Mentana: «Renzi è un bullo, a Grillo mancano i fondamentali. E attenti a Berlusconi: rischiamo di ritrovarcelo premier…»

di Candida Morvillo

Il direttore del Tg di La7 fa il bilancio di 25 anni di carriera e del momento politico (salva solo Gentiloni «che ha l’effetto-bar, è riposante e integro»). E ancora, il web, i webeti, lui che si sente direttore d’orchestra, gli sms di Urbano Cairo, il suo ego da piacione («Non ho una fortissima tendenza all’autofustigazione…») e che cosa gli manca quando si guarda allo specchio

Pile di libri e faldoni a terra, sulla scrivania, sulle poltrone. Nel suo ufficio da direttore del Tg di La7, Enrico Mentana ha in corso tardive pulizie di inizio anno. Dà ordine di disturbarlo solo se arriva la sentenza della Consulta sull’Italicum e ha tempo di parlare di televisione, di web e webeti, di «Renzi che è geneticamente bullo», di Gentiloni «che è uno che non ti fotte». Dice: «Questo 2017 sarà da navigare a vista come mai ed è la cosa più bella per me che amo l’informazione fatta sul tamburo, improvvisando in diretta. So che c’è da scompaginare, come un cantante chiamato a fare più concerti straordinari che di cartellone». Nel 2016, di esibizioni extra ne ha fatte parecchie. C’era la Brexit, c’era Donald Trump, c’erano il referendum o le amministrative, lui era lì, con le sue maratone a oltranza e in diretta, pronto a incalzare gli ospiti come a prenderli per i fondelli. «Pier Luigi Bersani, com’è che non è l’ho vista al Quirinale, che ci sono andati cani e porci?». «Chiuderei qui, sulla pregnanza epocale delle parole di Angelino Alfano». «C’è Massimo Giletti, ma non preoccupatevi, non lo sentirete parlare di politica». Ai Cinque Stelle, quando ritirano i loro dai talk, dice che hanno fatto una bambinata. A Matteo Renzi, che dopo il referendum sulle trivelle sostiene che ha perso il partito dei talk show, propina una ramanzina : «La deve smettere di dare la colpa ai talk . Se non ci fosse la televisione a spiegare le ragioni dell’uno e dell’altro, la gente non avrebbe elementi per decidere… Con tutto il rispetto, queste cose se le deve mettere in testa, ha vent’anni meno di me, ha tutto il tempo». Sul web, girano i blob delle sue performance tv, i lettori del Fatto Quotidiano lo hanno appena eletto «uomo dell’anno». Venticinque anni fa, Enrico Mentana, oggi sessantaduenne, fondava il Tg5 e veniva soprannominato Mitraglia per la velocità con cui sparava notizie. Nel 2005, fondava Matrix. Nel 2009, lasciava Mediaset perché ormai, parole sue, «era un comitato elettorale». Da sette anni, dirige il TgLa7 e ha inventato uno stile di conduzione. Negli ultimi tempi, è emerso su Facebook come personaggio di culto. Tipo, uno scrive: «C’è una differenza abissale tra Montanelli e Fallaci e lei». E lui: «Che io le posso darle del fesso e loro purtroppo non più». A un altro: «Parli soltanto delle cose che sa (che a occhio e croce è un invito a tacere)». O anche: «Non è obbligatorio commentare i post, specialmente quando non li si capisce». Anche nella nostra chiacchierata Mentana non difetta di chiarezza, come quando più tardi commenta in diretta la sentenza della Consulta, dà conto che Cinque Stelle, Lega e Pd chiedono il voto subito o presto e poi spiega: «In realtà, molti sperano di arrivare più lontano perché pensano che la squadra del cuore ora non vincerebbe, ma con un anno in più sì. L’importante, ora, è capire che non c’è la volontà di fare la legge migliore, ma che la battaglia è di convenienza». Rewind. Ore 15 del 25 gennaio nel suo ufficio. (Sopra il titolo, nella foto Ansa, Enrico Mentana al TgLa7. Sotto, l’allora premier Matteo Renzi intervistato da Mentana nel 2014 al Festival dell’Economia di Trento, foto Ansa).

