La strategia Isis tra Trump e Putin
Fatalmente i terrorismi si somigliano e producono gli stessi tragici lutti, ma nella storia di ieri come in quella di oggi le loro cause e le loro finalità restano spesso diverse. L’orribile attentato di Gerusalemme ripropone tanto le differenze quanto le somiglianze (esaltate dal «fattore camion») senza però modificare la tela di fondo: il cosiddetto Stato Islamico può influenzare i palestinesi più militanti, può essere già diventato un loro occulto consigliere attraverso l’esempio di tanti delitti, ma la sua battaglia è nichilista e globale, viene combattuta all’interno dell’Islam oppure dove l’Occidente è più vulnerabile, e non si è mai fatta coinvolgere più di tanto dalla causa nazionale palestinese. Netanyahu può dunque avere ragione quando parla dell’attentatore simpatizzante dell’Isis, e quando sottolinea come la dinamica dell’attentato sia stata ispirata dai precedenti di Nizza e di Berlino. Anche se l’Intifada dei coltelli e degli investimenti l’hanno inventata i palestinesi, più di un anno fa. Ma soltanto riscontri oggi non disponibili consentirebbero di stabilire un vero nesso operativo tra Isis e terrorismo palestinese, aprendo, allora sì, un capitolo nuovo e potenzialmente esplosivo.
In attesa delle necessarie verifiche l’Isis non rinuncia peraltro alle «sue» stragi. Dopo Berlino, Istanbul e un certo numero di altri massacri che non scuotono più la nostra sensibilità (quelli che si susseguono a Bagdad, per esempio) è diventato evidente che la falce manovrata dagli uomini in nero ha fretta. La falce dell’Isis teme di rimanere schiacciata tra Putin e Trump e per questo è impegnata in una inedita corsa contro la storia. Sapevamo da tempo che l’Isis voleva radicalizzare e mobilitare le maggiori comunità islamiche occidentali. Sapevamo che voleva impaurirci e farci cambiare i nostri stili di vita, sfruttare l’effetto destabilizzante dei flussi migratori, forse persino vagheggiare la «presa» dell’Europa immaginata in Francia da Michel Houellebecq. Ma oggi non è più tempo di sogni. Oggi si annuncia il mutamento dell’ordine postbellico e del disordine post Muro, Putin sta imponendo nuovi equilibri mediorientali, è in arrivo l’incognita Trump, nessuno sa come cambierà una America fino a ieri declinante e l’Europa affronta da posizioni di debolezza l’anno delle grandi prove elettorali. Berlino, Istanbul, Bagdad? Nella nuova cornice del mondo in mutamento sono tutti colpi andati a segno. Che purtroppo promettono di ripetersi con altrettanta lucidità.
Messo con le spalle al muro a Mosul e minacciato della stessa sorte a Raqqa, l’Isis gioca attraverso il terrorismo una partita per la sua sopravvivenza: bisogna impedire ad ogni costo che Putin e Trump, voltata la pagina della inimicizia tra il Cremlino e Obama, uniscano le loro forze per distruggerlo. Abbiamo archiviato troppo in fretta la caduta di Aleppo e il suo inaudito tormento con l’Occidente che stava a guardare. Perché è dalle ceneri di Aleppo che è nata la nuova alleanza dei vincitori. La Russia, beninteso, e con essa Bashar al-Assad. L’Iran, forte delle sue milizie e forte soprattutto di un asse sciita che dalla Siria raggiunge ora l’Iraq e il Libano. E la Turchia, l’ultima venuta, che Putin utilizza come contrappeso verso l’Iran grazie a uno scambio inconfessabile: Erdogan chiude un occhio sulla «provvisoria» permanenza di Assad al potere, Putin ne chiude due sui regolamenti di conti tra turchi e curdi siriani. In Siria c’è già una zoppicante tregua voluta dalla nuova Triplice. Presto dovrebbe esserci una firma ad Astana, se possibile prima dell’insediamento di Trump il 20 gennaio prossimo. E questo ci dice quanto prudente sia Putin sui previsti nuovi rapporti con Washington: meglio accelerare, meglio vincere prima dell’arrivo di Trump. E dopo aver fatto la guerra in polemica con l’America fare la pace escludendo l’America, poi si sarà sempre in tempo a farne dono a Trump.
I tagliagole dell’Isis sanno di avere davanti una via obbligata. Colpire nella parte di Siria controllata dai turchi, in prossimità del confine. Colpire direttamente la Turchia, indebolire Erdogan che punta al referendum presidenzialista e allearsi di fatto con i curdi del Pkk per moltiplicare gli attentati. Fare appello alle monarchie sunnite del Golfo escluse dall’alleanza guidata da Putin e nemiche giurate dell’Iran. Sperare che Trump storca il naso davanti alla mano libera concessa a Erdogan contro i curdi siriani, sin qui ottimi alleati di Washington. Colpire il quartiere sciita di Bagdad, da «buoni» sunniti. E beninteso colpire Berlino, perché sarebbe assurdo rinunciare alla destabilizzazione dell’Europa proprio ora che le urne si avvicinano, che il populismo sembra avanzare e che come sempre tutto dipenderà dalla Germania. Il terrorismo dell’Isis ha una strategia. Una strategia che ha sin qui risparmiato l’Italia, più utile come hub di confusi flussi migratori ed eventualmente come terra di transito, anche se il capo della polizia Franco Gabrielli ha ragione quando avverte che presto o tardi potremmo anche noi pagare un prezzo. Una strategia che vuole rendere ancor più vulnerabile l’Europa. Una strategia che deve far saltare la Triplice di Aleppo, e dunque bombardare di attentati la Turchia. Una strategia che vuole nascondersi dietro le bandiere sunnite, estendere il conflitto con gli sciiti e rilanciare il reclutamento. E, soprattutto, una strategia che vuole impedire che sul Medio Oriente scenda una pax russo-americana. Putin e Trump non devono andare a braccetto contro l’Isis, ha giurato il redivivo Al Baghdadi. Il che è un eccellente motivo perché i due lo facciano al più presto.
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