Draghi, primi dubbi sull’euro. E Trump: serve solo ai tedeschi
Andare verso un’integrazione finanziaria dei mercati in Europa è un obiettivo fondamentale dell’Eurosistema».
Non sempre Mario Draghi definisce la scala delle priorità attraverso slogan che vanno dritti al bersaglio come il celeberrimo «whatever we takes» a difesa dell’euro. A volte, come ieri, è più indiretto e sfumato. Ma il messaggio è ugualmente forte e chiaro: ci vuole più Europa, senza troppo badare al tornaconto dei singoli Paesi. Divisi, siamo deboli. Ricorda infatti il presidente della Bce: «Come abbiamo visto durante la crisi finanziaria un’integrazione finanziaria incompleta crea vulnerabilità ed è a rischio frammentazione».
Non sono solo i nazionalismi che alimentano le pulsioni verso la disgregazione dell’Unione monetaria a sollecitare una maggiore coesione, costi anche la perdita della sovranità nazionale. Ma anche l’avvento di Donald Trump, con quel suo passare come un rullo compressore sopra i principali equilibri internazionali, diplomatici e commerciali, con quella dialettica brutale e senza perifrasi clonata ieri dal suo consigliere al Commercio, Peter Navarro, in un attacco senza precedenti alla Germania, colpevole di usare un euro «ampiamente svalutato», «un marco travestito per sfruttare gli Stati Uniti e i suoi partner europei».
Nessuno aveva mai usato parole così dure e dirette (subito registrate dai mercati valutari, con l’euro balzato ampiamente sopra gli 1,07 dollari), seppur in parte giustificate dall’abnorme surplus tedesco. Dei 297 miliardi di avanzo del 2016, pari all’8,6% del Pil e quindi in aperta violazione al 6% previsto dalle regole Ue, ben il 44% deriva dai commerci con gli Usa. Uno squilibrio evidente che Washington sembra non voler più sopportare. E certo non sarà la timida difesa di Angela Merkel, che tira in ballo l’alibi ora comodo dell’indipendenza della Bce («Le aspettative sui tassi e il conseguente impatto sul cambio sono qualcosa che il governo tedesco non può influenzare»), a cambiare le cose.
Perché il punto nodale è questo: mentre la Casa Bianca ridisegna la mappa delle relazioni, l’Europa rischia di apparire per quello che è, ovvero un soggetto sfilacciato e reso vulnerabile dai propri egoismi e dalla sostanziale incapacità di agire come un unico corpo. Un lusso che non possiamo permetterci. C’è un’altra frase nel discorso di ieri di Draghi che è significativa sotto questo punto di vista: «Con l’unione bancaria stiamo gettando le basi per una futura integrazione finanziaria, ma per raggiungerla appieno bisogna allargare il quadro anche a una integrazione del mercato dei capitali». Come dire: siamo ancora un cantiere aperto e dobbiamo accelerare il passo. Draghi non ha torto. L’unione bancaria, per esempio, è ben lungi dall’essere stata completata. E, guarda caso, a causa del nein di Berlino allo scudo comune che dovrebbe proteggere i correntisti europei con depositi fino a 100mila euro, nonostante il passaggio all’assicurazione unica non fosse previsto prima del 2024. È la stessa Germania che si è sempre opposta a una mutualizzazione del debito, bocciando quell’idea degli Eurobond che forse avrebbe impedito la crisi del debito sovrano. Quanto al progetto di unione del mercato dei capitali, il piano della Commissione Ue è lì a prender polvere dal settembre 2015.
Finora, l’Eurotower ha messo più di una pezza ai ritardi comunitari e alle inadempienze dei governi sulle riforme. Ma adesso Draghi ci sta dicendo che la Bce potrebbe non bastare più.
IL GIORNALE