L’asse che annulla l’Europa
L’incontro di venerdì tra il Primo ministro britannico Theresa May e il presidente statunitense Donald Trump ha rappresentato l’occasione per entrambi i leader per sottolineare l’importanza riservata da entrambi alla Special Relationship tra Washington e Londra nel quadro delle rispettive strategie internazionali. Da un lato il Presidente statunitense ha voluto ribadire apertamente la priorità data al Regno Unito rispetto agli altri tradizionali alleati europei, sottolineando nuovamente la sua positiva interpretazione della Brexit che il governo della May è destinata a formalizzare dopo aver superato lo scoglio del dibattito parlamentare. Dall’altro, la May sta preparando il suo paese al passo decisivo tessendo un’ampia rete di relazioni internazionali destinate a prendere il posto dei legami col Vecchio Continente al centro della strategia diplomatica e commerciale britannica: in tal senso, la sua visita a Washington rappresenta un ulteriore tassello posto sul terreno per completare il disegno della Global Britain che la May immagina possa svilupparsi dopo la formalizzazione della Brexit.
Il Primo ministro conservatore, entrato in carica il 13 luglio dopo la vittoria alle primarie tories seguite alle dimissioni di David Cameron, sta interpretando in maniera ampiamente elastica il mandato principale che ha giustificato la formazione del suo governo: nei fatti, la May agisce considerando la Brexit più come l’uscita dell’Europa dal Regno Unito che come l’uscita del Regno Unito dall’Europa e punta ad ottenere tutte le potenziali opportunità che una separazione da Bruxelles comporterebbe sotto il profilo fiscale e commerciale. La Brexit che si prospetta, dunque, non potrà che avere come corollario la costituzione di una salda rete di accordi tra la Gran Bretagna e paesi rilevanti per le strategie internazionali di Londra, tra i quali ovviamente gli Stati Uniti non possono non ricoprire un ruolo di primissimo piano. Oltre a rappresentare una sorta di “prima” della diplomazia made in Trump, infatti, la visita di Theresa May alla Casa Bianca è stata un’importante occasione per parlare di affari concreti destinati a coinvolgere in futuro Regno Unito e Stati Uniti: l’obiettivo perseguito dalla May e da Trump, infatti, è la conclusione di un trattato commerciale bilaterale nel quale l’inquilina di Downing Street non ha escluso l’inclusione della concessione agli istituti britannici della possibilità di erogare servizi sanitari in territorio americano, come riportato da The Independent.
Nei mesi precedenti, Theresa May aveva iniziato ad imbastire la strategia della Global Britain, scoprendo le sue carte in occasione della visita in India dello scorso novembre, durante la quale i colloqui bilaterali con il suo omologo di Nuova Delhi Narendra Modi si erano rivelati proficui, portando all’entrata in vigore di gruppo di lavoro congiunto anglo-indiano per la definizione di piani di cooperazione economica ad ampio raggio e di agevolazioni per i businessmen indiani desiderosi di ottenere i visti per il Regno Unito. Meno rilevante sul piano concreto ma importantissimo sotto il profilo simbolico è invece il negoziato avviato dal Regno Unito con la Nuova Zelanda, annunciato dalla May nel corso della visita del Primo Ministro di Wellington Bill English a Londra dello scorso 13 gennaio: la Nuova Zelanda, congiuntamente all’India, testimonia come la Gran Bretagna che “lascia l’Europa per abbracciare il mondo”, per usare le parole della May, abbia deciso di ripartire proprio dalle solide basi garantite al Regno Unito dall’esistenza di saldi legami con le nazioni un tempo parte dell’Impero e oggi riunite nel Commonwealth. Il responsabile del Segretariato per il Commercio Internazionale del Commonwealth Mohammad Razzaque non ha mancato di sottolineare come la Brexit possa rappresentare l’occasione per approfondire sul piano concreto un legame fortissimo sotto il profilo culturale e storico, vivacizzando l’interrelazione anche attraverso la conclusione di accordi bilaterali tra Londra e le ex colonie.
