La forza dell’Io sul percorso di Donald Trump e Matteo Renzi
di EUGENIO SCALFARI
DA MOLTI anni della mia lunga vita ho trovato il tempo, nonostante le tante attività pratiche del giornalismo e dell’editoria, di studiare due elementi essenziali che distinguono la nostra specie da quella animale da cui proveniamo: l’Io che la fa da padrone con Narciso, l’amore di sé, che accompagna l’Io e lo rafforza aumentandone la superbia e il desiderio del potere. L’altro elemento sono le contraddizioni altrettanto essenziali che in qualche modo accrescono la ricchezza dell’Io ma contemporaneamente lo indeboliscono rendendolo più fragile anche perché ne individuano la propensione verso il potere e il comando.
Le contraddizioni sono nascoste nel profondo del Sé, dove nascono gli istinti, cioè nel profondo di noi stessi e sono cosa diversa dall’Io. Freud, Jung ed anche Spinoza prima e Nietzsche dopo studiarono contemporaneamente gli istinti, il Sé, l’Io. Sdoppiarono quest’ultimo affiancandogli il Super-Io, una sorta di guardiano per conto della società nella quale ogni individuo, cioè ciascuno di noi, vive, a cominciare dalla famiglia e allargandosi all’amicizia verso gli altri, verso la propria comunità, verso la propria Nazione, verso i poveri e anche verso i ricchi e i potenti, verso il prossimo anche se lontano. Non a caso una delle regole principali del cristianesimo è “ama il prossimo tuo come te stesso”, riconoscendo la legittimità dell’amore verso di sé ma nella stessa misura verso gli altri.
Questi elementi hanno fatto e fanno la storia della nostra vita la quale, dominata da questi istinti, si estende ad altri due che possono sembrare contraddittori e invece non lo sono affatto: il destino e il caso. Il primo altro non è che il carattere di ciascuno di noi che si forma dal lascito dei genitori, dall’amore in cui quel lascito è nato, dall’educazione impartita anche con l’esempio, dal genere di cultura del luogo e della società in cui viviamo. Il destino riflette insieme il carattere delle persone.
Il caso invece è una sorta di legge di probabilità: gli incontri che fai, le guerre che ti coinvolgono, l’amicizia e l’inimicizia, la gelosia, l’invidia. Il caso non è contraddittorio rispetto al destino, lo completa e lo mette alla prova. Non si dovrebbe modificare il carattere per gli eventi suscitati dal caso. Ne volete un esempio letterario che ci fu offerto dal Manzoni dei Promessi Sposi ? È la conversione dell’Innominato che era stato per molti anni la fonte del male e improvvisamente diventò fonte del bene dopo aver rapito Lucia per favorire un altro nobilastro come don Rodrigo, ma si commosse e si pentì trasformando il suo carattere e quindi il suo destino.
Credo d’aver enumerato le passioni e le caratteristiche che determinano la vita di ciascuno. Salvo un punto che condividiamo con gran parte degli animali dai quali la nostra specie discende e cioè l’istinto fondamentale che domina tutti gli altri ed è presente in quasi tutti gli individui: l’istinto di sopravvivenza, che si divide in due sentimenti, la sopravvivenza di se stessi e quella della specie animale da cui proveniamo. Noi siamo una specie socievole, se fossimo soli a vivere su questo pianeta non reggeremmo alla solitudine. Perciò siamo socievoli e la nostra sopravvivenza si estende agli altri esseri e perfino agli animali domestici. L’intensità di questa sopravvivenza è tuttavia non determinabile: a volte è molto avvertita, altre volte poco o niente. E questa è la vera distanza tra il bene e il male, tra la guerra e la pace. La vita è un’avventura, determinata da tutti gli elementi più emeriti. Cerchiamo ora di vedere quale tipo di vita stiamo vivendo.
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Le due figure più interessanti e più attuali per noi cittadini italiani ed europei sono Donald Trump e Matteo Renzi. Non si somigliano affatto, almeno in apparenza, ma a guardar bene qualche tratto analogo in entrambi c’è. Del resto è vero che ciascuno di noi differisce dagli altri ma è altrettanto vero che apparteniamo alla medesima specie. La vera differenza tra i due sta nel diverso raggio d’azione: Trump si rivolge agli americani nella sua qualità di presidente degli Stati Uniti d’America, la più grande potenza del mondo. Renzi è invece il leader del Partito democratico italiano, un partito che ha il proprio influsso sul governo Gentiloni e come tale ha anche una funzione indiretta sull’Europa. Molto indiretta ed anche di rilievo assai limitato. È vero che l’Italia è uno dei Paesi fondatori dell’Unione europea, con origini lontane che risalgono alla Comunità del carbone e dell’acciaio e ai trattati firmati a Roma dai fondatori d’un primo nucleo verso un’Europa federale, con organi sovrani e regole e strumenti comuni. È ovvio che il potere di Trump e quello di Renzi, che peraltro è stato presidente del Consiglio per quasi tre anni e come tale esercitò poteri sovrani condivisi con i 27 Paesi che fanno parte dell’Ue e con gli altri 18 che fanno parte dell’eurozona, non sono equiparabili, ma in ogni caso a noi cittadini italo-europei interessano entrambi e quindi cerchiamo di capire le loro funzioni, le loro facoltà, la nostra considerazione per l’uno e per l’altro cominciando dal presidente degli Usa che ha appena giurato con un discorso davanti al Congresso americano durato appena venti minuti ma non per questo meno significativo.
