Renzi: «Il referendum? Un rigore e l’ho tirato malissimo Posso anche non fare il premier»

di Massimo Franco

Fa un po’ impressione sentirgli dire: «Non posso più permettermi di essere assertivo». Oppure: «So che non posso più dettare la linea da solo». Matteo Renzi certamente non si arrende. Ma, seppure con una punta di rabbia, sembra disposto a trattare. «Non mi va di essere raffigurato come una persona ròsa dalla voglia di andare alle elezioni anticipate per prendersi la rivincita», protesta. «So che le elezioni non possono essere il secondo tempo dopo il referendum. Quando si perde a calcio, non ci si riprova con la pallanuoto. Io ho avuto la possibilità di tirare un calcio di rigore il 4 dicembre. Me l’hanno parato… Anzi, 41 a 59 significa che l’ho tirato male, malissimo. E adesso è cominciata una fase politica diversa».

La corsa

Il segretario del Pd è un fiume in piena. Ma un fiume che sa di non potere più trascinare gli altri verso i traguardi che ha stabilito. La sua corsa verso le urne si rivela, di colpo, piena di buche e di trappole. Da ieri, forse per la prima volta da molto tempo, Renzi comincia a capire di essere costretto a andare controcorrente. E allora cerca di spiegarsi, di convincere tutti che le urne a giugno sono il male minore. Ha seminato avversari in un percorso che fino a due mesi e mezzo fa somigliava a una marcia trionfale. E adesso prova a fare i conti con gli errori. Si sforza di capire perché le sue mosse, che tende ad accreditare come disinteressate, vengono subito percepite come furbe manovre per arrivare comunque al risultato.

La ragione

Per questo accenna a rallentare. È un cambio di passo forzato, sofferto, che lascia intuire la sua convinzione di avere ancora ragione; di essere soprattutto diventato «un parafulmine», termine usato più di una volta. Ma quando ministri, sindaci, e perfino l’ex capo dello Stato Giorgio Napolitano, suo grande alleato, gli intimano l’altolà, un Renzi abituato solo a andare avanti, è costretto a fare i conti con una realtà diventata dispettosa, nella sua ostilità. «Il punto è se votare a giugno, o a febbraio del 2018», spiega. «Se si celebra il congresso si va all’anno prossimo, altrimenti si fanno le primarie. Non ho problemi a fare il congresso. Volevo farlo a dicembre ma me l’hanno impedito. E adesso lo invocano… Ma lasciamo stare!».

Lo sfogo

Il suo sfogo è un tentativo accorato di spezzare l’accerchiamento che comincia a temere. «Continuo a fare il parafulmine per tutti», si lamenta. E si rende conto che deve anche ridisegnare il proprio ruolo. Almeno mentalmente, sembra perfino pronto a cedere il passo a un altro candidato del Pd a Palazzo Chigi, dopo le prossime elezioni. «La prossima volta potrei non essere io. Magari potrebbe toccare ancora a Paolo Gentiloni, o a Graziano Delrio», sostiene. «Lo scenario della prossima legislatura imporrà probabilmente governi di coalizione. Attenzione, però. Trattare con l’Europa e ottenere risultati sarà più difficile, nel nuovo scenario internazionale».

Il voto

Ma nella sua accorata perorazione del voto a giugno Renzi inserisce anche altre incognite. Teme che le Amministrative di primavera segneranno un rafforzamento dei movimenti populisti. «In più», azzarda, «si vuole una commissione di inchiesta sul sistema bancario che usa come parafulmini Banca Etruria, Banca Marche e le Casse di Risparmio di Ferrara e di Chieti. Ma in realtà vedo un disegno forte per allargare il campo a Bankitalia e Consob. E poi c’è la legge di bilancio». Per questo, non è ancora chiaro se spingerà fino all’ultimo per le elezioni tra pochi mesi o il prossimo anno. Si indovina solo che la voglia di accelerare è ancora prepotente, nella convinzione che tra un anno il Movimento 5 Stelle potrebbe essere più forte di adesso.

Il governo

La tesi è legittima, sebbene molti pensino il contrario: nel senso che far cadere il governo Gentiloni in tempi ravvicinati sarebbe un disastro peggiore. Di certo, Renzi sa di non essere più il dominus del sistema. «Il clima politico è cambiato, nel Paese. Sono il primo a esserne consapevole», ammette. «So bene che se anche ottenessi un grande risultato, un 37 per cento dei voti, o addirittura un 42 per cento, non esisterebbero più le condizioni per avere un governo libero di fare le cose che ho in mente».

I pro e i contro

E dunque? «Dunque, è bene ragionare sui pro e i contro delle elezioni anticipate. Si vuole andare avanti? Siamo pronti, se si ritiene che serva. Con Gentiloni il rapporto è tale che ci diciamo tutto. E capisco che l’obiezione di presentarsi al G7 di fine maggio con un governo dimissionario non offrirebbe una bella immagine dell’Italia. Ma in Europa andrà comunque un governo dimissionario dopo qualche mese, con la manovra finanziaria alle porte. Quindi…». Quindi, le urne a giugno non scompaiono: rimangono sullo sfondo. Ma Renzi comincia a capire che per arrivarci dovrà pagare un prezzo alto. Forse così alto da non poterselo permettere.

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