Prove tecniche di scissione nel partito democratico
Non è un caso che con il ritorno della proporzionale tornino anche le minacce scissioniste. La scissione è l’altra faccia della proporzionale: non è possibile che sia in vigore la seconda senza che qualcuno evochi la prima. Così come i sistemi maggioritari favoriscono le aggregazioni elettorali e puniscono le scissioni (anche se, ovviamente, non possono impedire che ci si divida una volta entrati in Parlamento), i sistemi proporzionali, all’opposto, penalizzano le aggregazioni e premiano le scissioni. D’Alema e i suoi hanno dapprima minacciato la scissione nel Pd, impegnando un braccio di ferro con Renzi sulla data delle elezioni. Più si ritarda il momento di andare al voto, più Renzi, nelle attese dei suoi nemici, si logora politicamente. Si capiva già da molti mesi che ci sarebbero state prove tecniche di scissione in caso di vittoria del no nel referendum e del conseguente ripristino della proporzionale. Alla fine, questa divisione del Partito democratico ci sarà o no? Molto dipende da quanti posti in lista saranno offerti alla sinistra interna da Renzi e dalla sua maggioranza. Se l’offerta sarà giudicata accettabile la scissione non ci sarà. Se verrà giudicata insufficiente la scissione sarà inevitabile. Per prevedere l’esito occorrerebbero tre informazioni: la prima riguarda le previsioni su quanto male una scissione, soprattutto al Sud (dove comandano molti nemici di Renzi, da de Magistris a Emiliano, allo stesso D’Alema) potrebbe fare al Pd, quanti voti potrebbe portargli via.
La seconda riguarda la tenuta della maggioranza renziana. Non solo per effetto della sconfitta nel referendum (le sconfitte indeboliscono il carisma personale) ma anche, ancora una volta, a causa del meccanismo proporzionale, la maggioranza renziana scricchiola e si divide. È un’altra delle «virtù» o dei «vizi» (scegliete voi) della proporzionale: non incentiva solo le scissioni, favorisce anche le divisioni e le tendenze centrifughe dentro le maggioranze. Se Renzi decidesse di resistere alle pressioni della minoranza potrebbe farlo solo mantenendo coesa la sua maggioranza. Non è affatto scontato che ciò sia possibile.
Da ultimo, per capire se ci sarà o no la scissione, bisognerebbe entrare nella testa di Renzi. Non in quelle di D’Alema o di Emiliano o altri. Costoro sono trasparenti, sembrano libri aperti. No, bisognerebbe capire che effetti ha avuto la sconfitta referendaria su Renzi. L’ex premier, nella sua fulminea carriera, si è sempre mosso come un giocatore d’azzardo impegnato in continui rilanci. E ha sempre vinto. Fino al referendum.
La domanda diventa allora: la sconfitta ha cambiato Renzi, ha definitivamente eliminato il giocatore d’azzardo? Se così fosse, allora non ci sarebbe alcuna scissione: Renzi cercherebbe un accomodamento con la sinistra interna, farebbe tutte le concessioni che essa pretende, si acconcerebbe al ruolo di re travicello, un segretario-portavoce (dei desiderata della ricostituita oligarchia partitica) anziché un capo. Magari, facendo questa scelta potrebbe anche durare per un po’ ma il nuovo Renzi non avrebbe più molto a che spartire con quello che abbiamo conosciuto. La seconda possibilità è che, metabolizzata la sconfitta referendaria, superata la fase di disorientamento, il giocatore d’azzardo torni in campo. In questo caso, non ci sarebbero concessioni e, anzi, il segretario si impegnerebbe per favorire (pur negandolo in tutti i modi, ovviamente) la scissione. Con lo scopo di giocarsi le sue carte elettorali «al centro», puntando di nuovo a fare quanto tentò (ma non gli riuscì) nel referendum: attirare voti da destra e da sinistra, i voti di tutti quelli che, a destra e a sinistra, più di ogni altra cosa temono un governo Cinque Stelle appoggiato dai leghisti.
Il Partito democratico è stato a lungo l’unico partito di una qualche consistenza (organizzativa e di insediamento sociale) sopravvissuto dopo la fine della stagione dei partiti forti (1948-1992). L’unico, ad esempio, che ancora poco tempo fa, era in grado di mobilitare — molto più e molto meglio di qualunque altro partito — i propri elettori al secondo turno delle elezioni locali. Tutto ciò è già finito o sta finendo. Siamo entrati da tempo nell’era delle fazioni travestite da partiti di massa. L’effetto è spesso involontariamente comico: i capi-fazione si atteggiano come se fossero i leader delle grandi organizzazioni insediate capillarmente sul territorio nazionale, esistenti alcuni decenni fa. Sono cerbiatti ma fingono di essere elefanti (o balene). Anche il Pd, con o senza scissioni, fa ormai parte dell’affollatissimo club dei partiti fragili, con un insediamento sociale debole e in via di dissolvimento, senza più solidi legami con gli elettori. Però, forse l’idea renziana del «partito della nazione», ancorché indebolita al momento dalle circostanze avverse, non era da buttar via. Come in passato, anche oggi le «dighe» potrebbero risultare di una qualche utilità.
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