Avanti, verso il passato

di ILVO DIAMANTI

IN MENO di due mesi è cambiato molto, se non tutto, nel sistema politico italiano.
Quantomeno, sono cambiati il percorso e le destinazioni che lo orientavano. Fino a pochi mesi fa si marciava verso un bicameralismo, finalmente, imperfetto. Con un Senato ridimensionato. Con poteri limitati. A sostegno di una democrazia maggioritaria e “personalizzata”, per effetto dell’Italicum, una legge elettorale a doppio turno. Che, nella versione originaria, prevedeva un ballottaggio fra i primi due partiti, nel caso, probabile, che nessuno superasse la soglia del 40% al primo turno. Si trattava della soluzione finale del percorso “renziano”. Passato attraverso la “personalizzazione” del Pd e del governo. Ma negli ultimi due mesi questo “viaggio” si è interrotto. Complicato da due incidenti. Anzitutto: la bocciatura del referendum, che ha mantenuto il Senato. E, dunque, il bicameralismo. Così com’è adesso. Poi, è giunta la sentenza della Corte Costituzionale, che ha emendato l’Italicum, dichiarando illegittimo il ballottaggio. Così, se oggi si votasse, come auspicano alcuni leader e alcuni partiti, ci troveremmo (troveremo?) in una prospettiva, a dir poco, confusa. Senza maggioranze né leadership precise. Perché questi passaggi a vuoto hanno complicato – se non compromesso – il progetto renziano della personalizzazione dei partiti e del governo. D’altronde, Matteo Renzi, per primo, è stato “sconfitto”, insieme al referendum. Un referendum, peraltro, senza “vincitori”. Perché mentre i Sì sono, in larga misura, riconducibili al Premier (precedente), i No avevano – e hanno – molti volti. Molti riferimenti politici. Largamente incompatibili. In altri termini, il referendum ha espresso una larga maggioranza anti-renziana. Ma la minoranza renziana appare, senza dubbio, la più coerente e identificata. E, in una competizione proporzionale, in un Parlamento con due Camere senza maggioranze chiare e omogenee, la minoranza renziana rischia di risultare maggioritaria. Comunque, il soggetto maggiormente dotato di capacità coalizionale, in un contesto politico e istituzionale che imporrà mediazioni e alleanze, dato che non si vede un partito in grado, da solo, di superare il 40% dei voti al primo turno.

Un ulteriore mutamento degli ultimi mesi è determinato dall’appannarsi della prospettiva “personale”. Perché i sistemi elettorali di Camera e Senato, oggi, favoriscono, semmai, il ritorno dei “partiti”, come ha suggerito, con qualche ironia, Giuliano Ferrara, intervistato dall’Unità. D’altra parte, gli “uomini forti” oggi vengono evocati e invocati dagli italiani perché non ci sono. E perché i partiti, gli attori e i canali della rappresentanza, sono sempre più deboli. Lontani dalla società e dal territorio. Il Pd, in particolare. Erede e confluenza dei due partiti di massa. Appare sempre più diviso, all’interno. Il malessere delle componenti di sinistra è palese. Espresso, come altre volte, da Massimo D’Alema. D’altra parte, il “radicamento” del Pd nella società e nel territorio declina. I suoi iscritti sono in calo sensibile. Da anni. Anche (forse, tanto più) vicino alle “radici”. Nelle zone di forza tradizionali. In Emilia Romagna, negli ultimi tre anni gli iscritti si sono dimezzati. Erano 76 mila del 2013. Nel dicembre 2016 si sono ridotti a 37mila. D’altronde, non è solo un problema italiano. La Sinistra “riformista” è in grande difficoltà in tutta Europa, come ha rammentato Marc Lazar, in un’intervista su Le Monde. In Francia, anzitutto, dove, in vista delle presidenziali, il Ps non è mai apparso tanto debole, nelle stime elettorali. Stretto fra la Sinistra di Mélenchon e il Centro di Macron. Ma anche altrove. In Germania, in Spagna. E, ovviamente, in Gran Bretagna. Quanto agli altri soggetti politici in campo, il M5s è, per (auto)definizione, un non-partito. Meglio, un “partito-non-partito”. Forza Italia, idealtipo del “partito personale”, si è afflosciata, dopo il declino del suo “capo”. E la Lega, il soggetto politico più simile ai tradizionali partiti di massa, è cambiata profondamente. Si è, a sua volta, personalizzata e, con fatica, insegue la prospettiva di una Destra lepenista-nazionale.
Non è un caso che a guidare il governo, oggi, sia Paolo Gentiloni. Un politico impopulista, abile a mediare e a negoziare. Lontano dall’icona del Capo, oggi di moda.
Così, in vista di possibili, prossimi, appuntamenti elettorali, dobbiamo fare i conti con partiti ipotetici e non-partiti. Dis-organizzati e poco radicati. Anzi, s-radicati nella società e sul territorio. E mentre si cerca – e insegue – un Uomo Forte, incontriamo leader deboli, oppure indeboliti. I modelli, positivi e negativi, di conseguenza, vengono cercati altrove. Soprattutto, negli Usa. Da noi, però, non c’è un Trump – per fortuna, aggiungo. Ma solo pallide imitazioni. Più che popolari: populiste.
Così, due mesi dopo il referendum, tutto sembra cambiato. E oggi marciamo sicuri. Verso il passato.
REP.IT
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