Quando Renzi si è dimesso, lei l’ha salutato in un post citando la canzone di Fabio Rovazzi: «È finito l’anno di quello che andava a comandare e faceva i selfie mossi». Perché tanta ferocia?

«Dal punto di vista politico, Renzi è geneticamente un bullo».

Questa fa il paio col «giovane caudillo» usata un tempo da Ferruccio de Bortoli.

«È un bullo, ma non più di altri sulla scena internazionale. Trump è bullo? Putin è bullo? Erdogan è bullo? Oggi, se hai una leadership e devi comandare in uno scenario in cui tutto è cambiato, sei bullo. Ma, soprattutto, sei bullo se hai scalato il partito dei dinosauri dal di fuori, se sei uno che ha voglia di comandare e ha coscienza di sé. Sono due connotati della leadership, ma c’è un però».

Quale?

«La leadership passa anche attraverso la capacità, che Renzi non ha più, di raccontare un progetto e far sognare. E che neanche il partito ha: qui siamo alla migliore gestione possibile dell’ordinario».

Un altro «però»?

«Sei bullo anche se comandi senza che vi sia il riconoscimento generale non solo che hai la voce più bella, ma anche più sentimento e interpretazione del canto. Sono troppo immaginifico?».

Non l’ho detto io. In definitiva, Renzi è finito?

«È in un momento difficile di scelta sul futuro. Tutto quello che ha costruito viene smontato pezzo a pezzo, ora anche il jobs act è a rischio di referendum. Nessuno, oggi, sarebbe sicuro che, con elezioni a breve, vincerebbe. In questo momento, agli occhi dei suoi, Renzi è un candidato vincente?».

Ovviamente, è una domanda retorica.

«Paradossalmente, perdere le primarie del centrosinistra contro Bersani è stata la sua grande vittoria. Lì era chiaro che il futuro era suo. Ora, ha in mano il partito, ma non vedi in lui ricette che guardano avanti».

Già due anni fa, lei aveva scritto su Facebook: Renzi è stato un crac, deve maturare e rivedere il repertorio.

«Ha fatto cose perfette nella prima fase di governo, poi ha continuato a correre e correre, a cercare la scena internazionale, ma ha rallentato la capacità di analisi della realtà e la capacità riformistica. E non ha fatto nulla per i giovani».

Mi dica come è Renzi con lei.

«La questione terribile è questa: quando si vede Renzi la prima volta?».

Sindaco di Firenze? Da Mike Bongiorno?

«Da Mike, esatto. Io già c’ero, il mio Tg5 veniva subito dopo La ruota della fortuna. Io sono un personaggio che c’è nel presepe di chi ha 40 anni e il suo rapporto con me è stato determinato anche da questo».

Sta dicendo che non l’ha mai chiamata arrabbiato?

«Con me non lo fa. Non lo fanno i politici, in generale. Sanno che gli faccio un numero contro. L’ho fatto a Grillo e l’ho fatto anche a Renzi. Quando, sulle trivelle, disse che aveva vinto lui e non il partito dei talk show, appena ho ripreso la linea, gli ho fatto un culo così». (Sotto, Mentana con Bettino Craxi e Gianni Letta in una foto dall’archivio Rcs degli Anni ‘80).

È noto, per chi la segue, che lei non le manda a dire.

«Il deficit di Renzi è che non condivide, non attrae, non fa squadra. Ha un deficit di fiducia nei confronti del prossimo».

Suona come la diagnosi di un trauma infantile.

«Qual è stato il suo cruccio quando ha perso il referendum? Non che doveva dimettersi, ma che non avrebbe mai più potuto comandare da solo. Uso le sue parole: sarebbe stato quello che dava le carte, ma non che decideva».

Quindi, nessuna chance?

