Tolta una mina sul governo: ora le elezioni si allontanano
Due referendum ammessi e uno bocciato. Così la Corte costituzionale ha disinnescato l’ordalia che la Cgil aveva ideato, sui temi del lavoro. Cade l’ipotesi che le elezioni anticipate immediate siano il rimedio.
Due riforme sarebbero sufficienti, se proprio il legislatore non vuole i referendum, ma quella scadenza non ha nulla di terribile. Se non per la sinistra, perché quella cui si assiste è una sua faida interna. Una guerra non in nome, ma sulla pelle dei lavoratori e del lavoro. Che è un tema assai serio.
Non è stato ammesso il referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, restando valida la norma secondo cui un licenziamento può farsi pagando al lavoratore il dovuto e non mettendo nel conto di dovere passare davanti al giudice. Se si guardano i numeri ci si accorge che questa è più una bandiera ideologica che altro, ma, appunto per ciò, era il quesito a maggiore dirompenza politica. Bocciato, perché chi ha chiesto il referendum ha esagerato e pretendeva di tornare a far valere il 18 non solo, come era, per le aziende sopra i 15 dipendenti, ma anche per quelle sopra i 5. Siccome il referendum è abrogativo e non può essere manipolativo, la Corte lo ha escluso.
Ammesso quello sui voucher, che, in via teorica, potrebbe essere dribblato da una riforma, chiesta da molti. Bisogna intendersi, però: i voucher sono stati un enorme successo, sono cresciuti moltissimo e lo hanno fatto in tutte le aree del Paese (sebbene più al Nord). Furono istituiti dalla legge Biagi (2003), ma con limiti settoriali e temporali. Fu la legge Fornero (2011) a togliere i limiti settoriali, mentre il governo Letta tolse il riferimento alle prestazioni occasionali, rimanendo comunque limiti reddituali annui. Il governo Renzi s’è mosso in direzione opposta, introducendo la tracciabilità.
Tanto successo è patologico? Di patologico c’è la viscosità delle regole che presiedono al mercato del lavoro, l’eccessivo peso fiscale e previdenziale, sommato a quello burocratico e amministrativo. Siamo la seconda potenza industriale d’Europa, ma abbiamo una disoccupazione da Terzo Mondo. Questo è patologico. Si piagnucola indicando la potenza tedesca, ma anche loro avevano altissima disoccupazione, fin quando non riformarono il mercato interno, rendendolo più elastico e introducendo i mini-jobs, che sono una forma contrattuale specifica, non uno scantonamento come i voucher. Forti dei risultati, l’anno scorso hanno aumentato i salari minimi. Se riformare significa andare in quella direzione, bene. Se si vogliono introdurre ulteriori pietrificazioni si otterrà solo maggiore disoccupazione e minore crescita. Se è su questo che occorre fare il referendum, lo si faccia. Ai cittadini si dovrà dire che l’alternativa non è: voucher o lavoro a tempo pieno e indeterminato, ma: voucher o nero, o nulla.
Il terzo quesito riguarda la responsabilità solidale di appaltanti e appaltatori, volendo che le eventuali irregolarità dei secondi siano risarcite interamente dai primi. A parte che si tratta di un’altra rigidità tornante, questo è uno di quei quesiti che non vede il quorum neanche con il binocolo. Già tanto se si riesce a far capire di che si tratta.
Morale: tolto il 18 si ammainano i vessilli ideologici; la roba degli appalti non agita le coscienze; sui voucher si può meglio regolare, purché non significhi rinculare. Il mercato del lavoro non è stato riformato troppo, ma troppo poco. L’ordalia, comunque, non ci sarà.
IL GIORNALE