Monito dei renziani a Gentiloni: “No a nuove tasse”
di GOFFREDO DE MARCHIS
LETTERE, documenti, assemblee di corrente alimentano il caos alla vigilia della direzione del Partito democratico, lunedì. Ma una mozione parlamentare svela che lo scontro potrebbe coinvolgere direttamente il governo Gentiloni. L’ha presentata il renziano Edoardo Fanucci.
Organizzatore di un’edizione della Leopolda e vicepresidente della commissione Bilancio. Ha raccolto finora 35 firme di deputati dem, principalmente di persone vicinissime al segretario del Pd (Morani, Parrini, Ascani, Fregolent tra gli altri) con qualche nome trasversale e qualche assenza significativa di onorevoli vicini al premier.
La struttura del documento, che sarà depositato la prossima settimana e per il quale si cercano altri firmatari fino alle 13 di oggi, è inequivocabile: il lungo elenco dei successi delle misure fiscali del governo Renzi (coronato ieri anche dal recupero record dell’evasione), il richiamo all’intervento di Pier Carlo Padoan al Senato in cui il ministro del Tesoro “ha descritto”, tra le misure dalla manovrina chiesta da Bruxelles, l’aumento delle accise su benzina e tabacchi per chiudere con l’impegno del governo a cambiare completamente rotta valutando “il reperimento delle risorse necessarie tagliando la spesa improduttiva” e continuando la lotta all’evasione fiscale. Il governo Renzi e il governo Gentiloni vengono dunque messi su due piani diversi e l’attacco all’esecutivo esce dal recinto delle chiacchiere tra renziani per finire in un atto parlamentare.
C’è la manina di Matteo Renzi in questa mozione? “No – dice Fanucci -. Ma io spero che sia d’accordo. È sempre stata la sua linea”. Una linea che il segretario del Pd conferma nei messaggini inviati in questi giorni ai suoi fedelissimi. La contrarietà alla manovrina fatta con le accise è dichiarata a gran voce, “bisogna contestarla in ogni occasione”, scrive l’ex premier invitando a fare dichiarazioni in tal senso. E amaramente Renzi aggiunge: “Se passa questo tipo di manovra è un disastro. Così si vanificano i mille giorni”. Dunque, il segretario “non mette il timbro su questa o su altre iniziative”, come dice, ma sicuramente lascia fare perché quella è la sua linea e il suo profondo convincimento. Occorre sganciare l’immagine del Partito democratico da interventi del genere, per non finire triturati nel consenso. E alla fine diventa un ulteriore argomento, molto politico e molto convincente per un partito che ha seguito la strada faticosa del taglio delle tasse, per dimostrare che andare alle urne subito, a giugno, sarebbe, potendo, la cosa migliore. Fanucci è un po’ dispiaciuto per una raccolta di firme che non ha scaldato il cuore del Pd: “Mi aspettavo più adesioni”. Magari qualcuno ha pensato che non fosse una buonissima idea mettere alla sbarra, in aula, il governo guidato da un dirigente del Pd. “Può essere – ammette Fanucci -. Ma non è quella l’intenzione”. Devono però averla interpretata così alcuni deputati vicini a Gentiloni: come Roberto Giachetti e Lorenza Bonaccorsi, la cui firma infatti non compare. O i parlamentari che sono sulle posizioni di Dario Franceschini, completamente assenti.
Non votare subito, sembra il messaggio dei renziani, comporterà un lungo cammino di simili incidenti e di incompresioni tra il vertice del partito e Palazzo Chigi. È un bene per il Pd, per il Paese, per le decisioni dell’esecutivo? L’intenzione di Renzi di dimettersi lunedì per aprire la stagione congressuale allontana il voto di giugno. Anzi, se le assise seguono il loro percorso naturale cancellano l’ipotesi. Ma è il rapporto tra il governo e la linea del leader a rendere difficile una lunga coabitazione.
Il Pd in questa fase è poi occupato a disegnare i suoi rapporti di forza. Non a caso i resoconti delle varie riunioni di corrente tenute in questi giorni, in vista della direzione, cominciano non con proposte o contenuti ma con i numeri. All’assemblea di Areadem (Franceschini) erano in 90 parlamentari. Ieri la riunione della minoranza bersaniana contava 100 partecipanti (compresi amministratori locali). La lettera dei senatori favorevoli al voto nel 2018 aveva 41 firme, più importanti di ciò che era scritto nel testo. Una lettera che a Largo del Nazareno è stata vissuta come un affronto, come una deviazione pericolosa dalla rotta prestabilita. Infatti si è dovuti correre ai ripari, su richiesta di Renzi e Orfini, con la lettera di 17, molti dei quali firmatari anche di quella di 41, per dire che votare presto è l’unico piano concreto. Il punto è che la segreteria assiste piano piano allo sgretolamento della maggioranza interna. E senza numeri, anche in direzione, si complicano tutti i disegni, sia i piani A che quelli B.
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