«Questo no. Quante volte abbiamo dato per morto Silvio Berlusconi? Eppure, se la Corte di Strasburgo lo riabilita, come è possibile, e si vota nel 2018, potrebbe diventare premier. Disegniamo uno scenario».

Disegniamolo.

«Ci sono tre forze più grandi delle altre, Cinque Stelle, Pd, Centrodestra. I Cinque Stelle non fanno alleanze e, se non c’è una legge maggioritaria, non possono governare da soli. Quindi può governare solo un’alleanza fra Pd e moderati di centrodestra».

Stiamo escludendo la discussa svolta salviniana di Grillo.

«È Grillo che la esclude. Ma c’è una possibilità: Cinque Stelle e appoggio esterno di leghisti e Sel. La prima ipotesi è la stessa d’inizio dell’attuale legislatura: Enrico Letta appoggiato da Pd e Forza Italia».

Il cosiddetto partito della Nazione.

«Se i rapporti fossero questi, Berlusconi potrebbe dire “facciamo la staffetta, mezza legislatura faccio il premier io, mezza la fa uno del Pd”. Dunque, Renzi è morto? Non se, parlando di Berlusconi che ha 80 anni, è ipotizzabile vederlo ancora premier. Anche se non è né probabile né auspicabile un premier ottantenne».

Lei vede un «giovane Prodi», come evocato da Bersani?

«Questi non sono affari miei. Il problema è il Pd che è molto maturo, molto establishment, un partito la cui prospettiva di esistenza è piuttosto sfuocata».

Sta prevedendo l’estinzione del Pd?

«Mi chiedo: nel futuro, il Pd che sarà? Di centro? Di sinistra? Qual è la sua promessa? Vale anche per il centrodestra. I partiti sono strutture novecentesche, barcollano. È il momento degli outsider. Trump rappresenta i repubblicani o è un uomo forte alternativo all’establishment?».

Grillo, il nostro outsider per eccellenza, non le sta simpatico. Ci battibecca spesso. L’ultima volta quando ha messo il logo del TgLa7 nel suo post contro le notizie-bufala.

«Grillo non è simpatico né antipatico. È uno che, dal niente, ha creato il terzo polo e un grande partito dove nessuno se l’aspettava».

Che effetto le fa quando ordina ai suoi di chiedere il permesso per interviste e ospitate?

«È chiaro che Grillo non ha le linee guida fondamentali per condurre un partito. Letteralmente, improvvisa ogni giorno nel tentativo di dare una risposta d’ordine a un problema che emerge quando, non l’ultimo peone, ma parlamentari importanti mettono in discussione la linea del movimento. Però che diamine, lui che è per la libertà del web eccetera vuole solo interviste concordate? Mah…».

Non le sta simpatico.

«Davvero non è questo. Anzi, riconosco che verso i 5 Stelle la maggior parte della stampa ha un atteggiamento di supponenza e di rancore antropologico».

Loro per primi non amano giornali e giornalisti.

«Conosco tutte le figure del movimento e Grillo è l’unico vero giacobino nei rapporti con l’informazione».

Sul nuovo premier Paolo Gentiloni, lei non ha mai scritto un post né a favore né contro.

«Gentiloni è “l’effetto-bar”».

Sarebbe?

«Quando tu corri tanto, corri , corri, fai la maratona e bevi dalla borraccia al volo, poi ti fermi e vai al bar e uno e ti chiede cosa vuoi, dici “che bello”. L’effetto – bar di Gentiloni è questo. Con Renzi si è corso, Gentiloni è uno che non ti pone ogni mezza giornata il dilemma se seguirlo o no. Cos’ha dichiarato Gentiloni oggi? Niente. Che pace. Gentiloni è affidabile, è una guida che c’è. È perbene. Direi piuttosto che non fa ombra quasi a nessuno».

Questo non è molto lusinghiero.

«Questo lo rende benvisto dalla gran parte della scena politica. Poi, di suo, è una persona integra».

Che intende lei per integro?

«Che non fotte nessuno. E che è sempre uguale a se stesso, disponibile e gentile, che sia in auge o no».

