Bazar chiusi e turisti in fuga. Vivere nella paura a Istanbul
Una volta era la città della gioia, dove tutti, con un sorriso che poteva essere quello sdentato di un venditore di tè ambulante o quello di una futura sposa appena uscita dal dentista più in voga di Istanbul, ti dicevano «hersey iyi olacak», andrà tutto bene, all’insegna dell’incrollabile ottimismo turco e di quella inscalfibile fiducia nel futuro e nel kismet, il destino con cui nasci. Oggi, non si sente ripetere altro che «Simdi ne olacak?», che cosa succede adesso. Della città della gioia è rimasto solo un vago ricordo in qualche bar o ristorante sul Bosforo, dove fino a prima di Capodanno i turchi della Istanbul bene ti parlavano come se non fosse successo nulla, ai limiti della negazione dell’evidenza: il golpe era stato evitato, l’economia andava bene, i giornalisti in galera forse avevano esagerato e il loro appoggio a Erdogan era di tipo puramente pragmatico, perché garantiva stabilità. La contrazione dell’economia per la prima volta dal 2009, con i fasti del quinquennio 2009-2014 lontani, la disoccupazione in aumento, sembravano cose che stavano succedendo in un altro Paese.
Perché a Istanbul il Bosforo è un salvavita, con differenti gradi di accessibilità, dalle dimore storiche, ai ristoranti extralusso come il Reina, ai caffè, alle panchine. Su queste ultime, contesissime da qualche milione di persone, la gente ci va per innamorarsi, ridere (prima della stretta sull’alcol qualcuno si ubriacava pure), piangere, imprecare, respirare e fino al 31 dicembre fare finta che tutto fosse a posto. L’ultima speranza per tutti, sempre lì con i suoi colori che cambiano, i suoi tramonti e i venti che lo attraversano. Adesso che è caduta anche quella, adesso che la furia omicida dei terroristi ha oltraggiato anche le sue acque, a Istanbul sembra non essere rimasto più nulla a cui aggrapparsi.
E camminando per le strade, si scopre una città che ha paura ed è cambiata. Al Gran Bazar questa estate la sauna era assicurata. Non hanno nemmeno attaccato l’aria condizionata. «Con quel poco che vendiamo se la teniamo spenta non andiamo in perdita» spiegavano, mentre gli occhi dei pochi passanti si soffermavano sulle decine di negozi chiusi in quello che è uno dei mercati più famosi del mondo. I pochi rimasti aperti sono vuoti, e se una volta i bottegai ti tenevano a parlare della situazione politica per ore, offrendoti il tè nella speranza che poi tu comprassi qualcosa, adesso ti liquidano e di certo non vogliono parlare né del golpe mancato di luglio, né del terrorismo che sta colpendo il Paese a meno che non ci sia da maledire i curdi, a volte senza distinzione fra pacifici cittadini e terroristi del Pkk.
Nel vicino quartiere di Laleli, da sempre terreno di shopping dei russi, va anche peggio. Nel 2016 la presenza di visitatori nel Paese ha avuto una flessione del 40-45% rispetto all’anno precedente, con una perdita di 12-13 miliardi di dollari. Se si conta che il turismo rappresenta il 13% del Pil, per Ankara non è stata una buona notizia. Le speranze per il 2017 erano tante. Vladimir Putin, in nome dell’amicizia ritrovata aveva promesso che ne avrebbe rimandati in Turchia 3 milioni. Con quello che è successo al Reina, Ankara deve sperare che vogliano tornarci almeno i sauditi che, fino al 31, in città la facevano da padroni. Soprattutto sull’Istiklal Caddesi, il celebre viale pedonale, che a furia di vedere solo sauditi negli alberghi e nei locali della zona, rischia di perdere l’identità dell’antica Cité de Péra, quartiere un tempo simbolo della sua anima occidentale con l’hotel Pera Palace e la sua vita bohémien, dove fino a due anni fa i turisti europei si avventuravano per trovare qualche sparuta traccia dell’antica Costantinopoli, nel cuore di molti ma che non esiste più da tempo. Adesso rischia di scomparire anche l’eccentrica e vitale Istanbul, che ora non ha più nemmeno il Bosforo a salvarla dalla paura.
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