mamma Rosa, morta a 65 anni. Cerimonie
funebri in forma privata, non più di venti persone, parenti e pochi
amici, molto vicini. Lì, nella stessa cappella della villa di Arcore, si è tenuta una messa anche martedì,
a metà del mattino, con un senso di raccoglimento ancor più intenso,
col fratello Paolo e i cinque figli intorno al feretro di Silvio
Berlusconi.
Mercoledì in Duomo, con le telecamere e i
fotografi, i cittadini e le istituzioni, i ministri, i capi di governo e
le scorte, la dimensione pubblica riprenderà tutto il suo spazio. Il
giorno prima è stato una sorta di funerale intimo, esclusivamente
familiare, con momenti di commozione profonda, e un raccoglimento che
ha lasciato trasparire un’impressione di forte vicinanza tra Marina e Pier Silvio, figli della prima moglie di Berlusconi, e i ragazzi più giovani, figli delle seconde nozze, Barbara, Eleonora e Luigi.
Come se davanti alla morte del padre abbiano trovato un’unione diversa,
capace in qualche modo di colmare una distanza che sempre c’è stata. Che
quel senso d’unità resista anche in futuro non è possibile dirlo, e
però i cinque figli di Berlusconi hanno voluto comunicarlo anche
all’esterno, con la pagina acquistata sul Corriere della Sera nella quale si rivolgono al «Dolcissimo papà», e gli dicono: «Grazie per la vita. Grazie per l’amore. Vivrai sempre dentro di noi». Firmato semplicemente Marina, Pier Silvio, Barbara, Eleonora, Luigi, sopra una foto di Berlusconi di profilo, sorridente.