Lo scudo di Draghi è il ministro del Tesoro europeo
di EUGENIO SCALFARI
L’euro è sotto attacco. Non soltanto del populismo che alligna in Europa sempre di più, ma anche di alcune banche d’affari ed enti speculativi ed anche di economisti, studiosi attenti alle tendenze finanziarie e monetarie nonché, beninteso, agli interessi privati ed anche pubblici che non pensano all’interesse comune europeo ma ad una forza nazionalistica sempre più rigorosa in una confederazione che rifiuta di costruire un continente federale.
Se prendiamo come esempio il più grande e importante degli Stati federali, gli Stati Uniti d’America, il dollaro non è mai stato in discussione. Dopo la fine dell’ultima guerra mondiale un dibattito ci fu su due tematiche in qualche modo connesse tra loro: quale doveva essere il rapporto tra il dollaro e l’oro, che naturalmente avrebbe influito su tutte le altre monete, e l’opportunità o meno di mantenere il dollaro come principale strumento internazionale, agganciandone il tasso di cambio ad un “pool” di monete di altri Stati di grande importanza politica, economica, territoriale, in possesso di materie prime; insomma un’anticipazione di una società globale che vide la luce quarant’anni dopo sotto la spinta delle nuove tecnologie ed anche dell’immenso esercito dei popoli poveri che fuggono la miseria e le sanguinarie dittature che li opprimono rendendo necessaria la fuga verso altri continenti più ricchi e meno sanguinari. Insomma più civili, ancorché non sempre (anzi quasi mai) favorevoli all’invasione degli emigrati.
La conferenza si svolse a Bretton Woods su un sistema monetario da costruire e ferma restando l’importanza del dollaro come strumento operativo; l’ipotesi sostenuta principalmente da John Maynard Keynes era una moneta contabile unica il cui tasso di cambio veniva fissato dalla media tra i tassi delle monete dei principali Paesi del mondo. Quella moneta il cui nome sarebbe stato Bancor avrebbe rappresentato una sorta di ancoraggio di tutti i Paesi aderenti a questa sorta di club, le cui rispettive monete non potevano, anzi non dovevano allontanarsi dai tassi stabiliti una volta per tutte tra ciascuna di loro e il Bancor, potendo tuttavia oscillare entro una fascia del 4 o del 6 per cento senza subire alcuna penalità sulle rispettive economie.
Qualche cosa di simile era avvenuta tra le varie monete europee e fu definita una sorta di clearing multilaterale, con oscillazioni consentite entro il 6 per cento e con l’obbligo di saldare ogni mese i debiti eventuali al suddetto club chiamato Ecu. Il pagamento avveniva in dollari. Questo clearing multilaterale durò fino al 1997 quando i Paesi europei (non tutti ma i principali) decisero di adottare la moneta unica, cioè l’euro. I Paesi membri dell’Unione europea, politica ed economica, erano 28 fino a quando il Regno Unito di Gran Bretagna ne è uscito e dunque gli Stati sono diventati 27, dei quali 19, i principali, hanno aderito all’euro. Tra di essi il principale è la Germania non soltanto per la sua struttura economica e per la consistenza della sua popolazione, ma anche perché l’euro, di fatto, non è che il cambiamento di nome del marco tedesco che era la moneta di riferimento sulla quale furono fissati i vari cambi con le altre monete. Queste sono le premesse storiche della crisi monetaria attuale. Una crisi, o meglio una crescente sfiducia nella moneta comune, nasce naturalmente da ragioni politiche ed anche da malanni economici e sociali che ciascuno dei 19 Paesi europei sta attraversando. Ritirarsi dall’euro, magari soltanto per qualche anno, consentirebbe soprattutto di essere sottratti a quella sorta di protettorato tedesco che stabilisce la politica economica e le regole che gli Stati debbono rispettare, i sistemi di controllo e le relative penalizzazioni nei casi di inadempienza. Ma sarebbe anche la fine di un sogno che non è un’utopia ma deve, dovrebbe, diventare una realtà e cioè gli Stati Uniti d’Europa, senza la quale (l’ho scritto infinite volte ma l’ascolto dei vari governi è nullo su questo tema) le nazioni europee in una società sempre più globale diventeranno scialuppe di salvataggio o gommoni o gondole per turisti che vengono a godersi le tante bellezze d’arte e di panorama dei vari Paesi europei che in una storia di almeno tremila anni sono stati la culla della civiltà del mondo ad occidente della Cina, dell’India e dell’Africa centrale.
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C’è una sola eccezione al nazionalismo e al populismo che hanno impedito al sogno di Ventotene di diventare realtà, ed è la Banca centrale europea e il suo presidente Mario Draghi. È italiano e prima di essere prescelto per dirigere l’Istituto che ha sede a Francoforte è stato governatore della Banca d’Italia, ma la sua nazionalità originaria non ha minimamente influenzato il suo lavoro; l’Italia è una componente importante dell’Unione europea e come tale interessa la Bce non meno ma nemmeno più degli altri Paesi europei.
