La rivincita dell’Italia che scava e sa soffrire
RIGOPIANO Poi dalla tomba di ghiaccio sbuca una testolina castana: e la storia cambia, cambiando tutti noi. Alle undici di mattina il primo sopravvissuto alla valanga dell’hotel Rigopiano è un bambino di 8 anni. I pompieri gli battono le mani, lo sfiorano, lo stringono, ridono e piangono e, stendendolo in barella sotto coperte finalmente calde, gli gridano «bravo, chicco, bravo!»; e un po’ sembrano dirlo a loro stessi, bravi, sì, dopo queste interminabili ore di calvario in cui tutto pareva devastare l’onore dell’Italia e quello di ciascuno. Bravo, chicco. Tanti che non torneranno sono da piangere e da ricordare, e non sarà mai possibile festeggiare davvero: perché questa è e resta una tragedia immane. Ma, da ieri, è anche un’altra storia. Perché ogni viso stravolto e grato che viene strappato alla montagna è una rivincita dell’altra Italia. Non il Paese furbastro e sciatto, non il Malpaese che con grottesca pigrizia prende sottogamba l’allarme per il disastro lanciato quasi in diretta da un superstite (per l’ennesimo capriccio del destino proprio il papà di «Chicco»). No, questa è l’Italia che scava e sa soffrire. Quella che non smette di sperare, dando in fondo qualche ragione pure al tanto criticato capo della Protezione civile Fabrizio Curcio che mai aveva buttato la spugna.
Dopo il bambino, esce dal cunicolo aperto nel ghiaccio la mamma, Adriana che, voltandosi, implora i pompieri di pensare anche all’altra figlia più piccola, «è nella stanza accanto…», o almeno in ciò che resta d’una stanza d’albergo tra lastroni, detriti e tronchi.
Quaranta ore al buio
Più di quaranta ore di prigionia nel buio dolente della valanga, con il terrore per compagno. Alla fine della giornata, tra chi è salvo e chi, individuato sotto il ghiaccio, sta per esserlo, si arriverà a una lista di dieci nomi (tra loro quattro bambini), numero variabile perché le fonti ballano un po’ e perché occorre cautela, ogni nome di chi ce l’ha fatta avvicina l’angoscia dell’altra lista, quella dei sommersi, nel cuore e nella mente di tante famiglie in esasperante attesa e già sul piede della rivolta.
E tuttavia la cronaca di ieri e dell’altro ieri va scritta anche in modo diverso. Con visi diversi, che sin dall’inizio c’erano ma forse non vedevamo, accecati dal dolore e dalla rabbia. Al centro operativo di Penne, tra le squadre d’intervento, rientra uno dei quattro che la prima notte sono riusciti a raggiungere Rigopiano: s’è fatto settecento metri di risalita con le pelli di foca sotto gli sci e ridacchia, «guardi che per noi è normale». Ha 38 anni, è un volontario nel Corpo nazionale di soccorso alpino e speleologico. E non vuol dire il nome: «Nel gruppo siamo quindici, se glielo dico faccio un’ingiustizia agli altri quattordici». Negli occhi ha questi mesi che hanno stravolto l’Italia centrale: «Ero ad Amatrice, è stato terribile. Ma quello che ho visto quassù non ha paragoni. È un terremoto coperto da tre metri di neve ghiacciata».
L’ircocervo mostruoso
Loro non hanno mai smesso di lavorarci, contro questo ircocervo mostruoso. E il risultato di ieri è frutto dell’intera notte passata a scandagliare la montagna che ha inghiottito l’albergo, con i cani, resistendo al freddo e allo sconforto, a rischio della vita perché la slavina del disastro «non è stabilizzata», dicono. Il primo messaggio di vittoria tra l’elicottero dei pompieri e la base fa venire un brivido: «Ne abbiamo trovati sei e servono coperte: sono vivi».
Vivi. Questa straordinaria e magica parola rimbalza in fretta nella valle di Farindola, nelle frazioni di Penne, da dove venivano quasi tutti coloro che lavoravano nell’hotel. Fa il giro d’Italia e l’Italia diventa Rigopiano, come trentasei anni fa diventò Vermicino. E molto di più, perché quella prima diretta è moltiplicata per mille e mille volte sui social network e qui ci sono le tv di mezzo mondo.
«Mi commuovo e non me ne vergogno»
Al bivio, pochi chilometri sotto l’albergo caduto, c’è l’ultima base dei soccorsi: passano, si coordinano, ripartono. Stavolta ci sono le ambulanze, sì, tante, che iniziano ad affluire arrancando. L’assistente Maria ha la faccia da mamma buona e viene da Bari («dal Cep, il massimo del malfamato, lì o esci delinquente o esci come me, poliziotto»): non sta più nella pelle. Si agita, si sbraccia: «C’è gente viva là sopra, le ambulanze passano prima!». Il suo collega anziano, 28 anni di servizio, ha i lucciconi: «E sì, io mi commuovo, non me ne vergogno». Manovrando frenetici per superare i blocchi di neve, i pompieri si fanno gli auguri: «In bocca al lupo e speriamo che stavolta crepi». Vivi, sono vivi.
Il bar tabacchi di Villa Cupoli, ai piedi del canalone, è il vero punto di raccolta dei paesani, degli amici, di chi sta col fiato sospeso. Tutti conoscono tutti, e Danilo, aria mite e occhiali spessi, dice che ormai si va solo a casa per mangiare un boccone e si torna qui di corsa a guardare la televisione stretti gli uni agli altri: «Sono tutti amici miei, lassù, siamo cresciuti insieme, non ci dormo!». Il bar è pieno e parte un boato quando appare il primo flash: sei vivi. Ogni vivo che s’aggiunge, ogni barella che passa sullo schermo, la scena si ripete: «Linda, quella è Linda!». «Quello è il pizzaiolo di Penne!». Martina lavorava nell’albergo, è salva per caso, è stata intervistata al mattino e, alle due di pomeriggio, guarda se stessa che parla dei suoi compagni alla tv.
È anche un immenso specchio questa storia, dalla prima diretta Facebook di un quotidiano locale ai salvataggi postati da pompieri e finanza sui siti. Così lo guardiamo e riguardiamo ipnotizzati il primo faccino di bimbo che spunta dall’antro della morte. Noi, più vecchi, sappiamo perché: è una catarsi, il finale di una diretta infinita, il riscatto che ci rubarono assieme alla vita di Alfredino Rampi.
CORRIERE.IT
This entry was posted on sabato, Gennaio 21st, 2017 at 09:35 and is filed under Editoriali - Opinioni. You can follow any responses to this entry through the RSS 2.0 feed. You can skip to the end and leave a response. Pinging is currently not allowed.