Il rischio di un altro big bang come avvenne nel 1992
L’indimenticabile 1992, l’anno che sconvolse l’Italia, ne rase al suolo i partiti e ne mise al bando i leader, cominciò in realtà fuori dai nostri confini, in una tranquilla cittadina olandese. Il 7 di febbraio i Dodici Stati che allora facevano parte della Cee firmarono il Trattato che faceva nascere l’Unione Europea e la moneta unica. Il giorno dopo il Corriere della Sera titolò la sua prima pagina così: «Questa Europa non ci piace». A dirlo non era un Salvini del tempo, ma la Bundesbank, i cui vertici avevano convocato una conferenza stampa straordinaria nell’estremo tentativo di fermare ciò che giudicavano essere un grande «errore» per la Germania e i suoi interessi. Venticinque anni fa era invece l’Italia (Bossi compreso) che anelava a raggiungere l’Europa, convinta che il nuovo ordine internazionale, successivo alla caduta del Muro di Berlino, potesse salvarci dai nostri difetti di sempre, darci una moneta più forte e stabile della liretta, proiettarci nella serie A dei Paesi prosperi. Fu certamente anche a causa di questo stato d’animo nazionale, a quest’ansia di un nuovo inizio, che i pm di Milano poterono avviare e condurre nel consenso popolare l’inchiesta Mani Pulite, vero e proprio regime-change per mano giudiziaria.
Venticinque anni dopo l’Italia rischia di nuovo un Big Bang politico, forse più fragoroso e pericoloso, e di nuovo nel pieno di una svolta epocale degli assetti mondiali. Ma un quarto di secolo fa (come ha notato su questo giornale Angelo Panebianco) il mondo sembrava aver trovato nella vittoria sul comunismo un nuovo ordine e un solo padrone, l’ordine liberale e la pax americana, che spingevano anche l’Italia a mettere ordine in casa sua, a modernizzare la politica in direzione di un bipolarismo di stampo occidentale, verso governi di legislatura e premier eletti, a replicare l’alternanza tra le famiglie europee del popolarismo e del socialismo, anche grazie a una legge elettorale che porta il nome dell’attuale Capo dello Stato. Mentre ora il grande disordine mondiale succeduto alla crisi ci indirizza in direzione diametralmente opposta, quasi ci invita ad importare il caos e la frammentazione anche da noi, e a modellarci quindi sui nostri peggiori difetti.
Il messaggio fondamentale dell’epoca, che risuona da Trump a Putin, è infatti il ripudio del sistema di regole internazionali in cui le divergenze tra Stati sono mediate e risolte (dal Wto alla Nato, fino all’Unione Europea, che la nuova amministrazione americana sta deliberatamente cercando di spaccare, proprio come chiedono Le Pen e Farage); e, al suo posto, la sostituzione del vecchio ordine con un mondo nel quale contano solo gli interessi nazionali, e naturalmente vincono quelli dei più forti. Il Financial Times ha definito questo assetto come un ritorno al balance of power, a un equilibrio basato sulla potenza. Che cosa ci possa mai guadagnare in un mondo tale la nostra piccola Italia, sia dal punto di vista dei commerci che del peso politico, a gareggiare da sola in competizione con i giganti del pianeta senza più nessuna speranza di proteggere i suoi interessi sotto il manto di una dimensione continentale, è un mistero che i fautori dell’addio all’Europa un giorno magari ci spiegheranno. Ma è fuor di dubbio che il nostro sistema politico, solitamente meschino e di corta veduta, sembra ansioso di replicare in Parlamento questa idea del conflitto di tutti contro tutti, in cui ognuno sta per sé, preparando l’esplosione di ogni residuo centro di mediazione in una frammentazione di stampo weimeriano.
La spensierata leggerezza con cui si annunciano elezioni subito anche senza legge elettorale, scissioni e nuove formazioni, categorici rifiuti di qualsiasi lista comune, dovrebbe davvero far tremare le vene nei polsi di chiunque abbia un qualche interesse alla salvezza nazionale. Ci si avvia, danzando come sul ponte del Titanic, verso un Parlamento privo di ogni centro di gravità, di un partito su cui fondare la responsabilità del governo, nel quale ogni coalizione, anche la più ipotetica e fantasiosa, potrebbe non avere la maggioranza; con un centrosinistra insidiato da un nuovo Pci e da un nuovo Ulivo, due destre nazionaliste unite nelle piazze ma divise nelle urne, un centrodestra moderato, un centro ovviamente anch’esso moderato, e una destra-sinistra (perché questo sono i Cinque Stelle) che prende da tutti ma non si allea con nessuno. Unica stella polare: l’interesse dei titolari dei singoli simboli.
Dare la colpa di tutto ciò al voto popolare nel referendum, o alla sentenza della Consulta, è come prendersela con il «destino cinico e baro» di saragattiana memoria. Il fatto è che gli errori compiuti in questi anni si pagano, e forse una buona ripartenza (a cominciare da Renzi) sarebbe non perseverare. Chi può deve battersi per impedire la nascita di un Parlamento siffatto, che potrebbe dover affrontare temi come la permanenza dell’Italia nell’euro, non più così scontata in giro per l’Europa vista la nuova impennata degli spread, nel pieno di un vero e proprio squagliamento della Unione Europea deliberata a Maastricht venticinque anni fa. Quello che Guido Carli definì il «vincolo esterno», e cioè la necessità per il nostro Paese di scegliere comportamenti virtuosi sotto la sferza di una pressione internazionale, sarà stato anche fastidioso e in certi momenti costoso; ma di un sistema politico che se ne senta finalmente sganciato, libero di seguire i suoi spiriti animali, l’interesse nazionale ha solo da temere.
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