Trump si è di fatto definito un populista. Non ha un partito, i repubblicani lo hanno appoggiato elettoralmente ma lui non è repubblicano. Lui è lui, si sente il capo degli americani, cioè crede di rappresentare la grande maggioranza del suo popolo, al quale propone una politica di protezionismo economico, di chiusura alla immigrazione, di politica imperialista che si sceglie secondo i suoi interessi gli interlocutori e gli avversari. Per ora l’interlocutore principale è Putin. Attenzione: interlocutore, non alleato. L’avversario è invece la Cina, un Paese territorialmente enorme, ostile, che finora ha investito cifre imponenti in titoli del debito pubblico americano, il che la rende al tempo stesso importante e fragile nei confronti dell’America, sul cui territorio ha numerose comunità molto attive che Trump considera sgradite perché tolgono lavoro agli americani.
A guardar bene Trump coltiva una tendenza di tipo dittatoriale: un capo e l’America, nessun partito, uno staff personale composto da uomini di finanza e da alcuni militari che hanno il solo pregio di un’amicizia personale con lui. Lui è contro l’establishment americano e questo evidentemente piace agli americani. Il populismo di Trump va incontro al populismo di un ceto medio in tragica decadenza ed anche ai giovani. Non sopportano una classe dirigente. Questo corrisponde a ciò che sta accadendo in gran parte del mondo, alle prese con la società globale, con l’emigrazione di interi popoli, dalla quale i cittadini dell’impero vogliono proteggersi delegando questa funzione a chi si propone come loro portavoce. La dittatura populista non pesa. Noi ne abbiamo un esempio relativamente recente con Mussolini. Neanche lui aveva un partito. Aveva origini socialiste ma rivoluzionarie. Poi, nello spazio di pochi anni diventò dittatoriale e della dittatura fece un regime. Con una cultura però che andò addirittura a ripescare l’Impero di Roma di duemila anni fa. Questa fu la genialità di Mussolini che arrivò ad assumere come simbolo storico i fasci romani, il Colosseo e le mura dell’antica Roma. Lui e il popolo, le adunate oceaniche.
Trump vede questa strada ma senza cultura il suo è un comando solitario, la cultura non ce l’ha e non la può avere perché l’America è nata dall’immigrazione: inglesi, francesi, irlandesi, italiani, messicani, caraibici, ebrei. Questi popoli hanno fondato l’America distruggendo gli aborigeni e chiudendone i residui nei territori designati dallo Stato.
Questo è Trump e una parte minoritaria dell’America di oggi. Le dittature sono sempre minoritarie. Se sanno interpretare i malanni e le debolezze del Paese diventano forti e durevoli almeno per un paio di generazioni. Altrimenti durano pochi anni perdendo progressivamente forza fino a scomparire. Da come ha esordito, Trump non sembra un leader duraturo. Il mondo è diventato un grosso punto dubitativo.
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Ed ora il Renzi di oggi. Continua ad essere il leader del Pd con la carica, mai lasciata anche quand’era capo del governo, di segretario del partito. Forse farà le primarie, ma gli iscritti sono ridotti a meno di 400 mila, una misura minima. In compenso quelli che al referendum hanno votato Sì sono stati il 40 per cento dei votanti, l’affluenza fu altissima, i No hanno incassato il 60 per cento. Il 40 per cento dei Sì non sono tutti renziani, comunque è un voto molto rilevante. L’intenzione di Renzi è di votare a giugno oppure, mal che vada, ad ottobre. Dopo quella data si entra nel 2018 anno in cui termina la legislatura ed allora tanto vale attendere la fine col governo Gentiloni. È ciò che Mattarella vorrebbe ed anche il presidente del Senato. Tra pochi giorni si conoscerà la sentenza della Corte costituzionale sulla legge elettorale. L’ipotesi più diffusa è l’abbandono del ballottaggio, un impianto proporzionale per entrambe le Camere ed un premio di seggi al primo arrivato con lista singola o anche con una coalizione.
