Riscoprire in Italia il senso dell’autorità
Per uscire dalla crisi in cui è sprofondata da oltre un decennio — frutto soprattutto, io credo, dei molti nodi stretti già durante la Prima Repubblica — l’Italia ha bisogno di una cosa soprattutto: che cambi il clima culturale del Paese, il suo modo di pensare. Che sgombrino il campo i pregiudizi e le idee ricevute che per almeno trent’anni hanno fin qui governato la nostra società. Per fare posto a un’esigenza ormai improcrastinabile di verità e di realismo.
Tra le molte cose che una tale esigenza impone di riscoprire metterei ai primissimi posti l’idea di autorità: il bisogno di riscoprire il suo senso, di legittimarne nuovamente la pratica. A cominciare specialmente dall’ambito pubblico. Non voglio addentrarmi nelle ragioni che da noi hanno portato al lungo oscuramento di quell’idea e di quella prassi. Voglio solo sostenere che oggi diventano sempre più evidenti nuove ragioni di segno opposto che la realtà ci obbliga ad ascoltare. E va da sé che quando si dice autorità non può che intendersi in linea di massima (in linea di massima, sottolineo, non sempre) l’autorità di una sola persona o istituzione, un’autorità monocratica. A muoverci in questa direzione dovrebbe spingerci anche la più immediata attualità. È ammissibile ad esempio che in una situazione di palese, grave, emergenza come quella creata dalla massa di migranti in arrivo sulle nostre coste, il ministro degli Interni non abbia l’autorità per disporre la loro collocazione sul territorio come egli giudica meglio?
Cioè secondo un piano razionale, tenendo conto delle mille circostanze di cui bisogna tener conto, pronto naturalmente a rispondere di quello che fa davanti al Parlamento, ossia ai cittadini della Repubblica? È ammissibile, è nell’interesse generale del Paese, mi chiedo, che invece il suo potere, come accade oggi, debba essere limitato, condizionato, in qualche modo subordinato, a quello dei più di 8 mila sindaci che conta la Penisola, quasi che egli fosse una specie di Gengis Khan unicamente desideroso di portare lo scompiglio nel Paese? Ha senso che in tal modo, e per giunta in una questione così delicata, si crei una virtuale quanto casuale divisione a macchia di leopardo (dove tanti e dove nessuno) dello stesso Paese?
Ma il problema è ben più vasto. Infatti, in Italia, è da tempo che si è affermata dovunque nel settore pubblico la tendenza alla massima diffusione/diluizione del potere di decidere. Questa tendenza trova la sua massima espressione nella prassi della «concertazione», ormai divenuta una sorta di surrettizio principio costituzionale. La quale in moltissimi casi, del resto, è prescritta dalle stesse leggi licenziate dal Parlamento, ovvero prescritta dai famosi regolamenti attuativi delle medesime, destinati solitamente a vedere la luce a distanza di qualche anno, e spesso anch’essi redatti a loro volta in concertazione tra cinque-sei amministrazioni diverse, in una sorta di kafkiana moltiplicazione delle «concertazioni». Per l’esercizio di qualunque principio di autorità applicato all’ambito delle decisioni di carattere politico-amministrativo la «concertazione» rappresenta una modalità dalle conseguenze micidiali.
In teoria, naturalmente, nulla di meglio del fatto che decisioni di qualche importanza riguardanti più soggetti o più ambiti vengano prese, sentiti tutti i competenti e gli interessati, con il loro consenso. In teoria. Ma in pratica — e soprattutto in un Paese come il nostro dove sono tradizionalmente fortissimi gli interessi locali e settoriali, i corporativismi e le gelosie delle «competenze» — ciò significa immancabilmente riunioni su riunioni, con il conseguente allungamento spaventoso di tutti i tempi (quando non il rinvio sine die di ogni decisione), e spessissimo l’adozione di una decisione affidata a un testo lunghissimo e farraginoso, zeppo di obblighi di adempimenti vari e di trafile burocratiche infinite.
Senza contare un’altra grave conseguenza: e cioè che ogni decisione presa in questa maniera finisce facilmente per essere virtualmente figlia di nessuno. La sua paternità, infatti, può essere rimpallata con agio da uno all’altro dei molti decisori. Con tanti saluti, quindi, a quel principio di imputabilità, e quindi di responsabilità amministrativa e politica (sapere chi fa che cosa, in modo da poterlo premiare o punire con il voto), che dovrebbe costituire un caposaldo di ogni regime democratico.
Al generale declino dell’idea di autorità e della sua prassi nell’ambito pubblico ha contribuito potentemente, infine, un fenomeno specifico solo all’apparenza. Vale a dire la delegittimazione pressoché totale del giudizio del capo dell’uf- ficio per ciò che concerne l’avanzamento nelle carriere degli addetti e/o i connessi riconoscimenti economici. Giudizio il cui rilievo è oggi, come si sa, fortissimamente limitato se non per molti aspetti e in molti settori del tutto irrilevante.
Il fatto qui decisivo è stata la sindacalizzazione del pubblico impiego, svoltasi dalla fine degli anni Sessanta per gran parte all’insegna di una lotta incessante — coronata da un sostanziale successo — contro il principale potere in cui si sostanziava l’autorità del superiore gerarchico: quello per l’appunto di incidere sulla carriera e la retribuzione. Contro un tale potere, contro il suo carattere inevitabilmente arbitrario, si è cercato di costruire vari meccanismi alternativi di accertamento del merito, i quali potessero avere un carattere per così dire «oggettivo», fondato di volta in volta sull’automatismo dell’anzianità, sulla collegialità dell’organo giudicante, o in qualche misura, come avviene per la scuola, addirittura su una sorta di autovalutazione collettiva degli insegnanti.
Quanto all’effettivo accertamento del merito, il risultato è sotto gli occhi di tutti. Perché se è vero che il giudizio del singolo con la sua inevitabile soggettività poteva di certo prestarsi all’abuso e all’ingiustizia — contro la quale peraltro era sempre possibile opporre varie forme di ricorso —, è anche vero però che i nuovi criteri di giudizio, con il loro inevitabile egualitarismo che premia nella stessa misura i meritevoli e gli immeritevoli, producono un’ingiustizia certo diversa dall’altra ma pur sempre un’ingiustizia sostanziale, contro la quale inoltre non sembrano esserci rimedi. Senza contare, il che forse non è proprio del tutto irrilevante, con maggiore danno per l’interesse generale.
CORRIERE.IT
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