Sarà un vice Renzi o ci dobbiamo aspettare dei guizzi?

«Non lo sappiamo perché non dipende da lui, ma dalla partita Renzi – Pd».

Ogni giorno leggiamo un’intervista dei «rottamati», Massimo D’Alema, Bersani… È una schiera che ha ancora da dire e da dare?

«È un mondo che va seguito con rispetto. È gente che ha fatto qualcosa. Poi là fuori non c’è più la sinistra, non c’è più la destra. È come avere la bussola, ma scoprire che il Nord e il Sud non esistono più». (Sotto, nella foto dall’archivio Rcs, Mentana e l’allora premier Romano Prodi a Matrix, nel 2007).

Da quando non sente Berlusconi?

«Dal 2 dicembre, quando l’ho intervistato. È la classica persona, che “Oh, quando vuoi tornare a Mediaset dillo!”. È uno il cui sogno, entrando in un posto, è convincere tutti che lui è bravo, ha ragione, non è come lo dipingono».

Berlusconi non è geneticamente bullo?

«No. Anche Renzi vorrebbe convincere tutti, ma lui ragionandoci, spiegandosi. A tutti e due piace piacere, ma il sottotesto di Berlusconi è “io sono bravo e non odio nessuno”, quello di Renzi è “io sono bravo e gli altri sono dei coglioni”. È il diverso approccio di uno che ha comandato molto e di uno che voleva andare a comandare».

I successori di uno e dell’altro?

«Non lo so. Avevo i pantaloni corti quando si parlava del successore di Berlusconi. Sono convinto che quando lui pensa al suo successore lo vede guardandosi allo specchio. Idem Renzi».

Lei che cosa vede quando si guarda allo specchio?

«Che non sono più quello che m’immagino di essere. Mi guardo e non vedo i riccioli neri».

Essere sempre in video, risultare simpatico, fare le battute… Anche a lei piace piacere?

«Non ho una fortissima tendenza all’autofustigazione. Anzi, sono piuttosto indulgente verso me stesso. E sì, chi ha il gusto delle battute le fa compiacendosene». (Sotto, nella foto Ansa, Mentana e Silvio Berlusconi, a Matrix, nel 2008).

Con le sue maratone sui grandi temi si aspettava, fra tanti tg-corazzata, di essere l’unico a esibirsi?

«Sì, ho sempre teorizzato l’agilità della nave corsara, e su questo La 7 è l’emittente ideale: al di là dei programmi serali, tutto lo spazio è ribaltabile per programmazioni straordinarie. La Rai è forte se c’è il terremoto in Abruzzo perché ha tanti mezzi, ma su velocità, sburocratizzazione ed essenzialità sono imbattibile».

Aldo Grasso ha scritto sul Corriere: «Mentana ormai è più di un conduttore: è un direttore d’orchestra… È un regista provetto (ricorda alla regia che da tempo esiste anche lo zoom, chiama le inquadrature come solo Pippo Baudo), è un battutista formidabile…». Che frase la lusinga di più?

«Quella che mi fa esondare dal mio lavoro, che è poi anche una critica giusta. Ma l’importante è gestire la diretta e, per farlo, ti devi allargare. Il direttore d’orchestra, fatalmente, deve comandare su tutti: il coro, gli orchestrali, lo stesso pubblico. Una cosa così non la improvvisi: è come la commedia dell’arte: deve avere le sue maschere riconoscibili, toni drammatici, colloquiali, mezzi toni. Devi saper essere incalzante, severo, dialogico, avere modalità espressive per la commedia che vira senza preavviso nella tragedia e per la tragedia da cui inatteso nasce un fiore».

In quale maratona si è entusiasmato di più?

«Per la Brexit, perché la sorpresa è maturata nella notte quando molti, ormai, avevano abbandonato il campo. E la sorpresa, che per me non era tale, cambiava la storia».

Lei era l’unico che si aspettava che avrebbe vinto la Brexit?

