Si svuotano le celle che hanno ospitato finti pazzi e veri boss

Carcere. L’ex Opg di Barcellona Pozzo di Gotto, a quaranta chilometri da Messina, ospita ora 230 detenuti
laura anello
barcellona pozzo di gotto (me)

Da queste celle con le porte blu sono passati pazzi e finti pazzi, nella Sicilia pirandelliana dove il confine è sottile. Finti pazzi come i superboss Tommaso Buscetta, Tano Badalamenti, Stefano Bontade, arrivati grazie a giudici compiacenti per ottenere sconti di pena. Ma pure il primo pentito di mafia, Leonardo Vitale, che non fu creduto e finì ricoverato. E pazzi veri. Assassini e ladri di galline, criminali e povere anime perse. Adesso, nell’ex Ospedale psichiatrico giudiziario più grande d’Italia con oltre 600 internati negli anni di pienone, ne sono rimasti 13 Gli ultimi tredici rimasti dalla grande dismissione iniziata qui due anni fa, con il trasferimento progressivo verso le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza sanitaria) o verso le Comunità terapeutiche, i due destini disegnati per gli ospiti che hanno finalmente lasciato queste celle. Le prime riservate a chi è considerato socialmente pericoloso, le seconde per persone con maggiore autonomia e libertà di movimento.

 

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È stato l’ultimo, questo ospedale psichiatrico, a chiudere i battenti, dopo un lungo passaggio di consegne tra i ministeri della Giustizia e della Salute. Eppure è quello da cui tutto è partito, quando nel 2009 Ignazio Marino, allora presidente della Commissione parlamentare d’inchiesta sul Servizio sanitario nazionale, venne qui e trovò un uomo con le mani e i piedi legati con garze, sopra un letto di ferro arrugginito con un buco per le feci e l’urina. Da quella visita nacque il disegno di legge che prevedeva la chiusura dei sei ospedali psichiatrici giudiziari d’Italia. Chiusura fu la parola d’ordine. E chiusura è stata anche qui.

 

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Oggi questo complesso di quasi sessantamila metri quadrati nel cuore di Barcellona Pozzo di Gotto, quaranta chilometri da Messina, è diventata una casa circondariale – un carcere normale, cioè – dove sono reclusi duecentotrenta detenuti. E dove sopravvive però anche un reparto (per la burocrazia si chiama “articolazione della tutela della salute mentale”) in cui sono ricoverati i malati psichiatrici, «gente che si è ammalata durante la detenzione», spiega il direttore Nunziante Rosania, un omone grande e grosso al timone dell’istituto dal lontano 1989: in questo momento ne sono ricoverati settantadue, sessanta uomini e dodici donne tra cui anche i tredici “residui manicomiali”, seguiti da due psichiatri e da un pugno di infermieri, nell’attesa che la Regione metta a disposizione operatori socio-sanitari e tecnici della riabilitazione.

 

«I tredici vecchi internati – aggiunge Rosania – avrebbero dovuto essere trasferiti in una Rems a Caltagirone non ancora completata. Ma abbiamo trovato una soluzione, visto che tutti, tranne uno, alla luce di una verifica della loro condizione psichiatrica, sono risultati in condizione di transitare nelle comunità terapeutiche. Tra poco saranno dimessi». Gli altri duecentoquaranta che hanno lasciato queste sbarre, sono distribuiti tra Rems e comunità di tutta Italia, «e da lì mi scrivono, mi mandano gli auguri per il compleanno, chiedono e danno notizie». Qui, in questo enorme complesso costruito nel 1925 come manicomio criminale, dei sei reparti disposti a pettine in mezzo a uno spazio verde dove c’è pure un teatro spesso aperto alla città, ne sono attivi tre, uno per i detenuti in attesa di giudizio, gli altri due per i “definitivi”. L’altra metà del carcere è in ristrutturazione, e a lavorarci sono in gran parte proprio i carcerati, «almeno ottanta che vengono regolarmente pagati, alcuni anche del settore psichiatrico», aggiunge Rosania. E per chi vuole c’è anche la band musicale del cappellano. «Non esageriamo, la strada da fare è ancora lunga».

LA STAMPA

 

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