Crescita e sviluppo: vince il Nord Europa, il rapporto di Davos boccia l’Italia, posto 27 su 30
Immaginate una classifica dei trenta Paesi più ricchi del mondo con cui misurare insieme qualità delle istituzioni, opportunità d’impresa e sicurezza sociale. L’ha fatta il World Economic Forum, e l’Italia ne esce male, appena ventisettesima. Si chiama “Inclusive Growth and Development Report”: nell’era dei populismi, delle diseguaglianze e della stagnazione secolare occorre aggiornare le parole d’ordine. All’ultimo G20 i cinesi hanno lanciato il mantra della globalizzazione inclusiva, un messaggio che sarà fatto proprio anche dal G7 made in Italy. La “crescita inclusiva” è da qualche anno il concetto chiave al Forum di Davos, l’appuntamento più atteso dalla politica e finanza mondiale che inizia domani fra le montagne svizzere.
La classifica per il 2017 è il trionfo di quelle che una volta chiamavamo le socialdemocrazie nordiche. L’indice di “sviluppo inclusivo” incorona come migliore fra le vecchie economie ricche la Norvegia, seguita da Lussemburgo, Svizzera, Islanda, Danimarca e Svezia. Oggi quei Paesi vincono per ragioni in parte diverse da quelle che negli anni settanta e ottanta ne facevano un modello. Non solo perché si tratta di Paesi con (ancora) i migliori standard di sicurezza sociale, ma perché nel frattempo sono diventate economie dinamiche e in grado di attrarre capitali esteri. Educazione, servizi di base, infrastrutture, livello di corruzione, lavoro. Ad eccezione di Australia e Nuova Zelanda (rispettivamente ottava e nona) i primi dodici Paesi con il miglior mix di sviluppo imprenditoriale e sicurezza sociale sono tutti a nord delle Alpi. La Germania è tredicesima, la Francia diciottesima, la Spagna ventiseiesima seguita dall’Italia. Fanno peggio di noi Portogallo, Grecia e Singapore. Fuori dalla classifica dei trenta Paesi Ocse – con un indice a parte – svettano la Lituania, l’Azerbaijan, Ungheria, Polonia e Romania.
Il capitolo dedicato all’Italia è un concentrato di problemi noti: fatta eccezione per alcuni parametri, il Belpaese risulta molto spesso in coda alla classifica. Ventinovesimi per “servizi di base e infrastrutture”, ventottesimi alla voce “corruzione”, ventinovesimi in “imprenditorialità” e “intermediazione finanziaria”. Talvolta emergono forti contraddizioni, come nel caso dell’educazione: quattordicesimi per diritto all’accesso, solo ventottesimi per qualità della scuola. O alla voce occupazione: ventinovesimi in produttività, noni in “compensazioni salariali e non”. Detta in una battuta: l’Italia non è un gran posto dove aprire un’impresa ma i diritti di chi lavora sono piuttosto tutelati. Siamo undicesimi al mondo per numero di possessori di prima casa, ma anche per la pressione fiscale sulla proprietà immobiliare.
Qua e là emergono aree di eccellenza, più o meno note: tredicesimi per i costi necessari ad avere una linea a banda larga fissa, undicesimi nei test Pisa di matematica, ottavi nella spesa sanitaria in percentuale al Pil, quarti nel garantire una buona aspettativa di vita a tutti i cittadini, ricchi e poveri. Al di là della qualità della spesa, siamo il settimo Paese fra quelli che spendono di più per la sicurezza sociale, il primo nel garantire la sanità pubblica a tutti.
Per i giorni di assenze dal lavoro per maternità siamo quarti al mondo, settimi per i giorni di congedo parentale, ancora settimi per “densità sindacale”, ovvero per il numero di sindacalisti in percentuale ai lavoratori attivi. Nella classifica a trenta siamo al nono posto per la percentuale di lavoratori garantiti da contratti di lavoro collettivo. Una buona notizia per chi vive al Sud (dove il costo della vita è più basso) non un grande viatico per chi crede in un sistema più inclusivo e meritocratico: siamo ultimi per salari legati alla produttività, penultimi nel tasso di partecipazione delle donne al lavoro, terzultimi per tasso di occupazione giovanile.
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