«Sentivo che ci sono voti non conclamati nei sondaggi. Questo è il motivo per cui Alfano, come Donald Trump, prende di più di quello che gli pronosticano. E spero che Trump non mi quereli per il paragone».

Si aspettava anche che Trump, da presidente, facesse le cose che ha promesso, tipo il muro al confine col Messico?

«Quelli che dicevano che si sarebbe calmato parlano per riflesso condizionato dell’informazione ortodossa, che è internazionale, europeista, per un’America democratica però gendarme del mondo e a difesa dei diritti umani. Diciamo quei giornali equivalenti alle Miss Italia che chiedono la pace nel mondo. Se li leggevi due giorni dopo la Brexit, sembrava che gli inglesi fossero pentiti e volevano rifare tutto, ma non era così. Vale lo stesso per Trump: era l’ultimo dei favoriti e ha vinto con la forza delle sue promesse. Oggi, dovremmo stupirci se non le mantenesse». (Sotto, nella foto di fine anni ‘80, dall’archivio Rcs, un giovane Mentana al Tg5 fra le colleghe Cesara Buonamici e, a destra, Cristina Parodi).

Che cosa pensa, la mattina, quando guarda i dati Auditel degli altri Tg?

«Niente. Li guardo sapendo che il mio Tg è minoritario perché non indulge in ingredienti che fanno cassetta — cronaca, calcio, spettacoli — e perché ha traini e pubblici diversi. Il mio patto col pubblico è dare solo le hard news che è davvero importante conoscere».

Il Tg1 delle 20 fa circa sei milioni e mezzo di telespettatori : più del Tg5 e del suo Tg messi insieme. Come se lo spiega?

«Da decenni tanti guardano quel Tg su quella rete a quell’ora, lo trovo giusto e legittimo».

Tuttavia, anni fa, le hanno offerto il Tg1 e l’ha rifiutato.

«Due volte. Non fa per me. È una cosa che fai dietro la scrivania, io devo fare un Tg con la cucina a vista, dove arriva la notizia, la do, la capisco e la spiego in diretta. Non è pensabile che vai al Tg1 e fai il tuo telegiornale. E lì serve uno più duttile di me, che tenga i rapporti coi politici. Non io, che mi vanto di non votare».

Com’era il piano per l’informazione Rai bocciato al direttore Carlo Verdelli?

«Cerco di ficcare poco il naso negli affari delle altre reti. Noi dell’informazione siamo tutti sul Titanic e nessuno ha la ricetta per cambiare. Tutti i prodotti sono fatti da 50-60enni, me compreso, che siamo tutti predigitali: antiquari quando i giovani vanno all’Ikea».

I talk show sono in declino irreversibile?

«Il problema è che i big o chi vorrebbe essere big dice “a me m’intervisti da solo”. Per cui i personaggi sono una decorosa serie B che si scontra 50 volte la settimana. Il vantaggio è che resta un genere economico: i politici, nei talk, non vengono pagati. Particolare commovente per Cairo, che sui talk ci fa sostanzialmente La7».

Che editore è Urbano Cairo, da sei mesi editore anche del Corriere?

«Lo prendo in giro dicendo che è l’editore ideale e virtuale. Ideale perché faccio tutto quello che voglio. Non interferisce mai in nulla. Nulla, nulla».

Mai una telefonata di rimbrotto né di complimenti?

«Lesina anche su quelli. È famoso perché lesina molto, un po’ anche sui complimenti. Però è virtuale anche nell’altro senso: è una figura lontana. Se hai un progetto, un piano di crescita, devi trovarlo. Ma è umanamente di una simpatia forte. È uno che se gli telefono, dico una parolaccia e metto giù, ride e mi richiama».

L’ha davvero fatto?

«No, ma so che si divertirebbe».

Cairo non le ha chiesto «come ci occupiamo del referendum?», «come tratti Gentiloni?».

