L’alleanza effimera dei populisti

di Sergio Romano

Posso comprendere i sentimenti di gioia e compiacimento con cui i maggiori populismi europei hanno salutato a Coblenza l’arrivo di Donald Trump alla Casa Bianca. Per molti anni, circondati da un ambiente scettico e ostile, hanno criticato le aperture internazionaliste e umanitarie dei loro governi, hanno combattuto i mercati unici e le grandi zone di libero scambio, hanno auspicato il ritorno dei loro Paesi alla sovranità economica e monetaria, hanno denunciato le importazioni cinesi e l’”orda straniera” degli immigrati che stavano entrando nelle loro terre e hanno invitato i loro connazionali a scendere in piazza contro la globalizzazione. Il loro più disprezzato nemico è la “correttezza politica”, vale a dire quella combinazione di norme, precetti e auspici che sono stati considerati, talora con troppo zelo, un indispensabile segno di progresso morale e civile. Ed ecco che, finalmente, dopo essere stati lungamente ignorati e snobbati, questi partiti e movimenti constatano con enorme soddisfazione di avere a Washington una sorta di zio che dice spesso, a voce molto più alta e con maggior autorità politica, le stesse cose. Il suo avvento al potere sembra nobilitarli e il suo slogan, “America first” è la esatta traduzione di quello, “il mio Paese anzitutto” (nella versione tedesca “Deuschland über alles”), che è stato in questi anni il motivo ricorrente del populismo europeo.

Esistono tuttavia problemi, di cui nessuno, in questi ambienti, sembra essere consapevole. In primo luogo, quale forma di collaborazione politica ed economica potrebbe esistere, se i populisti andassero al potere in Europa, fra Paesi che sarebbero tutti, anche se con sfumature diverse, nazionalisti e protezionisti? Sappiamo che la globalizzazione, insieme alle nuove tecnologie, ha colpito mestieri e aziende che non erano in grado di tenere testa alla concorrenza cinese. Ma sappiamo anche che l’ingresso della Cina nel mercato mondiale ha creato una enorme società dei consumi in cui molte aziende europee possono lavorare e prosperare. Il bilancio finale di un mondo protezionista è sempre complessivamente negativo. Grazie alle tariffe doganali, i governi nazionalisti e protezionisti colgono qualche effimero beneficio elettorale, ma si lasciano alle spalle un sistema autarchico e provinciale, una società introversa e mediocre. In secondo luogo, credono davvero i populisti al potere che il presidente Trump li tratterebbe come amici e lontani congiunti? Quando rispondeva ai loro interessi gli Stati Uniti, hanno spesso invocato la libertà dei mercati. Ma nelle loro fasi protezioniste sono spesso stati brutalmente egoisti. E in terzo luogo, infine, i populisti europei dovrebbero ricordare che all’origine del libero commercio vi è anche la convinzione che la guerra dei dazi esaspera le divisioni e possa diventare, prima o dopo, semplicemente guerra. Nel suo ultimo discorso, pronunciato al Parlamento di Strasburgo il 17 gennaio 1995, François Mitterrand disse di essere nato durante la Prima guerra mondiale, di avere fatto la Seconda e di essere giunto alla conclusione, durante la sua vita, che «il nazionalismo è la guerra».

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