La Bce fu concepita nel 1997. Era evidente che una confederazione che aveva deciso di chiamarsi Unione senza ancora esserlo, aveva bisogno di trasformare l’Ecu, cioè il clearing multilaterale, in una Banca centrale; ma in realtà quella decisione fu presa da Mitterrand e da Kohl come contrappeso politico all’unificazione della Germania Est (filosovietica) con la Germania Ovest, ovviamente europeista. La Francia e tutti i Paesi dell’Unione temevano molto un’eventuale tendenza filosovietica della Germania, della quale c’erano già stati alcuni preoccupanti segnali. La creazione d’una Banca centrale e d’una reale unione europea furono il prezzo che la Germania dovette accettare per poter portare fin quasi all’Elba i propri confini e per annettersi milioni di persone di lingua tedesca ampiamente addestrate alla vita e al lavoro industriale: una ricchezza e un aumento di popolazione che fece della Germania il primo paese d’Europa.
La Francia mitterrandiana non era certo (e tuttora non è) protesa verso un’Europa federale; la “grandeur” francese è sempre stata un ostacolo alla federazione; ma un’Europa nell’orbita sovietica sarebbe stata un pericolo e una diminuzione del potere politico della Francia e Mitterrand agì di conseguenza.
Va anche aggiunto che timori analoghi aveva anche il cancelliere tedesco: Kohl era europeista, il suo partito democristiano, la Cdu, non era affatto propenso ad eventuali politiche di apertura verso l’Est, alla quale guardavano invece con simpatia il partito socialdemocratico e soprattutto le sue frange di sinistra comunista. Kohl perciò si schierò con Mitterrand e fu anche confermato in questo atteggiamento dall’immediata adesione dell’Italia di Prodi e soprattutto di Ciampi che era allora il ministro del Tesoro e fu quello che trattò con Kohl sulle modalità e il tasso di cambio tra la lira e il nascente euro. Questa è la storia dell’euro, che soppiantò le altre monete dei diciannove Paesi europei ed ebbe ovviamente una Banca centrale della quale le Banche centrali nazionali costituiscono il suo consiglio.
La Bce è la sola istituzione europea sostanzialmente indipendente rispetto alle altre. È vero che i suoi azionisti sono i 19 Paesi che aderiscono alla moneta euro, ma è anche vero che non si tratta di un vero e proprio consiglio di amministrazione. Draghi non ha sopra o accanto a sé un solo ministro del Tesoro, ma ne ha 19, il che in una materia squisitamente tecnica significa nessuno.
Eppure è proprio Draghi ad avere chiesto con insistenza che sia creato un ministro del Tesoro unico dell’Eurozona. È vero che spetterebbe al Consiglio dei capi di governo dell’Eurozona sceglierlo e nominarlo, ma qui la loro area di guida e di controllo cessa, la Banca centrale può rispondere ad uno ma non a diciannove. Eppure quell’uno, che ridurrebbe in qualche modo il potere di Draghi sulla politica monetaria dell’Eurozona e non soltanto, è proprio lui che lo vuole, appoggiato in questo anche da Renzi quando era capo del governo. Come mai?
La riposta è semplice: Draghi è un favorevole assertore dell’Europa federale e non soltanto confederata, e sa che un solo ministro del Tesoro dell’Eurozona sarebbe un passo importante verso la federazione europea. Draghi vede lucidamente i pericoli di un’Europa di governicchi in una società globale, non sente ovviamente sentimenti nazionalistici ed è perciò il più franco e sincero sostenitore degli Stati Uniti d’Europa. Purtroppo con pochi alleati. L’Italia di Renzi lo è stata e anche quella di Gentiloni lo è e lo è stata quella di Napolitano, di Ciampi, di Prodi. Fine: non lo è Grillo, non lo è Salvini. Berlusconi lo è a mezza bocca, in realtà del tema Europa non gliene importa niente. Se la sinistra italiana prendesse sul serio questo tema come dovrebbe, sarebbe una forza politica non trascurabile, ma è occupata soltanto dalle sue beghe interne di partito; è europeista ma non ha mai mosso un dito per dimostrarlo. Non così il suo leader: Renzi in Europa ha dato il meglio di sé e se avesse agito con altrettanta lucidità sul piano italiano non si sarebbe cacciato nel mare di guai che sta e stiamo attraversando.
È incredibile come in tre anni sia venuto meno un leader che sembrava poter governare con carisma e con efficacia (che è più importante del carisma). Ce la farà a riprender quota? Avrebbe fatto meglio a proseguire il suo governo e, visto che rifiutò l’offerta in quel senso del presidente Mattarella, farebbe bene ad occuparsi del partito, dell’Europa ed attendere che Gentiloni conduca il governo fino alla fine naturale della legislatura; a quel punto potrebbe ripresentarsi al Paese con una legge elettorale appropriata.
Pubblichiamo in questo numero di Repubblica una sua ampia intervista con Ezio Mauro. È interessante, le domande di Ezio sono tutte appropriate come sempre. Le risposte di Renzi altrettanto precise; a sentirlo parla del futuro suo e di quello del Paese. Si tira un respiro di sollievo, ma sul tema delle elezioni subito, e con quale legge elettorale, c’è il silenzio pressoché assoluto. E quindi altrettanto assoluto è il mio giudizio sulla sua figura di statista. A me sembra piuttosto essere un perfetto giocatore di roulette. Spero ovviamente di sbagliare: non tanto nell’interesse di Renzi ma in quello del Paese.
RP.IT