Grillo e M5s, una nuova grammatica
di MARIO CALABRESI
NON CI può essere alcun automatismo tra un avviso di garanzia e le dimissioni e questo nemmeno può significare che sia certo un comportamento grave da parte di chi si trova al centro di un’indagine. A stabilirlo è il nuovo codice di comportamento del Movimento 5 Stelle diffuso ieri da Beppe Grillo. Una reazione istintiva ci spingerebbe a criticare questa svolta radicale sottolineando che suona opportunistica nella tempistica, visto che arriva quando appare imminente un coinvolgimento nelle inchieste romane di Virginia Raggi. Un atto che, proprio in base ai canoni sempre santificati dai Cinquestelle, avrebbe imposto le dimissioni della sindaca, come preteso un anno fa nel caso del primo cittadino di Parma, anche se in quel caso a sollevare la contestazione fu la mancata trasparenza sulla vicenda.
Inoltre colpisce che questo garantismo arrivi da parte di un uomo che ha usato gli avvisi di garanzia come una clava nella lotta politica e predicato la purezza come carattere distintivo del suo movimento. Un’obiezione che però sarebbe facile muovere anche al Partito Democratico che per anni ha usato inchieste, indagini e avvisi di garanzia nella sua battaglia contro Berlusconi e il centrodestra salvo poi trovarsi numerosi indagati e condannati in casa.
Così ci sembra più corretto guardare alla sostanza per dire che l’intervento di Grillo è giusto per il principio che esprime e serve a ristabilire alcuni elementi di correttezza nel rapporto tra politica e magistratura. Le nuove linee guida dei 5 Stelle restituiscono all’iscrizione nel registro degli indagati il suo valore autentico: l’inizio di un procedimento in cui vengono raccolti e pesati gli elementi a sostegno dell’accusa e non un indizio automatico di colpevolezza.
Da quasi un quarto di secolo si ripete che l’avviso di garanzia è un atto dovuto, uno strumento difensivo che invece troppo spesso è stato impugnato come elemento offensivo. Oggi non si usa quasi più, perché le riforme alla procedura penale hanno imposto l’interrogatorio a chiusura indagini, che infatti assieme alle proroghe delle inchieste è diventato il momento giornalistico in cui si viene a conoscenza delle inchieste contro qualcuno.
Ma ribadirlo oggi può aiutare a svelenire il clima politico e può servire a restituire un sano principio di responsabilità alla politica e al mondo dell’informazione. È l’occasione per una nuova grammatica, in cui si mettono da parte automatismi e riflessi pavloviani e si analizzano i casi nella loro specificità, valutandone gravità e responsabilità.
Bisogna dire che nel corso degli anni il livello di tolleranza verso il comportamento dei politici è comunque cambiato, qualcosa che solo i 5stelle hanno ignorato. Due ministri — Maurizio Lupi e Federica Guidi — si sono dimessi senza che fossero state formalizzate ipotesi di reato nei loro confronti. Ci sono stati dibattiti parlamentari e una valutazione di quanto emergeva dagli atti delle procure che li hanno spinti a decidere: valutazioni etiche e politiche, che sono andate oltre il quadro giudiziario.
Questo è il punto da sottolineare, che deve servire come stella polare anche per l’attività giornalistica: non limitarsi alla pubblicizzazione della mera posizione di indagato, ma insistere in un lavoro di approfondimento e analisi dei comportamenti, che offra al Parlamento e ai cittadini tutti gli elementi per decidere. Quello era il senso delle dieci domande di Giuseppe D’Avanzo nei confronti dell’allora premier Silvio Berlusconi: il giornalismo d’inchiesta.
Lo stesso che ci ha portato a denunciare opacità e rischi nelle nomine e nella scelta dei collaboratori da parte di Virginia Raggi, un lavoro fatto ben prima che arrivassero avvisi di garanzia e arresti, che hanno solo confermato la bontà del lavoro di Repubblica.
REP.IT