La retorica degli sciacalli
di FRANCESCO MERLO
SUBITO dopo il terremoto, come primo atto di decenza, il Viceré di Sicilia Giovan Francesco Paceco, duca di Uzeda, esibiva i corpi penzolanti degli sciacalli che faceva impiccare. A quei tempi gli sciacalli rovistavano tra le rovine e tagliavano le dita dei cadaveri per rubare le fedi d’oro. Oggi vanno in televisione in doposci, come nel programma di Lilli Gruber ha fatto Matteo Salvini che però dei tanti sciacalli d’Italia è solo il più volgare e dunque anche il più visibile, è il Bertoldo della politica che contrappone le disgrazie dei terremotati ai presunti agi e conforti degli infelici immigrati: Amatrice contro il Nord Africa, l’Abruzzo contro il Senegal.
Proprio come ai tempi dei Vicerè, oggi gli sciacalli d’Italia di nuovo si avventano sulle vittime. Non più per strappare vestiti e gioielli, ma per fare di quei poveri corpi il podio e la cattedra della peggiore demagogia nazionale. Dunque lucrano consenso facile approfittando del malessere e dello smarrimento di tutti. Indicano ogni giorno un qualche responsabile nuovo. Espongono alla rabbia collettiva un capro espiatorio. E gridano contro gli untori manzoniani che non hanno spalato in tempo o non sono riusciti a fare alzare gli elicotteri. Ci sono gli untori che hanno speculato sui terreni, quelli che hanno venduto licenze, o gonfiato gli appalti. E c’è il super untore che è lo Stato, cattivo per definizione. La colpa vera è sempre sua, come nella psicanalisi è sempre di Edipo e di Laio.
In Italia lo sciacallaggio è una banalità, diventata ormai automatica, che accresce il malessere e lo cambia, deforma l’ottica dei sopravvissuti, mette gli occhiali al dolore cieco, ma per farlo stravedere. E infatti sono sciacalli anche quelli che sanno sempre cosa bisognava fare, e come e quanto prevedere. Se fosse dipeso da loro, i lungimiranti sciacalli non avrebbero perso tempo con non si sa quale burocrazia, e sicuramente gli ingegneri di Beppe Grillo avrebbero approntato un rimedio preventivo anche alla legge di gravità, in modo da stare tutti in aria mentre la terra tremava.
Ho letto che Giampiero Mughini se ne è accorto prima di tutti, e infatti già ieri li ha definiti cialtroni e imbecilli, e non solo perché, come me, è nato in uno dei posti più terremotati d’Italia, un posto che ha come origine del calendario non la nascita di Cristo ma la rinascita dal terremoto del 1693 che distrusse la Sicilia orientale. Ebbene, io credo che il termine giusto non sia cialtroni, ma quello che la storia ci ha insegnato. Appunto, sciacalli (che peraltro non confligge con cialtroni).
Il viceré Uzeda che, prima ancora della ricostruzione e delle indagini sugli errori umani, faceva montare quelle forche di cui dicevamo all’inizio, sapeva bene che la sciagura produce altra sciagura, che lo sciacallaggio allarga la tragedia, e che le responsabilità vanno cercate con sobrietà e soprattutto dopo avere salvato il salvabile.
Lo sciacallaggio è infatti l’antagonista della solidarietà, il suo esatto contrario. Ambedue stanno sulla vittima, lo sciacallaggio per mangiarsela, per divorarla — come fa la iena — e la solidarietà per confortarla, rianimarla e curarla. Ma in Italia, dove tutto è raffinato, scatta pure automatico lo sciacallaggio sulla solidarietà, la cui onestà è sempre messa in dubbio, come sta avvenendo in queste ore confuse, con l’idea che, gratta gratta, dietro ogni raccolta di fondi c’è una banda Bassotti, e anche gli sms sono controllati da Al Capone. Riemerge, come si vede, l’eterna teoria del complotto, con il risultato di rendere sospetta e dunque rallentare anche la generosità che ha bisogno di freddezza e di lucidità e non di essere distolta e indebolita dalla denunzia contro i soliti ignoti che forse fanno la cresta sugli aiuti, contro quelli che forse transennano troppo per ottenere più finanziamenti, contro quelli che forse seppelliranno i fondi nella palude, nella morta gora dantesca… Io non dico che dovremmo fare come il viceré Uzeda che li impiccava. Ma forse di ognuno che straparla e sciacalleggia bisognerebbe almeno svelarne la cinica intenzione, la lingua biforcuta da serpente diabolico, da nemico dell’umanità sofferente.
Hemingway, che prima di essere un grande scrittore fu un formidabile giornalista, metteva in guardia la professione quando doveva confrontarsi con le catastrofi. Nulla sapeva dei titoli di alcuni giornali italiani che in questi giorni hanno imbruttito il brutto, hanno aumentato il numero delle vittime, hanno contato i dispersi come morti; e la valanga di neve è diventata valanga di colpe, e le attese sono sempre abbandoni e allarmi ignorati. Sui giornali degli sciacalli passa l’idea che i competenti siano sprovveduti e che la Protezione civile — che non è più quella vanitosa di capitan Bertolaso — sia comunque troppo lenta, impreparata non alla neve ma a tutto, e colpevole a prescindere, anche a dispetto dell’evidenza che oggi emoziona l’Italia senza bisogno di parole, perché ieri dieci persone sono state salvate dopo due giorni passati sotto le macerie. E c’è quel video che non è prodigio, non è fenomeno: il buco dal quale viene tirato fuori prima il figlio e poi la madre che lo aveva spinto, i vigili del fuoco che gridano di gioia e, con le mani guantate, accarezzano la testa del bimbo e poi anche quella della madre che sorride e stringe quelle mani.
Come al solito lo sciacallaggio si nutre di retorica, non sempre con l’intelligenza di approfittarne, ma a volte solo come risorsa di noi giornalisti in crisi. Nel settembre del 1923 il Toronto Daily Star, inviando appunto Hemingway a raccontare il terremoto di Yokohama, gli fornì un prontuario, un manuale di antiretorica per scrivere di sciagure: mai speculare sui morti (non diceva di non usare i doposci), mai usare iperboli per raccontare il dolore, rimanere freddi, rivolgere ai sopravvissuti solo domande secche, scrivere con frasi brevi, non violare la privacy né dei vivi né dei morti… Hemingway cominciò il suo articolo così: «Questa è una storia senza nomi».
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