La nostra è una crisi di fiducia Essere italiani non è una sfortuna
Caro Aldo,
ho letto con sgomento che negli ultimi 20 anni il Pil italiano è cresciuto solo del-
l’1,9%, mentre quello dell’Irlanda è aumentato del 90%, quello della Germania del 28 e della Francia del 21. Persino la Grecia ha fatto meglio con un aumento del 13,5. A questi dati negativi si aggiungono il crollo dei prezzi degli immobili e l’aumento delle tasse che hanno causato l’impoverimento degli italiani e la distruzione del ceto medio. Se i dati sono veri, e non esiste motivo di dubitarne, la ripresa rimarrà solo un pio desiderio. Gli italiani inoltre preferiscono investire all’estero. Può dirmi come si potrà riprendere la nostra Italia? Virgilio Avato
Caro Virgilio,
L’ Italia non cresce per motivi comuni agli altri Paesi europei: il declino della manifattura in Occidente; la distruzione dei posti di lavoro del ceto medio — in banca, nelle assicurazioni, nelle agenzie di viaggi e immobiliari, per tacere della filiera del commercio — provocata dalla rivoluzione digitale.
Ma l’Italia va peggio degli altri Paesi per altri motivi: innanzitutto la scarsa competitività e il calo degli investimenti pubblici e privati. Investiamo troppo poco, nelle infrastrutture come nella cultura. I consumi restano bassi, ma i risparmi non vanno a finanziare la produzione, anzi paradossalmente con la crisi sono aumentati: solo nell’ultimo anno, più 83 miliardi; in totale sono 1.367 i miliardi fermi in banca. Ma perché questo accade?
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A ben vedere, la causa prima della crisi italiana è la mancanza di fiducia. Il Paese, con le molte eccezioni che confermano la regola, non crede più in se stesso e nel futuro. Siamo arrivati a pensare che essere italiani sia una sfortuna; mentre nel mondo globale essere italiani è una grande occasione, purtroppo non colta, o colta da altri in nostro nome. Non a caso gli stranieri, a cominciare dai francesi, fanno incetta dei nostri marchi; oppure vendono prodotti che suonano italiani ma non lo sono. Anche il grande problema della selezione della classe dirigente fa parte della crisi di fiducia: per timore del nuovo, del rischio, della competizione, ci si affida volentieri alla mediocrità.
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