Le richieste Ue e il governo al bivio
MASSIMO GIANNINI
IL MONDO sta cambiando in fretta, e noi non abbiamo niente da metterci. Domani Trump entra alla Casa Bianca promettendo di far salire il pianeta sulle montagne russe di Putin. Theresa May ha alzato il muro di Brexit riesumando la vecchia filosofia imperiale inglese (tempesta sulla Manica, continente isolato).
E il comunista Xi Jinping ha abbattuto le barriere del protezionismo rispolverando Adam Smith (il mercato è un Oceano, noi cinesi nuotiamo). E oggi la piccola Italia si ritrova disarmata e sola di fronte al diktat dell’Europa matrigna: avete troppo debito pubblico, avete sforato il tetto del deficit, ora fate subito una manovra aggiuntiva o scatta la procedura d’infrazione.
Solo un ingenuo Candide può stupirsi, adesso, di fronte alla pretesa di Bruxelles. Era tutto fin troppo chiaro: l’Unione a trazione tedesca ha concesso a Renzi una wild card, valida fino al 4 dicembre. Ha chiuso gli occhi di fronte alle sue incontinenze fiscali (flessibilità supplementare per 19 miliardi in due anni) e gli orecchi di fronte alle sue intemperanze verbali (“questa Europa ha fallito, discute di virgole e sforna documenti che non dicono niente”). Lo ha fatto in nome di un interesse comune: consentire all’ex premier di vincere il referendum e “sconfiggere i populismi” grillo- leghisti, alla vigilia di un ciclo elettorale che può portare le destre nazionaliste al potere in Francia e persino in Germania.
Ma era ovvio che il giorno dopo il referendum (e forse addirittura a prescindere dal suo esito) quella wild card sarebbe scaduta. Ora, con tutto il male che si può dire per una pura “astrazione geo-politica” che sa fare la faccia feroce su un decimale in più nei disavanzi ma non sa mostrare nessuna pietà per la tragedia epocale dei migranti, la sgangherata Ue ci presenta il conto. Salato, ma inevitabile. Paghiamo un anno vissuto pericolosamente. Renzi ha scommesso tutto sul referendum. Ci ha fatto credere che con una manovra “espansiva” da 27,5 miliardi (in deficit per quasi mezzo punto di Pil e infarcita di mancette elettorali per oltre 5 miliardi) avremmo imbroccato un magico terno: il sì avrebbe trionfato, sarebbe ripartita l’economia e avremmo spezzato le reni alla perfida Bruxelles.
Nessuno dei tre risultati è stato raggiunto. Il costo politico della scommessa perduta lo paga Renzi. Ma il costo economico lo paghiamo noi. L’ex premier non ne sembra molto consapevole: nell’intervista a Ezio Mauro di domenica scorsa riconosce un generico errore (serviva “più cuore e meno slide”, che vuol dire tutto e niente) salvo poi rivendicare puntigliosamente la sacra intangibilità di tutte le scelte fatte (dagli 80 euro alle banche, dal Jobs Act ai voucher, dal Giglio magico a Carrai). Ma i numeri sono numeri. E purtroppo parlano più chiaro delle interviste.
Il Fondo monetario rivede al rialzo le stime di crescita 2017 di tutti i Paesi del mondo (più 3,4% nella media) e rivede al ribasso solo quelle dell’Italia (più 0,7%, cinque volte meno dei partner europei). L’Istat certifica che a novembre la disoccupazione torna a crescere all’11,9%, e quella giovanile raggiunge un picco del 39,4 (mai così alto da ottobre 2015). Prometeia ci conferma che la produttività italiana (cresciuta solo dello 0,3% già prima della Grande Crisi del 2007, contro il 13,1 della Germania e il 20,5 della Francia) negli otto anni successivi è risalita a un ritmo medio pari a meno della metà dei due Paesi concorrenti.
Qui sta il punto. Abbiamo sfidato l’Europa, decidendo consapevolmente di non rispettare il tetto del deficit concordato, per una “causa” che alla fine si è rivelata inutile. Questa è la colpa più grave, e l’eredità più pesante che il vecchio governo lascia al nuovo. Volendo sforare sul Patto di stabilità, avremmo potuto e dovuto “osare” sul serio. Andando in deficit non per uno 0,4, ma per l’1,5 o il 2%. Rinunciando alla politica dissennata dei bonus, e varando una grande operazione di abbattimento del cuneo fiscale sul lavoro e/o di investimenti pubblici (nei settori della ricerca, dell’istruzione, delle infrastrutture di rete, delle tecnologie dell’informazione).
Renzi non l’ha fatto, per esigenze tattiche o per carenze strategiche. Si tratta di capire se ora può farlo Gentiloni. Il neo-premier ha due strade. Limitarsi a soddisfare la richiesta della Commissione, e ritagliare una manovrina da meno dei 3,4 miliardi richiesti, quanto più indolore e irrilevante possibile. Oppure azzardare il vero colpo d’ala, e presentare ad aprile un Documento di economia e finanza finalmente ambizioso, che forza i vincoli europei, ma al servizio di un grande piano di sgravi fiscali sul lavoro e di stimoli “keynesiani” all’innovazione.
La prima è la via più “ortodossa”, e anche più conservativa, che sembra prevalere di fronte alla linea del rigore riproposta da Merkel a Berlino nel faccia a faccia con il presidente del Consiglio. La seconda è la soluzione più “eversiva”, ma anche più suggestiva, che sembra animare una “corrente” di governo guidata da Carlo Calenda. La scelta non è facile. Incrocia questioni spinose, come la durata di questo esecutivo, la futura legge elettorale, l’eventuale voto anticipato. Soprattutto, chiama in causa i rapporti tra l’ex premier (che ha tuttora in mano i destini della maggioranza) e quello attuale (che ha in mano le leve di Palazzo Chigi). Tocca a Gentiloni decidere se vuol giocare da “capitano”, o preferisce “una vita da mediano”.
REP.IT