Se questa ipotesi sarà effettivamente quella adottata è molto probabile che il Pd ottenga il premio maggiore e sia al Senato la più forte minoranza. Quindi la lista unica o una coalizione consente al Pd di estendersi a sinistra con Pisapia, il sindaco di Cagliari, i transfughi dai 5 Stelle, Pizzarotti in testa e forse anche Laura Boldrini. Questo è l’indispensabile impianto elettorale. I moderati di Parisi non voterebbero per quella lista ma sarebbero pronti a convergere su un’alleanza post-elettorale che al Senato sarebbe molto opportuna.
Uno schieramento di questo genere taglierebbe fuori Grillo eliminando finalmente il sistema tripolare che è quanto di peggio per una democrazia e questo sarebbe il risultato più importante dal punto di vista elettorale. Ma al servizio di quale politica? Renzi finora è stato molto avaro di dichiarazioni pragmatiche che riguardano le emergenze nazionali, la politica economica e fiscale, l’atteggiamento verso l’Europa. E riguardano anche, ovviamente, un atteggiamento definitivo verso la dissidenza interna del Pd.
Partiamo da quest’ultima questione che coinvolge il senso di responsabilità di entrambe le parti. A nostro avviso l’iniziativa deve partire da Renzi perché tocca a lui distribuire le carte del gioco. Dovrebbe coinvolgere i dissidenti, a cominciare da Bersani, affidando a lui e a quelli che lo fiancheggiano crescenti incarichi di lavoro. Due soprattutto: lavorare nei circoli per reclutare ed educare politicamente una nuova e giovane classe dirigente del partito, soprattutto territoriale e rappresentativa di quella cultura liberal-socialista che il Pd veltroniano ereditò dal Partito d’azione con lo slogan Giustizia e Libertà. E poi lavorare insieme a lui in Europa e nel Partito socialista europeo avendo già a disposizione, dal punto di vista istituzionale, Tajani da pochi giorni eletto alla presidenza del Parlamento avendo già Mogherini come autorità europea di politica estera ed anche il capogruppo del Partito socialista europeo.
Qual è l’obiettivo da raggiungere nell’Europa di oggi? Dovrebbe essere quello d’una stretta alleanza con Angela Merkel dandole il contributo elettorale da parte dei deputati socialisti italiani che metterebbero in tal modo in causa la scelta degli eurodeputati socialisti tedeschi nonché quelli spagnoli e quelli greci. Nel Partito socialista europeo gli italiani sono i più numerosi. L’attuale dissidenza interna al Pd dovrebbe essere incaricata di affiancare Renzi nella sua azione europea ed europeista nell’appoggiare Merkel a condizione che, una volta vinte le elezioni, si dichiari favorevole agli Stati Uniti d’Europa, senza di che le singole nazioni, ancorché confederate, sarebbero prive di peso in una società sempre più globale, con problemi estremamente impegnativi per piccole nazioni, Germania compresa, che non diano vita ad un’Unione federata. I compiti principali di detta Unione e dell’Italia dentro di essa sono essenzialmente tre:
1. La lotta decisiva contro l’Isis in Libia, in Iraq, in Siria e in particolare a Mosul e a Raqqa.
2. La politica economica di crescita, il ministro del Tesoro unico dell’eurozona, eletto dai 19 Paesi interessati e non nella Commissione di Bruxelles. L’alleanza con Draghi, politica oltreché economica perché Draghi pensa soprattutto all’Europa federata, ad un’Unione bancaria europea, ad una politica di bilancio sovrana europea con relativa emissione di eurobond, ed ad un aumento della produttività sia da parte dei lavoratori sia da parte degli imprenditori.
3. Una politica fiscale che combatta soprattutto le disuguaglianze e il mercato nero, puntando sull’abolizione di un’ampia quota dal cuneo fiscale, non inferiore al 25 per cento del totale, che aumenterebbe considerevolmente la domanda dei consumatori, gli investimenti delle imprese e le esportazioni. Cioè un mercato finanziario ed economico sia pubblico sia privato, una crescita dell’interscambio europeo con la Germania al centro e il socialismo liberale italiano strettamente al suo fianco.
A questo punto nella nuova legislatura toccherà a Renzi tornare al vertice del governo italiano condividendo da quella posizione sia la battaglia di crescita economica e culturale italiana, sia quella europea. Uno Stato europeo di dimensioni continentali ma aperto, al contrario della demagogia del mercato americano chiuso.
Ricordo, con Renzi, che siamo noi europei ad aver costruito l’America. La nostra è e deve essere una democrazia liberalsocialista ed abbiamo secoli di storia in proposito. Abbiamo creato noi le banche, le lettere di credito, l’impero marittimo di Venezia e di Genova e prima ancora di Amalfi e di Pisa, di Taranto, di Siracusa, di Zara, di Bisanzio. Questo, mi auguro, dovrebbe essere il nostro futuro.
REP.IT