Il duello che ferisce l’America

di Sergio Romano

Nell’interregno fra la presidenza di Bill Clinton e quella di George W. Bush, il presidente uscente firmò la ratifica del Trattato per la istituzione di una Corte penale internazionale, creata a Roma nel luglio del 1998, ma sgradita al Partito repubblicano e al Pentagono. Non appena entrò alla Casa Bianca, il suo successore cancellò la ratifica con un colpo di penna. Otto anni dopo, nel dicembre 2008, mentre stava per lasciare la Casa Bianca, George W. Bush firmò con il Primo ministro iracheno un accordo sulle condizioni giuridiche dei cinquemila soldati americani che sarebbero rimasti in Iraq fino al 2011 (una questione che Barack Obama intendeva trattare con diversi criteri). In altri casi i presidenti uscenti si sono limitati a firmare provvedimenti di grazia (nella terminologia inglese «perdono») come quello che Gerald Ford regalò a Richard Nixon nel settembre del 1974. È stato detto che Obama potrebbe farlo nei prossimi giorni per Edward Snowden, il contrattista della Cia che ha rivelato al mondo il modus operandi del suo datore di lavoro.

Quello che sta accadendo in questi giorni, tuttavia, è alquanto diverso. Mentre i suoi predecessori hanno fatto un uso limitato di ciò che ancora restava dei loro poteri presidenziali, Obama sembra deciso a mettere in sicurezza le sue decisioni più importanti degli scorsi anni e a gettare le basi di nuove iniziative. Ha bloccato le estrazioni petrolifere in alcune aree del Paese; ha lanciato severi ammonimenti al governo israeliano e alla Russia di Vladimir Putin; si prepara a costruire una rete protettiva per evitare che il presidente eletto, come sembra averne le intenzioni, distrugga l’edificio della sua riforma sanitaria. È probabile che Donald Trump, non appena sarà entrato alla Casa Bianca, cercherà a sua volta di ribaltare le decisioni del predecessore. Ma questa non è più una schermaglia fra presidenti che hanno diverse opinioni politiche. Questo è un duello che ha avuto l’effetto di ricreare il clima dello scontro fra opposte concezioni come all’epoca della campagna elettorale. L’America ha oggi due presidenti, di cui il primo, Obama, getta macigni sulla strada del secondo, mentre Trump scrive pizzini sul web per ingiungere alle industrie automobilistiche degli Stati Uniti di rivedere i loro programmi latino-americani.

Non vi sarebbe stato uno scontro, naturalmente, se le regole istituzionali americane, come quelle di altre Repubbliche presidenziali, permettessero al vincitore di insediarsi nella Casa Bianca subito dopo la conta dei voti e l’annuncio del risultato. Ma negli Stati Uniti è stato deciso che il Presidente uscente restasse in carica, dopo il voto, per poco meno di tre mesi e fosse autorizzato a fare uso dei suoi poteri esecutivi. Sono regole scritte in epoche in cui i tempi della politica e dei viaggi da una parte all’altra di questo immenso Paese erano molto più lunghi di oggi. Bisognerebbe cambiarle, ma i principi di una democrazia che si considera perfetta sono venerandi e difficilmente modificabili; con la paradossale conseguenza che un presidente già formalmente sostituito può continuare a svolgere una buona parte delle sue funzioni.

Questa anomalia è stata ulteriormente accentuata dall’esistenza di un’altra regola pericolosamente invecchiata. Il presidente degli Stati Uniti non è eletto dai singoli cittadini americani, ma da una assemblea di grandi elettori che rappresentano i singoli Stati della Federazione. I costituenti diffidavano degli umori del popolo e ritenevano, non senza qualche ragione, che il presidente di una Federazione sia autorevole e riconosciuto soltanto se eletto dalla maggioranza dei grandi elettori degli Stati che ne fanno parte. Oggi gli Stati esistono ancora e sono spesso gelosi della loro identità storica. Ma è difficile immaginare che in un Paese caratterizzato da una grande mobilità il cittadino della Virginia abbia per il futuro della nazione punti di vista e interessi radicalmente diversi da quelli di un cittadino della California. È normale, in queste nuove circostanze, che il candidato sconfitto abbia conquistato due milioni e mezzo di voti più del vincitore, ma debba cedergli il passo?

È questa probabilmente una delle ragioni per cui Barack Obama sembra aspirare alla leadership morale del Partito democratico ed è convinto di potere contare sin d’ora sul consenso della maggioranza dei suoi concittadini. Non sappiamo chi prevarrà in questo conflitto politico e istituzionale. Ma il duello avrà comunque una vittima: quella civile trasmissione dei poteri che è sempre stata un titolo di gloria della democrazia americana.

CORRIERE.IT

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