Tra i migranti fermi in Libia: “Il piano Ue non funziona. I soldi finiranno ai trafficanti”

francesco semprini
tripoli

Mousa è nato in Mali e ha 28 anni, è in Libia da due e lavora come addetto alle pulizie in un negozio di Tripoli, con la speranza di dare una svolta alla sua vita. Venerdì scorso è stato sequestrato da una banda specializzata in estorsioni a danno di migranti africani. I suoi amici hanno pagato 1300 dinari per la liberazione, il suo stipendio di tre mesi: porta evidenti i segni del trauma ma vuole raccontare la sua storia. Jane è una signora nigeriana che alcuni mesi fa ha salvato una connazionale ridotta a schiava del sesso dai trafficanti di esseri umani. L’ha assistita sino a quando non è stata rimpatriata. Come lei – racconta – ce ne sono decine che vengono abbandonate in fin di vita per la strada. Juliette e il marito sono profughi del Rwanda, l’anno scorso dopo l’ennesima irruzione delle milizie nella loro casa di Tripoli hanno deciso di attraversare il mare assieme alle due figlie.

 Volevano chiedere asilo in Italia, ma la loro storia non la possono più raccontare perché sono stati tutti inghiottiti dal Mediterraneo. Tre storie di ordinaria tragedia, come quelle dei 181 mila disperati sbarcati nel 2016 in Italia, e i circa 5 mila morti accertati in acque libiche. Numeri dinanzi ai quali l’Italia e l’Europa si sono finalmente attivate attraverso le intese con la Libia, sulla cui attuazione pesano però variabili e incognite.

 

L’Ue stanzia fondi affinché le autorità libiche gestiscano in maniera più efficace le attività di intercettazione dei migranti all’interno delle proprie acque territoriali, e li detengano o li rimpatrino. Il piano si espone però al fuoco incrociato di organizzazioni umanitarie del settore come Unhcr, Iom, Human Rights Watch, Msf, Amnesty International. Alcuni operatori attivi in territorio libico tengono a sottolineare i loro dubbi, evidenziando ad esempio «forti elementi di sofferenza della Guardia costiera libica, primo fra tutti la mancanza di mezzi navali ed equipaggiamenti adeguati, senza i quali il solo addestramento si rivelerà poco efficace». Pesa poi il morale dello staff libico, «messo alla prova dal mancato pagamento degli stipendi e dalla presenza di episodi di corruzione locale, agevolata dalla forte disponibilità economica dei trafficanti».

 

Un secondo elemento – spiegano fonti vicine alle autorità locali – riguarda la reale capacità di isolare i trafficanti e quindi di sostenere le comunità locali senza che i fondi vadano a finire nelle tasche di potentati locali o milizie». C’è poi il nodo dei centri libici di accoglienza/detenzione, noti per scarsità di risorse e condizioni inadeguate alla permanenza dignitosa dei migranti. «È sorprendente che non si prendano in considerazione ipotesi alternative alla detenzione, ovvero impiego dei migranti in lavori socialmente utili o strutture private, anche considerando i costi stratosferici della detenzione e rimpatrio – sempre minori che in Italia – ma pur sempre elevatissimi. Visto il numero crescente di migranti, presenti e in arrivo, ci chiediamo quale sarà il costo reale per la Libia, l’Italia e l’Europa».

 

C’è infine l’aspetto cruciale della genesi dei viaggi della speranza. Mousa, Jane e Juliette provengono dal «serbatoio», ovvero la fascia dell’Africa nera e subsahariana, che si estende dall’Atlantico alla Nigeria. Tutti hanno fatto tappa ad Agadez, in Niger, primo hub delle rotte della speranza, da dove il traffico si biforca. Una parte entra in territorio algerino e poi in Libia attraverso la provincia sud-orientale di Ghat, o attraverso il confine nord-orientale di Ghadames, la maggioranza invece sceglie di evitare l’Algeria, ed entrare attraverso il confine desertico-montuoso Niger-Libia sino a Sebha, principale snodo dei migranti in Libia.

 

L’accordo europeo al riguardo dedica un paragrafo specifico delle «Priorità» ai confini meridionali della Libia. «Un aspetto che dovrebbe essere prioritario, o almeno gestito in parallelo a quello relativo alla lotta agli scafisti». In questo senso, occorre ragionare come se oggi i reali confini dell’Europa non siano definiti dalla sponda sud del Mediterraneo ma si estendano alle frontiere di sabbia del Sahel. Finché la Libia non avrà trovato la sua stabilità».

 

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