Il Colle vuole un percorso ordinato, ma sulla data lascia fare ai partiti
Non è più ormai un problema di «quando», ma di «come». Nella prospettiva «super partes» del Quirinale, conta fino a un certo punto votare a giugno piuttosto che a ottobre o nel febbraio 2018. Di sicuro, per Sergio Mattarella la data delle elezioni non costituisce un dogma di fede, ognuno può avere le proprie legittime opinioni su cosa sarebbe meglio. Importante semmai, nell’ottica presidenziale, è presentarsi alle urne in maniera ordinata, seguendo un itinerario logico, con un sistema di voto razionale e senza sottovalutare i guai con cui l’Italia dovrà fare i conti.
Chi frequenta il Colle si sbilancia meno di sempre, ed è tutto dire. Ma da quel poco si capisce che, lassù, nessuno coltiva l’illusione di spremere chissà quali altri frutti da una stagione virtualmente conclusa il 4 dicembre scorso, con la sconfitta del «sì». Il referendum ha voltato pagina. E non si tratta di un giudizio politico ma storico-istituzionale, scolpito sul marmo. Perché basta un briciolo di memoria a ricordare che nel 2013 nessuno vinse le elezioni, non il Pd e nemmeno la destra o i Cinquestelle.
Bersani aveva inseguito per due lunghi mesi Grillo, senza mai riuscire a ingabbiarlo. Per cui l’unico modo di uscire dal vicolo cieco fu allora quello indicato da Giorgio Napolitano (ecco perché Mattarella trova inaccettabili gli insulti di cui il suo predecessore viene fatto bersaglio): imprimere alla legislatura un carattere costituente. Nella prospettiva di dare una nuova Carta alla Repubblica o perlomeno provarci. Fallito rovinosamente quel traguardo, altre acrobazie non avrebbero senso. Che l’Italia si riprenda il futuro appartiene alla democrazia. E comunque, se non sarà adesso, dovremo votare per forza tra un anno: così ragiona chi sta di casa nell’antico palazzo dei Papi.
Non farsi male da soli
Il vero auspicio, da quelle parti, è che nel tornare al voto l’Italia non si faccia del male. La corsa alle urne non dovrà impedire, ad esempio, che i terremotati ricevano finalmente un tetto. O permettere che da aprile, quando il Mediterraneo tornerà una tavola, l’emergenza sbarchi ci colga nuovamente di sorpresa. Idem per quanto riguarda l’impennata dello «spread» e i contraccolpi che non solo Mattarella teme, ma pure la Banca d’Italia e Mario Draghi alla Bce. Due istituzioni che in questi giorni si consultano spesso con il Colle. Basta poco a mettere in fuga gli investitori internazionali e a far crollare due pilastri del sistema creditizio, Mps e Unicredit, impegnati in maxi-aumenti di capitale. Sarebbe importante che a ispirare la condotta dei partiti fosse la ricerca ragionevole di alleanze per il «dopo», in modo da spegnere per quanto possibile la nevrosi dei mercati.
Nei panni dell’arbitro
Ma questo percorso «virtuoso» verso le urne attiene alle scelte dei partiti e dei rispettivi leader. Prenderli per le orecchie, trattarli come bambini irresponsabili, secondo Mattarella sarebbe inutile. Anzi, visti i caratteri di certi protagonisti, peggiorerebbe le cose. Piaccia o meno, questo senso del limite appartiene allo stile presidenziale. Ogni Capo dello Stato ha la propria «cifra», il suo modo di vestire i panni dell’arbitro. Il Presidente ha scelto fin dall’inizio, spiega chi lo conosce, di mantenersi dentro i confini che la Costituzione gli assegna. Ritiene di non avere la bacchetta magica (nessuno la possiede) e nella sua sensibilità il rispetto rigoroso delle regole viene prima di tutto. È convinto che il Paese questo gli chieda. Forzature, in un senso o nell’altro, sono dunque escluse. Gli unici paletti restano quelli più volte indicati nei discorsi pubblici. Serve un sistema elettorale omogeneo tra Senato e Camera, da varare con un largo consenso. Se questo accadrà tanto meglio. Ma è presto per azzardare pronostici sui contatti appena avviati tra forze importanti come Pd, M5S e Lega. Siamo ancora nel regno della tattica, e le decisioni definitive non sono state prese. Nemmeno da Renzi.
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