Consulta, passa la linea Amato: 8 a 5 E il giudice in minoranza non scriverà le motivazioni
Decisione tecnico-giuridica ma dagli evidenti risvolti politici, che ovviamente non sono stati nemmeno sfiorati nelle oltre due ore di discussione fra i giudici costituzionali riuniti in camera di consiglio. Che poi nella testa di qualcuno ci fossero anche le conseguenze che la sentenza avrebbe avuto sul destino della legislatura, o i desideri di qualche leader di partito, è tutt’altro discorso. E fino alla discussione di ieri c’è stata grande incertezza sia per la delicatezza dell’argomento da affrontare (la richiesta di dare la parola al popolo su un tema come il lavoro, primo valore garantito dalla Costituzione), sia per le attese più o meno interessate negli altri palazzi delle istituzioni. Confermate dalle reazioni giunte subito dopo la comunicazione dell’esito del verdetto. I due schieramenti si sono confrontati e divisi sulle norme e sul significato della sentenza numero 41 del 2003, che aveva ammesso una proposta di referendum sulla stessa materia. Potevano sovrapporsi le due situazioni, oppure no? Sì secondo la relatrice Silvana Sciarra e altri quattro colleghi; no secondo Giuliano Amato e un blocco di maggioranza che alcuni definiscono «ampia» e altri «stretta». Questione di punti di vista, considerati i numeri ridotti. A causa dell’assenza per motivi di salute dell’ex presidente Alessandro Criscuolo, i giudici si sono ritrovati a decidere in 13, dunque sono bastati due soli voti a far pendere la bilancia da un lato. Quello secondo il quale il precedente del 2003 non si poteva applicare perché la situazione era diversa.
Quel referendum (che non raggiunse il quorum necessario per essere valido) avrebbe infatti abolito il limite minimo di 15 dipendenti in azienda (ridotto a 5 per le imprese agricole) fissato dalla legge per avere il diritto al reintegro in caso di licenziamento illegittimo, estendendolo a tutti. Quesito legittimo, disse allora la Corte. Oggi invece, il ritaglio di alcune parole del testo normativo avrebbe abbassato quella soglia da 15 a 5 e questo, secondo la maggioranza dei giudici, non si può fare: sarebbe una modifica della legge, competenza esclusiva del Parlamento. I fautori dell’ammissibilità hanno sostenuto che non si trattava di riscrivere la regola, bensì di estendere il limite previsto per le aziende agricole a tutte le altre categorie; nessuna «manipolazione» del testo, dunque, ma un ampliamento dei soggetti beneficiari di una disciplina già esistente, attraverso la lecita cancellazione di alcune parti della legge. Con un effetto addirittura minore rispetto alla consultazione autorizzata nel 2003. Questa interpretazione, però, è rimasta minoritaria. Anche dopo che il dibattito tra i giudici s’è allargato all’opportunità di non essere troppo rigorosi quando, di fronte a due posizioni divergenti ma entrambe sostenibili, c’è in ballo una consultazione popolare. In fondo l’articolo 1 della Costituzione stabilisce che «la sovranità appartiene al popolo». Ma poi c’è l’altra parte dello stesso comma, secondo cui quella sovranità si «esercita nelle forme e nei limiti» imposti dalla stessa Costituzione. Che autorizza il referendum «per deliberare l’abrogazione totale o parziale di una legge», non per riformarla attraverso un sapiente ritaglio di parole. Così si è tornati al nocciolo della questione: quesito meramente abrogativo o surrettiziamente propositivo? Ha vinto la seconda risposta. Spiegazioni più esaustive arriveranno con la motivazioni della sentenza, che con ogni probabilità non sarà scritta dalla relatrice Silvana Sciarra, favorevole all’altra soluzione, ma da un altro giudice che ha votato per l’inammissibilità.
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