Dall’Italia sono partiti 110 foreign fighter per combattere con l’Isis
Sono circa 110 i foreign fighter partiti dall’Italia: molti meno del migliaio esportati dai tedeschi e dei 1500 francesi, ma anche del contributo dato alla Jihad da Paesi più piccoli del nostro come il Belgio (circa 600) e l’Austria (350). Perché, in tema di radicalizzazione, l’Italia è cinque-dieci anni indietro rispetto ai Paesi del Nord Europa. Una «bassa intensità» che però non va sottovalutata: «I percorsi di radicalizzazione si sviluppano soprattutto nelle carceri e sul web», mette in guardia il premier, Paolo Gentiloni, servono «prevenzione e massima vigilanza».
In mattinata, tiene un vertice sulla sicurezza con i ministri interessati al tema, poi incontra la Commissione di studio autrice di una ricerca sulla radicalizzazione in Italia. Una foto «non definitiva, perché si tratta di un fenomeno per sua natura in evoluzione», ricorda il ministro dell’Interno Marco Minniti, con percorsi che si sviluppano in modo diverso ed eterogeneo, ma in cui è chiara l’indicazione a tenere d’occhio le prigioni («bisogna mandare i condannati immigrati a scontare la pena nei loro Paesi!», interviene il leader della Lega, Salvini) e la realtà virtuale di Internet: «Dobbiamo costruire una rete protettiva al malware del terrore, frutto di una forte cooperazione tra governi e grandi provider», predica Minniti.
Lotta al terrorismo attraverso lo studio della radicalizzazione, «necessario per capire e contrastare». Ma tra le priorità del governo c’è anche il piano migranti, che tanto sta facendo discutere la politica. E che però non va confuso con la sicurezza: «La minaccia non autorizza a equazioni improprie tra fenomeni migratori e attività terroristica», ammonisce Gentiloni.
«Abbiamo bisogno di politiche migratorie che coniughino una grande attitudine umanitaria e di accoglienza» con «il rigore e l’efficacia sui rimpatri», sottolinea il premier. Perché, aggiunge Minniti, «la severità verso gli irregolari consente di essere più forti sul terreno dell’integrazione». E allora, la «proposta organica» che, annuncia il ministro, presenterà in Parlamento a breve, dopo aver incontrato il 19 gennaio le Regioni, così sarà composta: accoglienza diffusa per i richiedenti asilo (un accordo firmato coi Comuni italiani raccomanda siano 2,5 migranti ogni mille abitanti: «Entro gennaio faremo un bilancio di come questo accordo è stato recepito») e stretta sugli irregolari. Una parte normativa – forse un più veloce decreto legge – che preveda tra l’altro il ricorso solo in Cassazione in caso di negazione del diritto d’asilo; e poi Cie in tutte le regioni e accordi con gli Stati di partenza per i rimpatri.
«Il ministro dell’Interno che parla di rendere attivi i respingimenti forzati non fa che rispettare la legge», dice Minniti, ma «è difficile pensare si possa procedere con respingimenti immediati», risponde a distanza a chi, dall’opposizione, invoca rimpatri-lampo: «Ci vuole un rapporto col Paese che deve accogliere il migrante respinto». Per questo il ministro è stato in Tunisia e a Malta, e a breve andrà in Libia. Nel frattempo, gli irregolari saranno trattenuti nei Cie, i Centri di identificazione ed espulsione contro cui in tanti già si sono espressi, dal M5S a Si: saranno una ventina, possibilmente vicini agli aeroporti, con capienza massima di 80-100 persone, per un totale di 1500-1600. «Non avranno nulla a che fare con quelli del passato», rassicura Minniti i tanti che li ricordano come un’esperienza già fallita, a cominciare dalla governatrice del Friuli Serracchiani, luoghi in cui «eviteremo situazioni che non siano nel pieno rispetto dei diritti umani»: per assicurarlo, sarà nominato un garante. La proposta arriverà presto in Parlamento: e si può scommettere che farà molto discutere.
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