Così la nuova faglia più a sud scatena le scosse a ripetizione «Mai vista una sequenza simile»
di Giovanni Caprara
Quattro scosse tra le 10.25 e le 14.33 di ieri con una magnitudo superiore ai 5 gradi della Scala Richter nelle province dell’Aquila: una sequenza che impressiona. «Sono il frutto di un’estensione a Sud del sistema di faglie dei Monti della Laga da cui è nato il terremoto nel settore più settentrionale del 24 agosto scorso», precisa Alessandro Amato dirigente dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia (Ingv). Un nuovo fronte, dunque, in una zona lunga 15 chilometri e larga sei che già aveva manifestato movimenti tellurici meno intensi negli ultimi mesi sino ad arrivare a 4.4 di magnitudo nel novembre scorso e per questo guardata con attenzione.
Le varie faglie dell’Appennino
Già a partire dalla mattinata si erano registrate un centinaio di scosse superiori a 2 gradi di magnitudo, di cui le quattro rappresentano i picchi più intensi. Gli ipocentri sono tutti ad una profondità tra 8.9 e 10 chilometri ben allineati fra loro: Montereale, Capitiniano (due volte) e Barete. «L’Appennino centrale è attraversato da varie faglie attive con geometrie e direzioni diverse che interagiscono fra loro influenzandosi a vicenda — precisa Amato —. Nel tempo accumulano energia fino al momento, come quello di ieri, in cui si manifesta».
La dinamica
In una animazione generata dai computer dell’Ingv con i dati raccolti dalla rete dei sismometri emergeva che le onde si sono propagate con diversa velocità a seconda delle caratteristiche topografiche e geologiche che incontravano. È noto che tutta la regione è giudicata dalla mappa nazionale di pericolosità sismica ad alto rischio. Qui alla base dei terremoti c’è lo stiramento trasversale della crosta appenninica per cui abbiamo il mare Adriatico che si allontana dal mare Tirreno mentre la microplacca adriatica si incunea sotto le Alpi. Finora si sono misurati 3-4 millimetri di distensione ogni anno. Potranno sembrare pochi ma in cento anni l’allontanamento raggiunge i quattro metri generando nel sottosuolo cambiamenti non di poco conto. A questo si deve aggiungere la spinta verso Nord della placca africana che genera altri mutamenti ed effetti più immediati, ad esempio, sulle regioni meridionali. Movimenti complessi e combinati fra loro, quindi, difficili da diagnosticare nelle loro conseguenze. «A lungo termine si creano dei cicli sismici che rilasciano energia in modo irregolare — nota Amato —. Ogni ciclo è unico, difficilmente uguale ad un altro e dipendente sempre dalla costituzione delle rocce che conosciamo solo da lontano. Inoltre le faglie non si muovono tutte insieme, ma a macchia di leopardo».
Il precedente di tre secoli fa
Nella storia il terremoto più vicino che si conosca della zona si è scatenato il 2 febbraio 1703 e aveva una magnitudo pari a 7.7, secondo le valutazioni compiute successivamente. Allora le faglie dovevano però essere più occidentali tra Pizzoli e Monte Marine. In seguito si sono avuti terremoti contenuti nella loro intensità. Quello di tre secoli fa è ritenuto abbastanza simile all’attuale nelle caratteristiche con due eventi tra gennaio e febbraio. «Il sisma del 18 gennaio è diverso da quello dell’Aquila del 2009 — prosegue Amato — semmai possiamo notare dei casi simili, ad esempio Colfiorito nel 1997».
Suolo perturbato
«Quanto è accaduto fa pensare ad un’attivazione delle faglie a passi successivi — conclude Amato — dai quali si possono generare scenari diversi: da una sequenza di scosse minori con qualche picco più intenso fino al coinvolgimento di altre zone adiacenti. Naturalmente siamo nel campo delle ipotesi teoriche e non delle previsioni». Di sicuro ci troviamo davanti a una situazione interna ancora perturbata con un decorso che può durare poche settimane. Tuttavia se le strutture sotterranee contagiate fossero diverse l’estensione nel tempo sarebbe certamente superiore.
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