Le riforme da rilanciare su banche e imprese
Da quando è a Palazzo Chigi, Paolo Gentiloni non ha mai alzato la voce eppure ha preso decisioni per le quali a Matteo Renzi era mancato il coraggio necessario. In particolare, ha avviato la nazionalizzazione del Monte dei Paschi di Siena senza sbavature, senza plateali polemiche con Bruxelles o con Berlino e nella piena tutela dei risparmiatori. Era possibile farlo anche sei mesi fa, si sarebbe tamponata molto prima una ferita aperta nel fianco dell’economia italiana, ma al premier di allora sembrò una mossa troppo rischiosa. Gentiloni non ha perso punti nei sondaggi per essersi mosso con determinazione lungo quella strada. Gli era stata aperta, va riconosciuto, dal lavoro del precedente governo. Ma visto che il presidente del Consiglio ha dimostrato di saper affrontare i nodi più intrattabili dell’economia italiana, lavorando in prima persona anche sui dettagli, è appena il caso di ricordare qualcosa che lui per primo sa benissimo: esistono altri cantieri aperti. Ci sono riforme che chiedono solo di essere tirate fuori dai cassetti di Palazzo Chigi, dove sono rimaste chiuse negli ultimi due anni per timidezza o perché l’attenzione della politica era finita altrove.
Quei piani rimasti lettera morta ora potrebbero uscire dai cassetti e diventare realtà in poco tempo. Non c’è bisogno di rifare tutto da capo, basta ripartire da quello che era stato progettato e poi messo da parte. Sul fronte delle banche per esempio sarebbe illusorio pensare che tutto si risolva iniettando capitale pubblico nel Monte dei Paschi, e magari in altre due o tre banche di medie dimensioni. Il sistema finanziario continuerà comunque a soffrire per altri 350 miliardi di prestiti difficili da recuperare; anche se nessun’altra banca fallisse, dunque farà lo stesso pochissimo credito ai nuovi imprenditori con una buona idea. Per questo Gentiloni può ripartire da dove era rimasto Renzi e approvare i provvedimenti che aiutano le banche a liberarsi dei vecchi prestiti in default. Solo così è possibile voltare pagina e ripartire. Tutti sanno di quali misure si tratta, dato che il governo precedente le aveva elaborate e poi non aveva osato approvarle nel maggio scorso. In caso di insolvenza si può rendere obbligatorio un rito semplificato, a giudice unico, per accelerare i recuperi degli immobili posti a garanzia dei prestiti; oggi quelle procedure sono le più lente d’Europa (dopo la Grecia), al punto da far perdere valore ai crediti e ai beni sottostanti.
Si può poi applicare anche allo stock dei vecchi crediti, non solo a quelli nuovi, la facoltà per le banche di prendere controllo dei mezzi di un’azienda insolvente senza per questo bloccarla o farla fallire. Sono misure difficili, perché alterano uno degli equilibri sociali più delicati nell’Italia di oggi: quello fra debitori e creditori. Ma approvandole il Paese si avvicinerebbe alla pratica corrente nel resto del mondo avanzato. Del resto le regole di oggi tutelano gli imprenditori indebitati solo in teoria, non nella realtà, perché la paralisi del sistema bancario fa soffrire anche loro. Proprio il diritto fallimentare, sul quale la legge delega passata in agosto 2015 resta lettera morta, è un altro terreno su cui Gentiloni ha la strada aperta. Si tratta di applicare quella delega per superare un modello pre-bellico del fallimento d’impresa: costoso, lento, traumatico e tale da arricchire solo gli esperti nel disbrigo pratiche. Anche quello aiuterebbe tante aziende in affanno a restare operative e tante banche a gestire meglio i loro problemi.
Chiuso nei cassetti e da tirare fuori è poi anche il progetto di decreto che rafforza la contrattazione a livello aziendale. Il modello centralizzato dei contratti è l’eredità di un sistema corporativo vecchio di 80 anni e, anche qui, il tasso di occupazione più basso d’Europa (di nuovo, dopo la Grecia) rivela che non è nell’interesse dei lavoratori. Anche qui si tratta di seguire l’esempio di altri Paesi europei, la Germania e non solo, dove la produttività e i salari crescono molto di più. Se Gentiloni riaprisse quei cassetti, non darebbe un segnale solo all’Europa e ai mercati internazionali che — ammettiamolo — sono sempre più scettici sulla tenuta dell’Italia. Lo darebbe soprattutto al sistema politico e agli italiani: siamo gente che sa rimettersi in cammino, quando tutti ci danno per persi.
CORRIERE-IT
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