«Se non lo scrive, le faccio vedere i nostri sms. Qui siamo agli auguri: “Buon anno un abbraccio”. “Complimenti ti sei fatto rispettare. Unica voce in tutto il panorama italiano”, questo era a gennaio quando ho risposto a Grillo che aveva messo il logo del nostro tg nel post contro le fake news. Poi: “Buon compleanno”; “Grazie Mister”. “Festeggi?”. Io: “Sì certo, ieri ho festeggiato anche con Icardi”. Lui: “Spero domani col Torino”. Era l’ultima volta che ci siamo sentiti: il 15 gennaio. Andando indietro… C’è l’sms sulla notte del 9 novembre, dopo Trump: “Bellissima maratona. Ti ho seguito fino alle 4 e dalle 7 e mezzo”. Cinque dicembre, questa è un’altra maratona: “Complimenti dal tuo editore virtualmente ideale”. “Grazie Urb”, gli ho risposto. Fine, questi sono i nostri rapporti».

Il suo contratto da direttore scade a breve.

«Tra un mese».

Che succede?

«Non lo so, credo niente di che».

(Sotto, nella foto Agf di circa vent’anni fa, Mentana si fa la barba in ufficio).

Che cosa vede nel suo futuro dopo il TgLa7?

«Io ho sempre ho avuto diffidenza dei miei colleghi che, seduti su una poltrona, pensano a quella dopo. Non si vivono quello che fanno, invece il lavoro che fai in quel momento deve essere il tuo amore per sempre. È come la vita, è impensabile che ti metti con una donna e dici: ora ci sto due anni poi sto con un’altra».

Lei quando s’innamora pensa sempre che sia per sempre?

«Certo che sì. E quello che vale nella vita, vale nel lavoro. Sono qui da sette anni ma sembra ieri. Sono uno da tempi lunghi».

Soddisfatto degli ascolti?

«Certo. Quando sono arrivato, questo Tg era l’unico delle reti in chiaro che non faceva più della media di rete, ora siamo al doppio della media»

Arrivando, ammise che aveva uno stipendio molto più basso che a Canale 5, ma con degli scatti se aumentava gli ascolti. Ha raggiunto lo stipendio dei tempi d’oro?

«Ce l’ho fatta. Guadagno tanto. Ma sento la responsabilità verso i giovani. Mi piacerebbe che i professionisti che vanno tardi in pensione fossero tassati un po’ di più e che la cifra servisse a defiscalizzare le assunzioni dei ragazzi».

A che età scatterebbe il taglio?

«Intorno ai 66, l’età media di chi va in pensione. Col 20 per cento di uno che a 70 anni guadagna 300 mila euro, fai lavorare due o tre ragazzi».

A lei mancano quattro anni alla soglia. Fino a quando lavorerà?

«Io sono pacificato».

Non me l’immagino ai giardinetti.

«Se passasse una legge simile, sarei lieto di continuare a lavorare e devolvere la mia quota per far entrare dei ragazzi nell’informazione».

Lei ha quattro figli. Le tre cose più importanti che ha provato a insegnare loro?

«Tenere la schiena diritta, non prendere troppo sul serio la vita, imparare a superare e apprezzare le diversità».

A questo punto della sua vita professionale, come si vedrebbe direttore di un giornale?

«Mi sono stati offerti molti quotidiani e ho sempre rifiutato».

Due volte la Gazzetta, una la Stampa, una l’Unità, poi?

«Io non ne ho detto nessuno. La questione è semplice: io so fare Tv, non so se so fare i giornali. E su Gazzetta ho sempre pensato che quel giornale aveva già avuto un Mentana».

Suo padre Franco, cronista sportivo.

«È una questione di ordine mentale. Non si può scavalcare il campo paterno. Meglio i Tg».

E tuttavia, 12 anni fa, un quotidiano lo stava preparando, proprio con Cairo.

«Vero, ci siamo visti molte volte. Era un popolare a 50 centesimi. Io ero allettato perché ho sempre avuto una linea precisa: non ho mai preso il posto di un altro. Il Tg5 l’ho fondato, Matrix l’ho fondato, solo dopo la vita mi avrebbe portato a La7. Ma la stagione non era favorevole e alla fine dissi no». (Sotto, nella foto di Massimo Chianura dall’archivio Rcs, Mentana a circa 40 anni).