Un altro Paese che potrebbe rappresentare un partner importante per la Gran Bretagna del dopo-Brexit è senza dubbio la Cina: a ottobre, in un articolo pubblicato su The Diplomat, Kerry Brown ha sottolineato come l’intensificazione dei rapporti tra Londra e Pechino potrebbe essere incentivata in maniera particolarmente proficua se il Regno Unito riuscirà a conservare il ruolo di piazza finanziaria primaria a livello planetario per la City della sua capitale. Operazione che la May si prepara ad imbastire cercando di sfruttare a suo favore l’interpretazione della Brexit come uscita dell’Europa, e di conseguenza delle sue regolamentazioni più pignole e stringenti, dal Regno Unito. Un articolo pubblicato sul sito di analisi finanziaria I Diavoli ha di recente sottolineato come la combinazione di sovranismo sul piano interno e liberismo sul proscenio internazionale abbia portato la May a voler capitalizzare quattro principali risultati dalla Brexit: l’autonomia nella conduzione della politica commerciale britannica, la libertà totale dalle decisioni della Corte di Giustizia Europea, la possibilità di condurre una politica fiscale autonoma e la gestione sovrana delle questioni legate all’immigrazione. Sono proprio tematiche concernenti la fiscalità che hanno spinto la May a lanciare la sua sfida all’Unione Europea attraverso la propugnazione della strategia della hard Brexit: “il fiscal dumping è la principale minaccia rivolta agli euroburocrati”, sottolineano I Diavoli, ed esso potrebbe essere praticabile in maniera autonoma solo se il distacco di Londra dal mercato comune si concretizzasse in maniera inequivocabile, permettendo al Regno Unito di cercare di operare correzioni al suo sistema di tassazione per disincentivare la fuoriuscita dei grandi istituti finanziari dal paese e preservare la centralità della piazza di Londra, essenziale per l’edificazione della Global Britain.
Negli anni a venire, l’Europa si troverà dunque di fronte a una crescente minaccia di marginalizzazione, nella quale potrebbero sommarsi le volontà del governo di Londra di continuare a svolgere un ruolo primario sulla scena internazionale e le politiche dell’amministrazione Trump, che sin dalle prime battute sembra preferire apertamente gli accordi con la Gran Bretagna in rotta di collisione con Bruxelles e con la Russia di Vladimir Putin a qualsiasi intesa programmatica con l’Unione Europea. La combinazione tra la concorrenza della Global Britain e una sintonia geopolitica russo-americana, di fatto esautorerebbe l’Europa da qualsiasi ruolo di rilievo nel contesto internazionale: in un contesto del genere, l’asse di Putin-Trump-May risulterebbe solo “teorico”, esistendo di fatto attraverso l’intermediazione del Presidente statunitense, sino a che il governo di Londra non si dichiarasse disponibile a un significativo riavvicinamento alla Russia. Se a Washington la May si è mostrata una volta di più diffidente nei confronti di Putin, le recenti dichiarazioni del Ministero degli Esteri Boris Johnson sulla Siria hanno segnalato dei primi accenni di apertura, dato che l’ex Sindaco di Londra ha per la prima volta ammesso la possibilità di una permanenza al potere di Bashar al-Assad, aprendo così degli spiragli per un possibile dialogo con la Russia.
Le politiche che stanno contraddistinguendo il mandato della May, chiaramente, rappresentano una brusca deviazione dal percorso che sembrava essere stato tracciato all’indomani del referendum del 23 giugno, nel quale la vittoria del Leave era stata il frutto del sussulto degli abitanti delle zone rurali del Regno Unito, che votando contro l’Unione Europea avevano implicitamente bocciato anche lo sviluppo dei processi di globalizzazione e integrazione economica, ritenuti causa di un’eccessiva polarizzazione tra realtà come Londra e il resto del paese. Nei fatti, la contraddizione della Brexit sta proprio in tale ambivalenza, che la May sta cercando di incasellare in un disegno ad ampio raggio da lei esplicitato apertamente nel discorso del 17 gennaio, riportato da The Independent, il quale merita assolutamente una lettura ed è particolarmente significativo laddove il Primo Ministro afferma: “Voglio che il Regno Unito emerga da questa fase più forte, più eguale, più unito e più rivolto all’esterno che mai […] Voglio una Global Britain, il migliore amico e partner dei nostri vicini europei ma anche una nazione che sappia guardare oltre i confini dell’Europa”. Gli appelli alla stronger economy e alla fairer society si susseguono appaiati, sottolineando la volontà della May di conciliare le pulsioni del “popolo del Leave” con le necessità più impellenti per l’economia e la diplomazia britannica. La May sa che il piano d’azione del governo passa necessariamente per concessioni e compromessi con le istituzioni che hanno favorito l’instaurazione della situazione interna causa del frazionamento nel paese nel voto di giugno, e che la sua celebre dichiarazione Brexit means Brexit sottintende un importante assunzione: Brexit sarebbe rimasto un semplice termine giornalistico se il governo di Londra non fosse intervenuto per conformarlo alla luce di precise volontà politiche. Volontà precise che la May sta dimostrando di possedere: nei fatti, tuttavia, la sua azione a lungo raggio non potrà non essere mediata dall’importante considerazione che è stata sottesa dal voto di giugno, e cioè che la Gran Bretagna del futuro, Global o non Global, dovrà evitare che gli sviluppi della globalizzazione portino con sé disuguaglianze e fratture sociali. Questa, sul lungo periodo, sarà la più grande sfida per l’inquilina di Downing Street.
IL GIORNALE