Sorpresa Minniti al Viminale: il “nuovo” che non ti aspetti
La prima medaglia, per così dire, è appuntata direttamente nel corredo genetico. Quest’uomo parla soltanto se ha qualcosa da dire. Per un politico dell’era della chiacchiera, che pare emergere come Professor X dal mare dei Narcisi e degli stralunati gaffeur alla Angelinoalfano, un fattore di distinzione primario.
Non l’unico, tra quelli che fanno del ministro dell’Interno Marco Minniti un caso più unico che raro, e il vero motivo, forse, per il quale verrebbe da tifare per la sopravvivenza del governo Gentiloni. Vanto di una terra dura e difficile come la Calabria; suo quattordicesimo «figlio» ad assurgere a trono ministeriale (con l’eccezione del vecchio Giacomo Mancini, mai esemplari di luminoso spessore). Secondo dirigente del Pci a rivestire il cruciale ruolo di capo del Viminale (anche qui, l’esempio di Napolitano non è esattamente il massimo). Che cosa, allora, induce a parlare di Domenico Minniti – detto da sempre «Marco» in onore di un fratello gemello scomparso -, come dell’astro nascente della nostra politica della Sicurezza? Come del ministro capace d’interpretare allo stesso tempo il sentimento delle forze dell’ordine e quello dei cittadini, come nel caso dell’artificiere ferito a Capodanno? Un curriculum di spessore, anzitutto, e due illustri «maestri»: non a caso uno tenuto un po’ alla larga (Massimo D’Alema), l’altro rivendicato e coltivato fino alla morte, al punto da fargli affibbiare poco tempo fa una pesante predizione: «Minniti sarà il Cossiga del Duemila». Di lui, il vecchio Presidente che volle partecipare con lui alla creazione della Fondazione Intelligence Culture and Strategic Analysis (Icsa), non aveva che parole d’elogio e benevolenza. Riscontrandone i tratti del politico migliore, diceva: quello che ha visione strategica.
A vincere le diffidenze cossighiane nei confronti del post-comunista diventato sottosegretario con delega ai Servizi nel primo governo D’Alema, era stata la gestione della crisi del Kosovo. E Minniti vi era arrivato più che preparato. Grazie non soltanto a una famiglia di militari (padre generale, alti ufficiali fratelli e zio), ma anche ad amicizie importanti o fraterne, come quella con Nicola Calipari, agente del Sismi ucciso in Irak nel 2005. Appassionato di tutto ciò che riguarda l’Aeronautica (di cui colleziona anche orologi), voleva fare il pilota. Finì invece per laurearsi a Messina in Filosofia, con tesi su Cicerone, e irretito da un (già) rampante Claudio Velardi, all’epoca emissario della Fgci dalemiana. Più avanti, nel luglio del ’94, sarebbe stato lo stesso Velardi ad aprirgli le porte per la carriera romana, chiedendo l’appoggio della Federazione calabrese all’elezione di D’Alema. Riservatissimo, serio, sgobbone, ma per nulla antipatico (se ne possono testimoniare momenti di ilarità quasi fino alla giocosità: bastava non parlargli dell’Inter), Minniti per anni era l’unico politico sempre visto con cartelle sottobraccio e atti da studiare. Sempre di fretta, eppure sempre disponibile con il suo senso della misura reso evidente da quel tipico timbro di voce, tra il fioco e il rauco.
Cominciò così, sulle carte e a cura dei rapporti personali (nota è anche l’amicizia con il capo della Polizia, Franco Gabrielli), la scalata che ne ha fatto il politico più competente in fatto di 007, ordine pubblico e flussi migratori. A rovinarne un po’ l’immagine rispettabile, se vogliamo, solo il periodo di massima esposizione mediatica: quando a Palazzo Chigi, in virtù di una comune calvizie, ci fu l’avvento dei Lothar. Uno, come abbiamo visto, era il Velardi factotum geloso dell’intimità con il Capo e diabolico nei mille affari di sottobosco. Gli altri, Nicola Latorre (affari pugliesi) e Fabrizio Rondolino. Per improvvida scelta di quest’ultimo, capo di un’Immagine che ebbe nel culto dell’arroganza il tratto dominante, nel Natale del ’99 furono inviati bigliettini augurali firmati «lo staff» (di cui facevano parte, in verità, anche i miti ma ben irsuti Cuperlo e Cascella). Gettato così nel mucchio dei Lothar senza colpa, Marco soffrì a lungo per una volgarizzazione non meritata. D’altronde uno come lui avrebbe potuto militare in qualsiasi partito, e forse senza i moti di Reggio del ’70 non avrebbe avuto quel moto di ribellione che l’aveva portato nella Fgci ad onta del padre.
Chiusa la stagione dalemiana, avvicinatosi man mano ad altri personaggi politici (Veltroni lo appoggiò come viceministro all’Interno nel secondo governo Prodi; Franceschini ne sfruttò la competenza reinserendolo nel governo Letta, sempre con delega ai Servizi, e così Renzi), Minniti è stato accolto al Viminale come una «liberazione» da un increscioso, anzi dannoso, vuoto totale. Di idee e di capacità. Dopo i pasticci di Alfano, ecco uno dei maggiori esperti del Nord-Africa e del Medio Oriente, nonché dei problemi legati all’immigrazione. I primi atti, ispirati a due direttive precise (severità e integrazione) fanno capire che la musica è cambiata: i meccanismi vanno rivisti, i rimpatri non sono tabù. Il viaggio di questi giorni in Libia, con accordi inseriti in una trama di delicatissimi equilibri, testimonia l’esistenza di una strategia precisa. Dal tempo dell’improvvisazione a quello della competenza, dicono al Viminale. Dove Marco dovrebbe già aver tirato fuori dagli scatoloni i modellini di aeroplanini e le statuine di Pulcinella che collezionava. Una per ogni politico incontrato sulla sua strada.
IL GIORNALE