Lei legge i giornali di carta?

«Leggo a mezzanotte sul tablet la Digital Edition dei quotidiani che già ci sono. Alle sei gli altri, sempre online. Credo che la carta finirà con la mia generazione».

I siti dei giornali le piacciono?

«I giornali sono sul web in modo sbagliato. Io faccio dieci ore di diretta televisiva e “Il grande starnuto di Mentana” diventa l’unico titolo. Viviamo il web come lo spazio per gli scemi».

Motivo?

«Uno è che mancano i giovani giornalisti. Sappiamo che il web è il nostro futuro, ma lo guardiamo con schifo. Come l’Einaudi quando Silvio Berlusconi la salvò: gli intellettuali gli erano grati ma lo vedevano come un salumaio arrivato a salvare i grandi classici».

Sul web servono i clic, perché fanno pubblicità.

«Io nel Tg non metto soft news né specchietti per allodole. Credo che puoi trasmigrare i tuoi prodotti ma non perdere la tua preziosità. Non la devi dar via, come si dice per altre cose».

Perché lei sta tanto su Facebook?

«Perché nel nostro futuro c’è l’informazione che scende dalla sua torre eburnea. Oggi dici una cosa e uno ti risponde che hai detto una cazzata, allora devi scendere le scale, premettere che lui è un maleducato, ma spiegare perché hai detto quella cosa. Non lo convincerai, ma chi ti segue non darà ragione allo scemo».

Ha inventato la parola webete.

«Non me ne vanto. A vedere quello che s’è scatenato, sembra che abbia passato la vita con gli accademici della Crusca a pensare una parola. Stavo scrivendo ebete, m’è venuto webete».

È stato il primo a parlare di stupro virtuale e due giorni dopo ne erano pieni i giornali.

«Anche questo primato me lo sarei risparmiato».

Beppe Grillo vuole un tribunale del popolo contro le fake news, l’Antitrust propone un’agenzia pubblica che monitori le notizie false sul web, lei ha proposto di vietare l’anonimato. Ha avuto feedback? Un politico che firmi una proposta di legge?

«I politici hanno altro a cui pensare, cioè ai fatti loro. Abbiamo fatto le battaglie contro la P2 e la massoneria e sul web accettiamo che incappucciati possano fare razzie, spedizioni punitive, fomentare ondate di odiatori?».

Quindi ognuno deve usare nome e cognome?

«Puoi tenere l’anonimato, ma devi essere registrato coi tuoi dati, deve esserci la certezza che chiunque in un minuto possa essere identificato».

Detto così sembra facile.

«In Italia, le leggi sono fatte e fatte rispettare da sessantenni e settantenni morituri digitali, che moriranno senza aver capito il web. A me, fa paura che sia un magistrato di 73 anni a discutere di un caso di hate speech».

Le fake news hanno davvero influenzato gli esiti di Brexit, elezioni americane eccetera?

«Hanno assecondato tendenze che ci sono. Non è che in Italia c’è fastidio verso gli immigrati perché ci sono le bufale, ci sono le bufale perché c’è fastidio».

Un’authority non serve?

«Serve una polizia del web che reprima le illegalità conclamate. Mi preoccupano certi avvelenatori di pozzi che dopo il terremoto scrivono che la magnitudo è stata abbassata così il governo stanzia meno fondi. Io non voglio il carcere né censure, ma se tutti sannodi essere rintracciabili, forse avremmo meno avvelenatori di pozzi».

Le piace o le dà fastidio quando la chiamano «Mitraglia»?

«Non mi dà fastidio, ma non mi ci riconosco più. Ora ho più miscele di ossigeno nei polmoni. Ho i tempi della riflessione, della battuta. Ora ci vorrebbe un altro soprannome. Magari mi verrà». (Sotto, nella foto dall’archivio Rcs, Mentana che è tifoso dell’Inter, a un Derby del Cuore Milan-Inter nel 2002).

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