La strategia di Trump, applicare il modello Detroit per creare lavoro e affari

paolo mastrolilli
inviato a new york

Il Presidente si è alzato in piedi, per scostare la poltrona dal tavolo e aiutare la signora Mary Barra a sedersi alla sua destra. Quindi ha invitato Sergio Marchionne a prendere il posto alla sua sinistra, e come se fosse stata una riunione di condominio, ha sollecitato gli invitati a presentarsi. Cominciando con se stesso: «Buongiorno, io sono Donald Trump».

Indossava una cravatta azzurra, che nel lessico degli esperti di immagine è meno aggressiva di quella rossa preferita durante i comizi infuocati, e tutta la sua mimica corporea aveva lo scopo di comunicare cortesia. Un uomo d’affari che si rivolge a dei colleghi, perché capisce meglio di chiunque altro le loro esigenze. In sostanza la volontà di siglare la tregua, dopo i toni forti della campagna elettorale e dei tweet, e concordare un nuovo patto per la crescita e l’occupazione negli Stati Uniti. Perché la riunione convocata ieri alla Casa Bianca, per fare colazione con i leader del settore automobilistico, andava in realtà molto più avanti della sua agenda di giornata. È stata l’enunciazione della strategia che il nuovo Presidente intende usare per «rifare grande l’America». Chiedere a tutte le aziende, americane e straniere, di tornare a produrre negli Usa, in cambio della creazione di un clima più favorevole all’impresa.

 

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Durante la campagna elettorale, Trump aveva promesso di imporre dazi del 35% contro le compagnie che vanno a costruire all’estero, per poi riattraversare il confine e vendere le loro merci. Questa minaccia è ancora sul tavolo, e l’ha ripetuta lunedì, ma ieri è andato oltre, indicando la strada per evitare lo scontro. Lui vuole che le aziende americane tornino a produrre negli Stati Uniti, perché pensa che il successo della sua presidenza si giocherà soprattutto sull’economia e l’occupazione. Spera però che tornino di loro volontà, non per decreto, quando scopriranno le condizioni favorevoli create dalla sua amministrazione.

 

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Trump ha cominciato l’offensiva con il settore automobilistico per due ragioni: primo perché è grande, visibile e ha numeri molto significativi per il lavoro; secondo, perché è basato negli stati della «Rust Belt», come Michigan e Ohio, che hanno determinato la sua vittoria, e quindi gli consente di ricompensare subito i propri elettori. Il patto proposto chiede di riportare la produzione negli Usa, in cambio di concessioni fiscali e alleggerimenti delle regole. In particolare le misure ambientaliste, come quella sulle emissioni e i consumi imposta dall’amministrazione Obama, che richiede di arrivare a percorrere 54 miglia con un gallone di carburante entro il 2025. Il Presidente ha detto che è pronto a rivedere questi obblighi, pensando che simili concessioni spingeranno le aziende a investire in America, perché bilanceranno la perdita dei vantaggi che venivano dalla possibilità di produrre in Paesi dove il costo del lavoro è molto più basso.

 

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Un problema serio riguarda gli stabilimenti già funzionanti in Messico, dove non si costruiscono solo macchine da rivendere negli Usa, ma anche motori e parti utilizzate poi per assemblare le auto nelle fabbriche del Michigan. La sensazione è che Trump non abbia dato una valenza retroattiva alla sua richiesta, difficilmente sostenibile se le case automobilistiche dovessero chiudere le strutture già esistenti e trasferirle oltre confine. Piuttosto ha indicato un percorso per il futuro, che ora potrà essere valutato nei dettagli, sapendo cosa chiede e cosa concede in cambio.

 

Il discorso di ieri però, e la gentilezza usata nei confronti degli uomini d’affari a cui si sente più affine, va oltre il settore dell’auto e gli stessi confini nazionali. Il Presidente ha cominciato con Detroit, perché è il simbolo dell’industria manifatturiera made in America, però si rivolgeva a tutti. Lui è convinto di capire il mondo del business meglio di chiunque altro, e quindi di sapere cosa va cambiato per attirare gli investimenti, non forzarli. Quando lo scopriranno, le imprese di ogni campo e di ogni Paese, dal digitale al settore aerospaziale, vorranno produrre negli Usa. I suoi critici pensano che non succederà, perché le forze della globalizzazione sono più potenti anche delle minacce protezionistiche, ma lui ci ha scommesso sopra la presidenza.

LA STAMPA

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