Alberto Angela: “Amo studiare e raccontare il passato perché lì ci sono le tracce del futuro”
Quando parla, è un fiume in piena. Aneddoti, storie, esempi. Alberto Angela ne cita tantissimi. Perché, dice, «l’esempio è l’arma più efficace di un divulgatore: se è quello giusto, riesce a suscitare un’emozione e l’emozione, a sua volta, ti fa capire e ricordare meglio un concetto». È la teoria omnia di chi è in televisione da oltre un quarto di secolo. L’obiettivo non è fare spettacolo ma semmai il contrario: «usare lo spettacolo per parlare di scienza, storia e arte». Del resto, lo stesso Angela – 54 anni, paleontologo, naturalista, divulgatore scientifico, scrittore e giornalista – non si definisce come uomo dell’intrattenimento: «Io sono un ricercatore prestato alla televisione. Mi pongo le domande che si pongono tutti e resto con i piedi per terra».
«La parte più difficile del mio lavoro è tradurre. Molto spesso, quello che mostriamo è abbastanza complesso. Il mio compito consiste nel metabolizzarlo e ritradurlo per lo spettatore. E questo non solo per renderlo più comprensibile, ma anche per renderlo più accattivante».
Missione quasi impossibile.
«Il problema della divulgazione è questo: molto spesso hai a che fare con degli aspetti che non sono di per sé attraenti, ma che comunque ti spiegano il mondo in cui vivi e da dove vieni. Non bisogna essere troppo complicati, ma partendo dai dati che hai a disposizione devi giungere a dei quadri che siano precisi, completi, corretti. E gradevoli da vedere».
Stando, però, sempre attenti a rispettare quello che è il linguaggio televisivo.
«Esatto. La televisione è fatta di immagini e di ritmi, che nel tempo cambiano. Magari è difficile accorgersene, ma nel corso degli anni è diventata sempre più rapida».
Secondo lei, perché questo tipo di programmi ha così tanto successo?
«Non c’è nessun Paese che mette programmi di divulgazione in prima serata di sabato. Questo significa due cose. Da una parte c’è la qualità del programma. E dall’altra c’è la gente che lo guarda. Il pubblico italiano è un pubblico attento: un pubblico che vuole conoscere, che vuole sapere. Non si adagia sulle spiegazioni. È molto attivo».
(Con il padre Piero ai tempi di «SuperQuark»)
Parte del merito è anche suo.
«Per carità: la cucina è buona e il cuoco è importante. Io, però, mi metto sempre dalla parte della gente. Sono il primo ad essere curioso. Non posso essere un tuttologo. Ho una formazione scientifica e conoscere la scienza, nella divulgazione, è molto utile. Ma non basta. Devi porti le domande che si pongono gli spettatori».
Insomma: al centro di tutto c’è la curiosità.
«Sì, la curiosità è il segreto della divulgazione e della ricerca scientifica. Nella curiosità si riassume lo spirito di Passaggio a Nord Ovest, Ulisse e credo anche SuperQuark – ma quello dovrebbe chiederlo a mio padre».
Come si è avvicinato a questo lavoro?
«Stavo facendo le mie ricerche in Africa quando venni chiamato dalla Televisione svizzera; mi chiesero di lavorare con loro. Erano delle dirette, e me la cavai. Funzionavo. “Invece di parlare per un quarto d’ora – mi proposero – perché non fai delle cose più lunghe e articolate?”. E così nacque Albatros: ogni volta trattava un tema diverso. Non avevo assolutamente immaginato che poi sarebbe stato comprato da Tele Montecarlo – allora si chiamava così La7 – e che sarebbe stato mandato in onda in Italia».
Prima parlava di ricerca. La ricerca, in Italia, non gode di buonissima salute.
«Questo è uno dei problemi dell’Italia, di cui si è già detto tanto. Bisogna assolutamente investire nella ricerca; in quella di base, soprattutto. La ricerca di base è un po’ come preparare un terreno fertile sul quale, poi, coltivare piante specifiche. L’Italia è sempre stata ricca di grandi menti, anche adesso».
(Durante un incontro con gli studenti)
Dovesse scegliere, qual è il momento dei suoi viaggi che è contento di aver vissuto?
«Potrei dire quando ho assistito al decollo di uno Shuttle, quando mi sono trovato di fronte al massimo dell’umanità. Oppure quando siamo entrati nella tomba dei figli di Ramses II: siamo stati i primi. Sono emozioni forti i vulcani in eruzione, filmare i leoni con la portiera dell’auto aperta, essere su un sottomarino che va in immersione; oppure andare in Antartide, dove capisci come saranno le basi del futuro, sugli altri pianeti. Ma soprattutto quando ti ritrovi davanti ai resti delle grandi civiltà. Come Pompei».
Lei ha un rapporto particolare con Pompei.
«Pompei è un luogo incredibile; forse il più straordinario. Non è solo una rovina del passato. È una città intatta, non abbandonata: c’è tutto, hanno trovato i piatti dell’ultimo pasto e hanno trovato le persone. È come se i suoi abitanti se ne fossero andati via solo per un attimo. È l’unico luogo dove riesci a respirare l’atmosfera del passato allo stato puro. Un passato che vive ancora».
Lei crede in Dio?
«Questo non glielo posso dire. Sono cose personali. Quello che è importante è che non abbiamo mai avuto problemi con la Chiesa mentre giravamo. Anzi, sono sempre stati estremamente collaborativi».
(In onda con lo speciale «Stanotte a Firenze»)
Nei suoi programmi il racconto della storia molto spesso coincide con il racconto delle persone.
«Ed è così. Alla fine, la storia è fatta dalle persone. Ritrovi il tuo stesso modo di pensare in tutti i tempi e in tutte le epoche. Ricordo di aver visto un papiro egizio scritto da una persona anziana che si lamentava dei giovani della sua epoca: li accusava di aver abbandonato le tradizioni e di fischiettare canzoni straniere nei vicoli».
La storia è destinata a ripetersi.
«Nel passato si vedono problemi simili – sottolineo: simili, mai uguali – ai nostri. Il passato è un buon maestro per aiutarci nel nostro presente ed illuminare il nostro futuro».
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