Ma l’allarmismo ormai non attacca più

di Giancarlo Mazzuca

«La vita oltre l’euro». Quando, tre anni fa, scrissi un libro con questo titolo assieme all’imprenditore Ernesto Preatoni, nonostante il mio pessimismo, non pensavo che i nodi sarebbero venuti al pettine in così poco tempo.

Quelle che allora sembravano le farneticazioni di due euroscettici ante-litteram si stanno, purtroppo, avverando tanto che il pollice in giù sulla moneta unica è stato ora emesso come anticipato l’altro giorno dal Giornale persino dal salotto buono della finanza italiana, Mediobanca. Un suo dossier riservato parla chiaro: il nostro debito pubblico, agganciati all’euro, rischia di andare definitivamente in tilt per via dei prossimi aumenti dei tassi d’interesse a livello internazionale mentre la crescita zero è sempre più sotto zero.

Se nel 2013, parola di Piazzetta Cuccia, Italexit, con la conversione del nostro disavanzo in lire, ci avrebbe fatto risparmiare 285 miliardi, oggi il margine positivo dell’operazione si ridurrebbe a 8, ma sarebbe ugualmente un’operazione in attivo. Abbiamo perso troppo tempo, obnubilati dalla parola «Europa» che ci ha riempito la bocca e ottuso il cervello. Adesso se ne stanno accorgendo tutti, ma quando, in quel libro, parlammo di «euromorbo», venimmo accusati di essere disfattisti tout court.

Eppure anche allora le cifre parlavano chiaro e il naufragio del Titanic-Italia contro l’iceberg del debito appariva già evidente. Proprio nella prefazione a quel volumetto, l’economista Paolo Savona aveva cercato di spiegare il fatto quasi masochistico di aver accettato di denominare il debito pubblico in una moneta fuori dal nostro diretto controllo, in pratica una divisa «straniera», per giunta in mano a quei governanti europei che avevano e hanno una concezione della politica economica non certo condivisa dagli italiani

E’ vero, una nostra uscita dall’euro, adesso più di qualche anno fa, non sarebbe certo indolore, a cominciare dalla stessa inflazione che schizzerebbe ancora più in alto, ma, a questo punto, si tratterebbe del minore dei mali. Basta ricordare cosa succedeva negli anni Settanta, con l’aumento dei prezzi a due cifre e con le svalutazioni competitive della liretta che, in qualche modo, davano fiato al made in Italy. Il mercato del lavoro di quegli anni era incredibile, con tante possibilità per i giovani d’allora: avevamo davanti un futuro che, purtroppo, non c’è più anche perché la tecnologia ha cancellato e cancellerà tante professioni. Non solo: con gli ultimi governi, da Mario Monti in poi, siamo andati avanti per forza d’inerzia. Abbiamo perso tutto e, quel che è peggio, non abbiamo tracciato nessuna strada alternativa da imboccare.

E’ chiaro, a questo punto, che non c’è più tempo da perdere: abbiamo dato troppa retta ai «guru» di Bruxelles e di casa nostra, i «Bocconi boys», che hanno continuato a terrorizzarci su una possibile uscita dall’euro, agitando lo spauracchio del crac ineluttabile dietro al ritorno alla lira. Allarmismo, il loro, inutile e controproducente.

Un po’ come è successo, nel 2016, con Brexit: quando gli inglesi sono usciti dall’Europa – ma non dall’euro perché loro, veri marpioni, non sono mai entrati nel club monetario e si sono tenuti ben stretti la loro sterlina -, vennero previste le peggiori nefandezze per gli scenari economici d’oltremanica. Proprio l’altro giorno abbiamo, invece, scoperto che, nell’ultimo trimestre dell’anno scorso, quando la frittata del referendum era già stata fatta, il Pil britannico è salito dello 0,6 per cento, con una crescita annua (2,2) maggiore di quella inizialmente stimata. E, allora, di cosa stiamo parlando?

IL GIORNALE

 

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